Incontri coi popoli

Incontri coi popoli
Incontri coi popoli

Balcani occidentali 2013

4.970 Km in 18 giorni, 63 ore di guida fra 9 Stati, 6 capitali e 5 mari
(clicca sulla cartina per ingrandire)




  Balcani occidentali in foto   (clicca qui)




UN’AVVENTURA BALCANICA 


Partenza per il tour dei cinque mari, ma in realtà non ci immergeremo nelle acque; sarà piuttosto un’immersione nei territori, per certi versi misteriosi e affascinanti, dei Balcani occidentali. Il viaggio si snoda attraverso nove Stati:  Slovenia, Croazia, Serbia, Bulgaria (con sosta a Plovdiv, ospiti del nostro carissimo amico Adalberto), Turchia, Grecia, Albania, Montenegro, Bosnia-Erzegovina, e poi nuovamente Croazia e Slovenia. Paesi nati dalla dissoluzione della ex-Jugoslavia, democrazie spuntate dopo il crollo della Cortina di Ferro, una nuova Europa in cerca di una sua identità nel mezzo di una crisi economica che morde da cinque anni. Scopriremo un Paese da sempre nella UE (Grecia) che sembra annichilito e incapace di guardare avanti; attraverseremo uno Stato come la Bulgaria, che ci fa chiedere ad ogni chilometro come e perché è entrato nella UE; un Paese come la Turchia che prosegue nel suo sviluppo, sotto lo sguardo severo e onnipresente di  Atatürk; uno Stato come l’Albania che sembrava irrimediabilmente ostaggio del suo passato di povertà e arretratezza e che invece dimostra come si possa, anche con poco, nelle piccole cose di ogni giorno, proseguire nel difficile cammino della democrazia e del riscatto sociale; e le perenni contraddizioni del mondo slavo, i medesimi fanatismi, odii secolari puntualmente riattizzati, laddove basta una segnaletica bilingue a scatenare rancori e nemmeno troppo malcelate insofferenze. I morti di vent’anni fa non sono bastati…
La prima tappa sarà Belgrado, ma già pensiamo al momento in cui finalmente vedremo il cartello “Istanbul”. Siamo incerti se spingerci fino al Bosforo o meno: i recentissimi notiziari, che narrano di frequenti e quasi quotidiane manifestazioni in città, ci inducono a continui ripensamenti; e poi c’è la guerra in Siria, Paese confinante con la Turchia; gli ultimi lanci delle agenzie riportano una frase del premier turco Erdoğan molto esplicita: “La Turchia sarà al fianco di qualsiasi Governo che interverrà militarmente in Siria”. La situazione è già molto calda a Istanbul e ad Ankara: il rischio di attentati, soprattutto in luoghi affollati, è significativamente alto. Decideremo all’ultimo momento se varcare il Corno d’Oro. La mente corre poi alla fine del tour, dove riposeremo corpi e menti nel paradiso dei laghi di Plitvice. Ma andiamo con ordine..

5.9 SLOVENIA
Il nostro fidato Patrol ha superato egregiamente il consueto check-up e, finalmente, alle ore 12.30 del 5 settembre, si parte. Appena uscita dall’ufficio, trovo Max ad attendermi col motore del Nissan impaziente di partire verso una nuova, lunghissima avventura.
La giornata è calda e assolata. Dopo nemmeno quindici chilometri, entriamo in Slovenia. Causa l’assenza di traffico, visto anche l’orario e la giornata infrasettimanale, si svolgono veloci le operazioni di routine (il pieno di gasolio, l’acquisto della vignetta e l’indispensabile scorta di caramelle, molto utile per il lungo viaggio). Fatta una manciata di chilometri, ci fermiamo per fissare sul cristallo anteriore la vignetta, prima di prendere l’autostrada che ci porterà prima a Ljubljana e successivamente dopo diverse ore a Belgrado. Approfittiamo della sosta anche per sorseggiare qualche bibita fresca ed appurare così il buon funzionamento del nuovo frigo da viaggio. Una ventina di minuti dopo, siamo di nuovo in partenza.
Primo contatto con la crisi economica, che miracolosamente sembrava non aver intaccato questo piccolo e verdissimo Stato. Nella sonnacchiosa e soleggiata campagna slovena, osserviamo la notevole quantità di immobili che sono spuntati come funghi negli ultimi anni, soprattutto complessi di appartamenti e villini, a volte del tutto pretenziosi. Dopo anni di euforia economica, anche qui la bolla immobiliare è scoppiata e quello che sembrava un paese dalla florida economia, si è rivelato fragile come tanti altri. Non si contano più ormai i numerosissimi cartelli “na prodaj” (in vendita), alcuni arrugginiti, appesi su immobili che difficilmente troveranno un acquirente.
Arriviamo al confine di Bragana, fra Slovenia e Croazia; nonostante la Croazia sia il nuovo membro della UE, lo “spazio Schengen” non è ancora in essere, e quindi il posto di controllo rimane; ma è solo pura formalità e lo passiamo in un attimo.

CROAZIA
Il viaggio in Croazia prosegue tranquillo, traffico scarso per non dire quasi inesistente. Attraversiamo la verde sub-regione croata della Slavonia, zona collinare ricca di foreste, con vaste conche pianeggianti ove scorre il fiume Sava, affluente del Danubio. Transitiamo alla periferia di Zagabria per non rimanere imbottigliati dal traffico caotico della capitale. I Km scorrono veloci, eppure appena superata la città di Novska, decidiamo di fare una seconda sosta. Sono le 17.00. Max manifesta i primi segnali di insofferenza nel guidare tante ore in autostrada. E’ sì comoda, veloce, scorrevole, liscia, ma di una tal noia… Mai stato tanto insofferente in autostrada come quest’anno! Altra mezz’ora fermi in un’area di sosta a bere qualcosa di fresco e interrompere così la monotonia del viaggio. Nella morbida luce di un tramonto di fine estate approdiamo a Osijek alle 19.00, e decidiamo di fermarci qui per la notte. Per questo viaggio, tanto per vedere l’effetto che fa, Max si è appoggiato a un motore di ricerca per il calcolo di distanze e chilometri. Evidentemente, il programma di calcolo ha una visione molto ottimistica del mondo….  Il risultato è che dopo sei ore e mezza di marcia sostenuta e con due soste di complessivi quarantacinque minuti siamo arrivati appena a Osijek. E siamo ben lontani dalla capitale serba come pronosticato dal computer! Purtroppo strada facendo, scopriremo che non sarà l’unica volta che il programma si è mostrato ottimista circa i tempi di percorrenza!
Nella ricerca di un posto dove dormire, tocchiamo con mano quanto la guerra tra Croati e Serbi abbia infierito pesantemente in città; segni di granate e case crivellate dai proiettili sono ovunque, muti testimoni di un passato che sarà impossibile da dimenticare per chi ha più di vent’anni. Troviamo un alberghetto un tantino insipido (Hotel Drava), ma con comodo parcheggio interno e personale anglofono. Un giretto in centro ad osservare vetrine che, nella composizione e disposizione di arredi e articoli, sembrano le stesse che vedevamo ai tempi della vecchia Jugoslavia di trent’anni fa. Ci assale la “Jugonostàlghia”…. In città si respira un’aria immobile; non capiamo se è per colpa della pesante crisi economica che martella anche questo Paese, o se è soltanto un essere in “surplace” in attesa dei fondi strutturali e di coesione spettante a questo nuovo membro della UE. Forse, è solo l’umidità del fiume…
In un attimo fa buio e ci stupiamo per la scarsa illuminazione di strade e locali; la cittadina sembra vivere in un perenne coprifuoco. Spicca solo il campanile in mattoni rossi della cattedrale neogotica, il secondo più alto della Croazia dopo quello della cattedrale di Zagabria; a parte lo sferragliare di coloratissimi tram, il centro, scuro e deprimente, non offre granché. Magari con la luce del giorno si rivestirà di vita e colore ma, nel buio delle 21.00, di attrattive non ne scorgiamo, nemmeno i ponti sulla Drava. Ci ristoriamo con due pizze giganti e buonissime, e quattro Osječko in bottiglia, il tutto per 17 euro.

6.9 
Di buon mattino, dopo un’abbondante colazione, saldiamo il conto (561 kune, 74 euro! Alla faccia dell’alberghetto insipido). Consegnata la chiave, vedo che la altrettanto insipida receptionist rimane incollata con lo sguardo sui miei capelli, già terremotati. Un fugace sorriso e le scappa un “I like your hair!”. Ringrazio la biondina e partiamo alla volta della Serbia, destinazione Danubio, fortezza di Golubac, le mitiche Porte di Ferro….  
In teoria, oggi il programma di viaggio dovrebbe portarci a Plovdiv, in Bulgaria, invece non siamo nemmeno a Belgrado! Intuiamo che questo viaggio sarà molto più lungo di quanto preventivato e trascorreremo diverse ore seduti in macchina per rispettare la tabella di marcia. Per arrivare a Plovdiv, dovremmo prima transitare nelle città di Vukovar e Belgrado, e poi giungere alle leggendarie Porte di Ferro sull’altrettanto leggendario Danubio (qui chiamato Dunav), che con le sue ampie anse disegna il flessuoso proseguire. Appare subito chiaro che stasera non arriveremo dall’amico Adalberto a Plovdiv, visti i notevoli chilometri che ci separano, ma cercheremo di mantenere una non troppo insuperabile distanza.
Arriviamo dunque a Vukovar, “la Martire”. Capitiamo in mezzo ad una manifestazione di protesta: agenti di Polizia pesantemente armati presidiano parecchi quartieri; neri striscioni minacciosi contro l’introduzione del doppio alfabeto (latino e cirillico) sui segnali stradali nelle zone di confine con la Serbia; la gente (croata) non vuole vedere cartelli stradali bilingui e si oppone con durezza alla legge che impone (come da normativa europea) il bilinguismo in zone confinarie (tra l’altro, Vukovar ospita una nutrita popolazione serba). Un odio atavico che non si riuscirà mai a sradicare. Incontriamo parecchi edifici sventrati dalle granate e dai colpi di mortaio, residui della guerra; le vecchie case con i fori dei proiettili stuccati spiccano tra villini nuovi e moderni, casette ignare del dolore e della pazzia, al pari degli adolescenti contestatari, che conoscono la storia solo perché raccontata dai loro padri. La Croazia è ad un passo da una gravissima congiuntura economica, la disoccupazione supera il 20%, un ex primo ministro è stato recentissimamente condannato a dieci anni per corruzione, eppure – magari sbaglieremo – l’impressione è che per la gente di qui tutto questo passi in secondo piano rispetto al problema della doppia segnaletica e del bilinguismo. Di fronte a tutto ciò, ci chiediamo come questo Stato possa affrontare un impegnativo futuro comunitario e moderno se resta tuttora ancorato all’odio etnico, non di vent’anni fa, ma secolare… Foto di rito per “non dimenticare” e via a riprendere l’autostrada per Belgrado. In meno di un’oretta, arriviamo sul confine croato-serbo di Lipovac. Zdravo Hrvatska! (ciao Croazia).

SERBIA
Il tratto di autostrada verso la Serbia lo percorriamo in solitaria: nessun veicolo davanti, nessun veicolo dietro; sembra di essere soli al mondo, i sopravvissuti a un qualche olocausto. Verso l’ora di pranzo guadagniamo il confine serbo.  Poco traffico in entrata, parecchio in uscita. In coda, scorgiamo i doganieri sotto la pensilina, loro scorgono noi e ci puntano con lo sguardo. Chissà perché abbiamo la sensazione che finiremo sotto le loro grinfie… Infatti! Il poliziotto addetto al controllo passaporti, in un quasi perfetto italiano, ci fa cenno di accostare. Cinque armadi a due ante ci circondano e ci chiedono, con molta professionalità, di scendere per un controllo dell’auto. Infilano le mani nei portaoggetti delle portiere, sopra e sotto i sedili, nei parasole…  Sempre con fare gentile, ci chiedono di sistemare sopra una panchina tutti i bagagli contenuti nel baule per il controllo. E, con delicatezza, controllano sul serio tutti i bagagli, persino nella bustina dei cerotti e nel pacco regalo che abbiamo preso per la figlia degli amici bulgari.  Il tutto dura una ventina di minuti. Sfogliando i nostri passaporti e osservando i numerosi timbri (e i visti per la Russia) ci chiedono chi siamo, dove andiamo, perché ci andiamo, poi, sempre in inglese: “You are journalist?” risposta: “No, i’m traveller… look!” e gli indico l’adesivo del tour Siberia 2008. Quella scritta fa sempre colpo e così, con apprezzamenti a mezza voce da parte del doganiere più giovane, e aver caricato nuovamente tutti i bagagli, riprendiamo la marcia alla volta del Danubio.
Commentiamo subito dopo il confine che il controllo sarà anche stato minuzioso, ma non ci hanno fatto aprire il cofano motore, non hanno badato allo snorkel, ma soprattutto, non ci hanno perquisito. Ma con un controllo così accurato, non avrebbe dovuto avvalersi anche di un cane antidroga? Boh. Magari cercavano altro..
Per strada non incontriamo quasi nessuno e la marcia procede svelta. Nei pressi di Belgrado, ripetiamo la stessa operazione già messa in atto a Zagabria, cerchiamo di tenerci alla larga dal centro e quindi rimaniamo all’esterno aggirandolo senza mai uscire dall’autostrada e puntare così in direzione Požarevac e quindi poi verso V. Gradište, costeggiando così il Danubio nel suo corso. La zona della Serbia da noi attraversata, fino a Belgrado, corrisponde all’ampia pianura pannonica, in comune con l’Ungheria e la Vojvodina. Paesaggio alluvionale e uniforme, molto verde e dal caldo afoso, un tempo la zona veniva definita la “Mesopotamia jugoslava”, proprio per la confluenza di parecchi fiumi (Sava, Drava e Danubio). Siamo fortunati, il clima continentale, con le sue estati roventi, ci concede tregua e perciò il viaggio prosegue con una temperatura ottimale. Qua e là la steppa appare nella monotona pianura alluvionale, e ci ricorda un po’ la pustza ungherese. Brevemente, ci immergiamo nel caotico traffico della capitale serba, tra palazzoni real-socialisti e modernissime architetture. La Serbia è uno dei Paesi balcanici più duramente bastonati dalla crisi economica mondiale ma, incredibilmente, è riuscita a rimanere  a galla anche grazie alle esportazioni dello stabilimento Fiat di Kragujevac… Rotta est-sud-est, seguendo il corso del grande Danubio.
Nel primo pomeriggio arriviamo alle mitiche Porte di Ferro! E’ dalle elementari che sento parlare di questo luogo leggendario e della fortezza medievale semisommersa di Golubac e, finalmente, ci siamo arrivati! La giornata, sempre splendida, ci regala scorci e immagini meravigliose, peccato che la Nikon abbia deciso di fare le bizze e pertanto qualche scatto non sarà nitido…. Constatiamo la pochezza di ricezione turistica (leggi: una sola bancarella di poverissimi souvenir risalenti alla vecchia Jugoslavia, niente punti informativi, solo alla fine della zona archeologica compare un ristorante, affollatissimo di gente e pullman); a contraltare, decine d’irriducibili pescatori a riva, attrezzatissimi con centinaia di canne, roulotte, tende, barbecue… Se, da un lato, la desolazione aumenta il fascino un po’ truce e “carpatico” della zona, dall’altra un minimo di promozione informativa non avrebbe guastato… Bastava un cartello almeno bilingue e la gente ne avrebbe saputo di più.
Ci godiamo per un po’ questo maestoso spettacolo di storia e natura e constatiamo che il Danubio… è sempre blu; la riva opposta è già Romania e l’Unione Europea si fa annunciare da una selva di pale eoliche… Ci chiediamo quanta gente avrà raggiunto clandestinamente la sponda opposta, sognando magari un futuro migliore, e chissà quali contrabbandi consentono di sbarcare il lunario…
Il bellissimo fiume, davvero grande e profondo in qualche tratto, si snoda placido attraverso le gole del parco Đerdap (Đerdapska klisura in serbo, Porţile de Fier in romeno), e le falesie sovrastanti raggiungono la ragguardevole altezza di 500 metri a strapiombo sul secondo fiume d’Europa. Ancora una piccola sosta alla gola Kazan, famosa perché è la gola più stretta dell’intero percorso; la distanza che separa le due rive è di soli 150 metri e il fiume raggiunge la davvero ragguardevole profondità di 53 metri!
Con poco traffico, ci lasciamo alla nostra sinistra uno dei nuovi ponti con la dogana verso la Romania e proseguiamo, sempre quasi da soli a parte qualche ciclista avventuroso, alla volta del confine bulgaro. Curva dopo curva, al crepuscolo, arriviamo prima a Negotin e poi a Bregovo, dove finalmente, dopo una ventina di chilometri saremo a Vidin, prima città bulgara. La strada, che taglia numerosi campi coltivati, è buia, piena di buche, una classica strada da contrabbandieri. Infine, nell’oscurità della campagna serba, intravvediamo delle fioche lucine in lontananza: sarà mica il confine? Esatto: quattro pali della luce, una casupola e il confine tra ex Jugoslavia e Unione Europea è servito! La scena ha un che di surreale; arriviamo attorno alle 20.00, non c’è nessuno in giro, ci troviamo da soli davanti alla sbarra abbassata e aspettiamo il movimento di qualcuno. Max spegne il motore, scende e si avvia verso la casermetta illuminata all’interno; in quello stesso istante escono due figuri. Nel cono di luce proiettato dall’unico lampione della dogana, ci siamo noi, un doganiere panzuto (e scamiciato, senza cravatta e con nessuna voglia di controllare alcunché), una Lara Croft dei Balcani (bella poliziotta spilungona dai capelli rossi e pistolone sulla coscia destra) e… un cane festoso, l’unico del trio serbo a mostrare un qualche interesse. Parlottano un po’ fra loro, lei ci controlla svogliatamente i passaporti e decidono di non far niente. Nessun controllo al mezzo né a noi. Dopo dieci minuti ritengono di averne abbastanza e ci fanno partire. Hvala, zdravo Srbija! (Grazie, ciao Serbia!).
  
BULGARIA
Dogana bulgara ancora più folkloristica: noi sempre da soli, mezzo personale a guardare la tv (partita di calcio Italia-Bulgaria…), l’altro mezzo sugli scalini di fronte ad osservare quei singolari turisti arrivati dall’Italia  (cioè noi). Funzionari più gentili e parlanti un po’ d’italiano ci ricordano che dobbiamo fare la vignetta (5 euro per sette giorni). Max rimane accanto al fuoristrada mentre i funzionari controllano sommariamente il mezzo e leggono gli adesivi, commentando qualcosa fra loro, io vado a procurarmi la vignetta. Non so perché, al funzionario addetto mi rivolgo in tedesco, lui mi risponde in bulgaro “papir za avto” (ci vuole la carta di circolazione), torno con la carta, pago in euro, ringrazio in italiano e poi  via nel buio della campagna alla volta di Vidin. Primo contatto con la lingua e scrittura bulgara: molte parole sono simili al russo, altre al serbo croato, l’alfabeto è quasi del tutto identico al cirillico russo ma dalla pronuncia molto più semplice. Vado sul velluto.
Cerchiamo la cittadina di Vidin, sempre nel buio più totale. Arriviamo in città e giriamo un po’ col Patrol prima di trovare un albergo. Qui siamo molto vicini alla Romania e alla città di  Calafati, anche se c’è sempre il Danubio a far da confine naturale.
Girando per città, imbocchiamo una stradina che ci porta direttamente a una mega festa all’aperto. Centinaia di auto transitano sulla nostra stessa strada e tutte stanno cercando un parcheggio. Noi vorremmo solo uscire da questa bolgia. Alla fine ci riusciamo e quasi per sbaglio troviamo l’hotel Bononia, reperto architettonico da socialismo reale; vista l’ora (le 21.00) e nessuna voglia di cercare di meglio, ci accontentiamo volentieri. Con un po’ di fatica da parte della receptionist (fuori c’erano diversi pullman) riusciamo a farci dare una camera per la notte, camera che raramente deve aver visto aspirapolveri e viakal…
Rimandando a dopo cena lo scarico bagagli, andiamo direttamente in ristorante a metter qualcosa sotto i denti. Ovviamente, il mega schermo tv trasmette la diretta della partita Italia-Bulgaria, per i bulgari si sta mettendo male. Ci scherziamo un po’ sul fatto della nostra incolumità e quella del Patrol. La cena ci costa poco. L’equivalente di 15 euro per una speziatissima pljeskavica, patatine fritte, filetto di maiale, quattro birre grandi e una piccola, e un gelato. Costi che in Italia, così ce li sogniamo da anni. L’albergo invece ci costerà (con una colazione da dimenticare) 20 euro, più 1 lev (quindi al cambio 39 leva). Iniziano ad arrivare sempre più numerosi gli sms di Adalberto che ci chiede dove siamo, e fra quanto tempo ci vediamo. Non vediamo l’ora di poterlo riabbracciare! Lui più di tutti ha creduto nel nostro progetto del viaggio in Siberia, ci ha sostenuti e contagiati con la sua passione per la Russia intera, ci ha entusiasmato con i suoi racconti di viaggiatore indipendente. Ci conosciamo ormai da 5 anni ed è tra i nostri amici più cari di sempre.

7.9 
Il clima ci assiste e, nello splendore di una giornata fresca e tersa, ci rendiamo conto di attraversare la zona più depressa dell’intero Paese. Il primo tratto di Bulgaria (da Vidin a Montana) si srotola attraverso una magnifica foresta di pura quercia, da Europa primigenia; dal fresco delle alture si passa al caldo afoso della pianura; degrado, sporcizia, villaggi miserabili di zingari, contrastano con una campagna povera ma che nel complesso sembra curata e lavorata; catapecchie gitane e casette bulgare, con giardinetti, ciuchini e carretti con i cavalli; ci chiediamo come gli zingari facciano a vivere a tutt’oggi in un contesto di degrado, squallore e soprattutto tanta sporcizia, che sembra appartenere ad altri luoghi, altri tempi. Benvenuti in Bulgaria, lo Stato più povero dell’intera UE…. Lungo la strada ci lasciamo alle spalle delle singolari formazioni rocciose e colline particolari e giù, a valle, sullo stradone principale, come uno schiaffo in pieno viso, la cruda realtà locale ci viene sbattuta in faccia. Parecchie decine di “lucciole”, sia zingare sia caucasiche, merce esposta in pieno giorno…. Sarà che non ci siamo abituati, che almeno dalle nostre parti cose simili non accadono, ma la visione di decine di ragazzine, alcune poco più che bambine, letteralmente mezze nude, buttate in mezzo alla strada come vacche al mercato è un pugno allo stomaco. Quante bastonate, quanti soprusi e violenze dietro ai loro sorrisi di fanciulle e ai loro festanti saluti con la mano? Sinceramente intristiti, proseguiamo per Sofia, altra città sommersa da proteste da parecchi mesi: il rincaro abnorme del costo dell’elettricità prima, la nomina, (poi revocata) di un pupillo dell’intellighenzia a capo dei servizi di “intelligence” poi, hanno dato la stura al malcontento popolare, con poveri disperati, pensionati alla fame, studenti e ceto medio assieme a protestare a gran voce di essere stufi di uno Stato governato da un’élite monolitica, chiedendo nuove elezioni, nuova classe dirigente, trasparenza…. A più di vent’anni dalla caduta del regime comunista, in Bulgaria, il più allineato tra gli allineati, nemmeno qui sembra che le cose siano cambiate molto. Giriamo per il centro, davvero monumentale e molto bello e dalle splendide basiliche, ma l’intenso traffico e la difficoltà di trovare un parcheggio, ci fanno desistere dal cercare un luogo dove fermarci per un boccone; Sofia merita comunque una visita, promettiamo di ritornarci in un prossimo futuro. Imbocchiamo l’autostrada, nel traffico scorrevole alcune scenette ci strappano un sorriso: la prima è di un’automobile che ci supera con una bara, perfettamente incellophanata, sul portapacchi; la seconda è ancora più mitica: una pattuglia della polizia stradale, ferma nella zona di spartitraffico; viaggiamo nei limiti e quindi non ci preoccupiamo, quello che ci inquieta è il singolare attrezzo che sovrasta la volante: avvicinandoci, ci accorgiamo che la pattuglia, regolarmente seduta nella vettura, si fa ombra dal sole tardo estivo con un bellissimo ombrellone da spiaggia, con tanto di base, e tenuto in posizione da uno dei poliziotti, con un braccio che sbuca dal finestrino…. Logico chiedersi, in caso di chiamata, quali siano i tempi di reazione. Grandissimi!
Gli sms di Adalberto iniziano a fioccare, ci dà indicazioni su quale uscita prendere per Plovdiv e sul luogo del nostro rendez-vous. Ancora sorridenti per l’incontro con la singolare pattuglia balneare, imbocchiamo il vialone che ci porterà direttamente nella seconda città della Bulgaria per grandezza. L’appuntamento è davanti ad un grande albergo, altra bruttura real-socialista, parcheggiamo e vediamo il nostro amico arrivare a piedi. Grande emozione, baci, abbracci e strette di mano, tante cose da raccontarci e consolidare ancora una volta quel legame che ci unisce. Sempre a piedi, e noi dietro in auto, ci accompagna a parcheggiare la jeep. Troviamo posto a meno di cinquanta mt. da casa sua, in piena curva, davanti alla vetrina di un negozio; ci sembra un luogo un tantino precario, ma lui ci rassicura che il parcheggio è ok. Saliamo a piedi i quattro piani (oggi l’ascensore non funziona) e conosciamo così la sua nuova famiglia. Milena, sua figlia Laura e il gatto Kikko. C’è subito feeling con tutti, oddio, forse con Kikko ancora no. Dopo le presentazioni, una birra fresca è ben gradita. Ci accompagnano nell’appartamento che occuperemo per due notti. Tempo di scaricare le valigie dalla macchina, darci una rinfrescatina veloce, e siamo pronti per un giretto per la città tutti assieme. In un cambio valute del centro, cambiamo un po’ di euro, anche per prender un po’ pratica con la nuova moneta (lev), e poi via a far due passi sul lungofiume Maritsa (che denuncia un riprovevole stato d’abbandono) attraverso un simpatico ponte coperto, pieno di negozietti, stile “Ponte Vecchio” di Firenze, ma in salsa balcanica; e poi giù, verso la pedonale Daskalov e sulla Alexandăr a far acquisti di prodotti a base di estratti di rosa, fino ad arrivare alla grande piazza Tsentralen per poi tornare a casa loro per la cena. La rosa bulgara (Rosa Damascena) è famosa perché dai suoi petali si ottiene il tanto rinomato olio essenziale, indispensabile nell’industria profumiera e dolciaria di tutto il mondo, ed è veramente il migliore. Una tonnellata di petali per produrre un litro d’olio essenziale… Nonostante la sua preziosità, il negozio offre i prodotti alla rosa a prezzi abbordabili: inevitabile farne man bassa!
Il centro storico è stato pedonalizzato e molti degli edifici sono stati sottoposti a restauro, ma parecchie facciate scrostate e con crepe varie tradiscono la vera epoca dei restauri. Enormi contrasti: mega casinò stile Las Vegas in pieno centro, ma per raggiungerlo si deve fare una gimcana su dei marciapiedi che definire tali è fargli un complimento, lavori in corso infiniti, cantieri precari e pericolosi, limousine e berline dai vetri scuri sfrecciano su strade abbastanza caotiche e mal tenute. Non ci stupiamo, abbiamo abbastanza esperienza di Est-Europa del post-Cortina di Ferro, perciò… nulla di nuovo. E’ però inevitabile fare un raffronto con un altro Paese slavo “d’oltre cortina”, la Polonia; guardandoci attorno, nell’incuria che ci circonda, lo Stato baltico al confronto sembra la Svizzera. Eppure, ci racconta Milena, ai tempi del regime tutto era in ordine, pulito, ordinato….
Nonostante ciò, le  vie pedonali sono carine e danno ragione al detto che descriveva Plovdiv “la Parigi dell’Est”. Scopriamo splendide vestigia romane, i resti di una specie di Circo Massimo interrato, oggi usato come set fotografico per una coppia di neo-sposi, una singolare moschea con meridiana angolare, lo spazzacamino benaugurante, la targa ricordo di quando il tedoforo passò in città per le Olimpiadi di Mosca del 1980, e poi il monolitico palazzone delle poste in bianchissimo calcare, un’originale ragazza-mimo e poco distante un mosaico che suggellava il gemellaggio tra Plovdiv e Leningrado… Un concentrato di storia a chilometro zero. Adalberto e Milena ci fanno da ottimi ciceroni, una vera miniera di storia e cultura passata e presente da gustarsi assieme a delle rinfrescanti birre bulgare Kamenitsa, in uno dei tanti bar all’aperto.

8.9 
Domenica mattina, ci alziamo presto per visitare il monastero di Bačkovo distante una trentina di km da Plovdiv. Dalla finestra del nostro appartamento, osservo diversi zingari con indosso una pettorina arancione: chi spazza le strade, chi rovista tra i cassonetti dei rifiuti… Veniamo a sapere che qui in Bulgaria gli zingari lavorano tutti: pulizia, appunto, delle strade oppure fanno la raccolta differenziata: cioè rovistano nei cassonetti alla ricerca di alluminio, carta e cartone, vetro, metallo… da portare poi ai centri di raccolta e guadagnare qualche soldo. Il resto lo vendono nel loro mercato domenicale che, a quanto ci racconta Adalberto, è una vera miniera per le occasioni e gli affari, soprattutto modernariato e memorabilia del passato regime. Ci sarebbe piaciuto visitarne uno, ma forse il monastero è più significativo. Saliamo nella Kangoo di Adalberto e, dopo una trentina di km direzione sud, siamo a Bačkovo. E’ il secondo monastero ortodosso in ordine di grandezza dopo quello di Rila. Lo stile romanico ci conferma la vetustà della costruzione, risalente ai primi anni del 1000. Dopo 500 anni di dominazione turca, anche questo monastero ha subito devastazioni e saccheggi. Importanti restauri hanno ridato vita a queste sacre mura. Nonostante fossimo arrivati molto presto la mattina, ci sono già tanti pellegrini e fedeli a intasare i parcheggi riservati, e una piccola folla si è radunata nel cortile interno. Non si possono scattare fotografie né nel cortile né all’interno della chiesa. Io tento lo stesso di rubare qualche scatto e mi becco pure una sgridata dal sorvegliante, nonostante fossi circondata da bulgari che scattavano foto col telefonino…  Saltiamo una fila di devoti per entrare nella chiesa: la fila è tutta di pellegrini e fedeli che vengono fin qui a venerare un’icona della Madonna incastonata nell’argento, con tanto di offerte e bacio all’icona. Assistiamo per pochi minuti alla messa nella chiesa stracolma di gente; la chiesa è splendida, tutta affrescata, ma gli affreschi si possono soltanto immaginare, coperti come sono da una spessa cappa di fuliggine prodotta dalle candele di cera d’api e dai fumi dell’incenso. Pensiamo a quanto lavoro si potrebbe dare a centinaia di ragazzi, studenti di belle arti, restauratori e laureati, per ripulire e riportare a nuova vita queste meraviglie… Dov’è l’Europa, qui? Usciamo dalla chiesetta e facciamo il giro dell’edificio: Adalberto ci racconta che in questo monastero è possibile pernottare a prezzi modici e c’è pure la mensa (ce n’eravamo accorti, nel giardino siamo avviluppati da un inequivocabile aroma di minestrone col dado….). Uscendo, ritroviamo le bancarelle che propongono souvenir di tutti i tipi. Noi cerchiamo qualcosa di tipicamente bulgaro; saltiamo a piè pari oggetti di dubbio gusto spacciati per sacri, t-shirt e paccottiglia varia (anche numeri civici su metallo smaltato), e ci concentriamo su del vasellame con decori davvero originali. Scelta difficile, ma alla fine riesco a decidermi e faccio man bassa di ciotole e pentole di coccio a prezzi modicissimi. Acquistiamo anche dell’ottimo miele di abete, scuro e balsamico. A pranzo ci fermiamo a mangiare in un locale all’aperto: ottime trote grigliate, accompagnate da buona birra, mentre Adalberto preferisce bere ayran, una sorta di yogurt allungato e salato, dissetante e nutriente. Ci ricordiamo che la Bulgaria è anche la patria dello yogurt, qui infatti fu isolato il Lactobacillus Bulgaricus! Sulla strada del ritorno, ci fermiamo su un cavalcavia, sovrastante una caserma. Non che ci importi granché delle forze armate bulgare, ma Adal ci indica un parco veicoli militari d’antan davvero impressionante! Veri pezzi da museo, da far felici schiere di appassionati di “militaria”, parcheggiati nel cortile della caserma, ormai inutilizzati. Nemmeno il tempo di scattare due foto che subito salta fuori un militare armato, piuttosto bellicoso. Saltiamo svelti nel Kangoo, ad evitare una raffica di kalashnikov, questa sì sempre attuale. Al ritorno, a casa a prendere fiato, una rinfrescata, e  via per una cena fuori a base di “tza tza”! Percorriamo mezza città in macchina, alle prime luci della sera passiamo per quartieri non propriamente raccomandabili, ma ci dicono che di solito non ci sono problemi… Durante il tragitto, Milena ci spiega che gli tza-tza sono dei pesciolini che si mangiano fritti, specialità del ristorante verso il quale ci dirigiamo; hanno prenotato con anticipo, dato l’alto afflusso di clientela. Eccoci tutti seduti all’aperto e.. tza-tza per tutti! Scopriamo che questi pesciolini fritti sono simili a quelli che si pescano dalle nostre parti, e che noi a Trieste conosciamo col nome di “ribaltavapori” (in italiano: latterini), con una differenza: quelli dell’Adriatico sono amarognoli, questi del Mar Nero sono invece quasi dolci, fritti benissimo e, con bei boccali di Kamenitza fredda, uno tira l’altro! Tra una chiacchiera e l’altra, i pesciolini spariscono in fretta! Per il dessert, ci spostiamo invece in un altro locale-novità, una birreria autentica bavarese, con birra di propria produzione e le cameriere tutte vestite in costume tipico. Questa dovrebbe essere l’ultima notte a Plovdiv, ma un po’ per le insistenze di Ada e di Milena, un po’ per i disordini che stanno accadendo a Istanbul, decidiamo di rinunciare alla metropoli turca e di rimanere ancora una notte in questa città con i nostri amici. Detto fatto.

9.9 
Giornata dedicata alle meraviglie della città vecchia, come antiche chiese e le caratteristiche case della Plovdiv antica: singolare architettura che sa di un misto di balcanico e ottomano. Ci si arrampica a piedi sulle strade acciottolate dove incontriamo prima l’Accademia di Musica, la casa dove ha soggiornato il poeta francese Lamartine, durante il suo “Voyage en Orient” nel 1833, e visitata anche dal fu presidente francese Mitterand, e poi il maestoso Anfiteatro romano, incredibile teatro scoperto per puro caso nel 1972, a causa dello smottamento di una collina! Il teatro è stato restaurato e tuttora viene usato per spettacoli all’aperto. Minuscolo e di singolare verticalità, ma molto suggestivo. Passo dopo passo, incontriamo numerose case museo, tutte deliziose,  fino ad arrivare a delle antiche rovine in cima a un colle, uno dei sette che circonda Plovdiv, proprio come Roma, rovine datate 7.000 anni fa. Ancora a zonzo per le belle e acciottolate viuzze con l’acquisto di souvenir. Entriamo anche in una curiosa bottega di un’antica casa (in origine, un carcere), dove una bella e giovane signora mora lavora a delle ceramiche. Ci racconta delle difficoltà di vendere ai turisti e di come campare dopo la morte di suo marito, artista pure lui. Assistiamo in diretta alla creazione di una brocca al tornio. Sembra di essere sul set del film Ghost, e magari il fantasma del marito accompagna i movimenti delle mani di sua moglie. Mi viene naturale l’acquisto di una sua creazione!
La città vecchia pullula di negozietti di cianfrusaglie, ricordi del passato regime e dell’Unione Sovietica, antiquariato (vero o presunto) e un’infinità di oggetti di modernariato che, a rivenderli in Italia, ci potrebbero far quasi arricchire! Ma quello che ci colpisce di più è… la marea di gatti randagi ovunque, di tutte le età e di tutti i colori. Io non resisto a raccogliere un gattino di poco più di un mese, pelle e ossa, che staziona all’esterno di una rigatteria. Mi guardo attorno e ce ne sono a decine… Osservo le vetrine con questo “pulcino” che mi fa le fusa in mano e lo depongo subito giù, tra sguardi di riprovazione di Max e sensi di colpa per non poterlo portare via con noi…
Scarpinata e chiacchiere mettono appetito; ci fermiamo per un break in una rosticceria; poi un salto al mercato per un po’ di spesa; profumi e sapori dimenticati, caterve di funghi e frutti di bosco a quintali, spezie in quantità industriali, frutta e verdura a prezzi irrisori. Pomeriggio di riposo e alle 18.00 tutti a cena da Adal e Milena.
Poco prima delle 18.00, scendiamo in strada e notiamo che  … il Patrol non c’è più! Ca*** pensiamo, ce l’hanno rubato! Ma com’è possibile? Ma quando? Il tutto in due ore? Ma porc…. Il panico ci assale, per certi versi riviviamo il dramma del furto di cinque anni prima. Max cammina su e giù per il marciapiede alla ricerca di un qualcosa di indefinito, almeno di un indizio. Possibile che ci abbiano fottuto la macchina, in pieno giorno? Avvertiamo Adal che ci raggiunge immediatamente. In tre cerchiamo di ragionare con lucidità cercando tutte le possibili logiche soluzioni. A terra non ci sono vetri, quindi niente rotture dei cristalli. Ma allora è opera di professionisti. Dai, forse no. Ricapitoliamo: abbiamo parcheggiato, come altri, in divieto di sosta, ma possibile che abbiano portato via solamente la nostra? Cerchiamo di sdrammatizzare il momento, pensiamo che gli indigeni saranno ancora incazzati per aver perso la partita di calcio e magari con questo vogliono farcela pagare! Sul cartello del divieto c’è un numero di telefono, proviamo a chiamare. Intanto Adalberto cerca di darci coraggio; dai Max, in Bulgaria non rubano macchine, magari solo forse a Sofia, ma non qui. Come vorremmo credergli …
Intanto dalla telefonata risulta che la macchina l’ha prelevata la polizia e la tengono in un deposito. Una parolaccia liberatoria che inizia con un vaffa… esce dalla bocca di Max. La voce all’altro capo del telefono ci dice anche di sbrigarci, perché più il tempo passa, e più si paga. Ovvio, come da noi. Cerchiamo di capire dove si trova il deposito e partiamo. Ma ci perdiamo subito. Chiediamo informazioni alle persone che incontriamo e ognuna di loro ci indica un luogo diverso. Intanto il tempo passa e  Max non si sente tranquillo. Possibile che nessuno sappia dove si trovi il deposito della polizia? Passa circa una buona mezz’ora da quando siamo in macchina e stiamo girando per mezza città. Intanto Max si scervella su quanto sarà il conto.
Alla fine troviamo il luogo, entriamo, e prima di pagare chiediamo di vedere lo stato del Patrol per accertarci di eventuali danni subiti durante il prelievo. Nessuno si oppone. Max ci gira attorno lentamente, controlla accuratamente sopra, sotto, il tetto, i cristalli, è tutto a posto. Si avvia quindi a pagare e scopre che il conto ammonta a ben… 26 euro. Ma vaffa…!! Se lo avessimo saputo prima, avremmo parcheggiato subito qui che è il posto più sicuro!! 26 euro che comprendono la multa di divieto di sosta, carico, scarico e transito del carro attrezzi, e la sosta oraria del deposito. Il tutto per meno di tre ore. Proprio come a casa nostra… J !!
Torniamo a casa già con un sorriso decisamente più ampio sul volto. Conosciamo in questo frangente la mamma di Milena e ceniamo a casa di Adal per la seconda volta. Il vino scorre piacevole come i discorsi. Ormai lo stress di prima è solo un ricordo lontano.

10.9 
Di primo mattino partiamo, salutando i nostri cari amici, con la promessa di rivederci per le feste di Natale, a Trieste. Direzione est, il Mar Nero ci aspetta. Il tempo è sempre bello e la temperatura gradevole, traffico scarso. Ci lasciamo alle spalle tanta campagna e zone misere; man mano che ci si avvicina al mare, però, il degrado e la povertà lasciano il posto all’ordine, alla pulizia e a una certa aria di “benessere”. Numerose case e casette ben tenute, giardini curati, è evidente che la zona marittima è sempre più redditizia delle campagne dell’interno. I chilometri scorrono tra paesini e paesetti abbastanza simili tra loro e, verso il confine rumeno, perdiamo ore preziose per individuare la strada che ci porterà dritta al mare; la mappa stradale che dice una cosa, i cartelli stradali (scarsi) che dicono il contrario, il navigatore che ci porta da tutt’altra parte, alla fine è già buio quando riusciamo a raggiunger l’albergo Otdih, nella cittadina rivierasca di Kavarna. Ceniamo in albergo e ci addormentiamo cullati dal rumore della risacca.

11.9 
Il mattino dopo, col sole, notiamo una singolarità sulle facciate dei palazzoni di regime; enormi dipinti raffiguranti Billy Idol e Phil Collins campeggiano sulle facciate al posto dei mosaici e degli affreschi di stampo socialista. Evidentemente, i giovani di vent’anni fa non ne potevano più della retorica di Stato…
Il sole ci accompagna nel nostro viaggio verso sud;  lasciamo Kavarna per dirigerci alla volta di Varna, proseguiamo e oltrepassiamo Burgas; capitiamo a Sunny Beach, la “Ibiza dell’Est”, nuova capitale del divertimento low cost; sembra un incrocio tra Mirabilandia e Disneyland; nonostante la stagione sia al termine, ci sono ancora frotte di ragazzini con salvagente che si divertono a buttarsi giù da enormi scivoli ad acqua. Ci lasciamo alle spalle il “divertimentificio” e approdiamo per una pausa alla riserva naturale di Kamčija; finalmente tocchiamo il Mar Nero! Parcheggiamo il Nissan al limitare della bella spiaggia sabbiosa, siamo solo noi e una coppia che fa il bagno. Tanto vento e tante onde, il mare non è freddo e stormi di gabbiani prendono il volo, vociando. Il luogo è molto bello, il piccolo fiume Kamčija, che sfocia qui, ha creato nel corso del tempo una bella laguna, formando una zona di acque salmastre che attira molte specie di uccelli e dà rifugio persino alle lontre. Ci lasciamo sferzare le gambe dalle onde; osserviamo l’orizzonte, all’altra sponda dell’immenso mare si trovano la Turchia, l’Ucraina, la Russia…. Fantasticando, ci rendiamo conto che le ore passano e dobbiamo rimetterci in cammino. Facciamo un po’ di off-road salendo su un suggestivo promontorio, un faro sulla costa sembra indicarci la strada verso la Turchia, in un paesaggio che ormai sa di Mediterraneo; macchia di sempreverdi e tantissimi melograni selvatici, profumi di timo e salvia, l’aria salmastra. Quanto sono lontane le colline e le campagne di Plovdiv! Prima di affrontare il confine turco, ci fermiamo per un break e, davanti a due spumeggianti Zagorka con contorno di frittura, riflettiamo su questo Paese, povero di tutto ma altrettanto ricco di bellezze naturali, sulla miseria incontrata; forse, più che con un fuoristrada, avremmo dovuto venire fin qui con un capiente furgone e caricare tutti i randagi e tutte le ragazzine-schiave incontrate dappertutto, per portarli via da una vita di stenti, botte, violenze, degrado, anche morale. Ancora una volta, ci si sente impotenti di fronte ad un mondo assurdo, schifoso e crudele nei confronti dei più deboli. Dovizhdane, Bălgarija (arrivederci, Bulgaria).

TURCHIA
In serata, arriviamo al confine bulgaro-turco, anche qui il traffico è quasi inesistente, illuminazione scarsa. Non essendoci chiare indicazioni, proseguiamo a passo d’uomo tra le varie strutture in muratura fino a trovare, dopo una piccola discesa, un casello con sbarra. Consegniamo i passaporti al doganiere e questi, con grande gentilezza, ci dice in inglese che non dobbiamo consegnare i documenti a lui, bensì alla dogana che si trova nelle costruzioni che ci siamo lasciati alle spalle. Ops.. Dietro-front, riprendiamo la salita, parcheggiamo e ci dirigiamo negli uffici. Tornando sui nostri passi, vediamo un cartello che indica “Bulgaristan”. Ci mettiamo a ridere, non credevamo che la Bulgaria per i turchi fosse proprio Bulgaristan! Questo esotico modo di intendere il Paese che stiamo lasciando ci fa volare con la fantasia, ma allora Bulgaristan non è poi tanto più diverso di AfghaniSTAN, TurkmeniSTAN…. Bellissimo!
Consegna dei documenti sia alla polizia di frontiera che alla dogana; attendiamo il nostro turno, intanto fuori si è fatto buio. Osserviamo numerose comitive di bulgari che rientrano in patria, dopo aver passato la giornata ad acquistare beni che non si trovano in Bulgaria (praticamente, di tutto). Arriva il nostro turno, timbri sui documenti, nessuno sguardo al veicolo e finalmente possiamo riprendere la discesa verso l’ultimo controllo passaporti. Il medesimo doganiere ci accoglie con un sorriso, rapido sguardo e siamo finalmente in territorio turco. Le strade sono più illuminate, troviamo subito un bell’albergo tutto marmi, vetri, specchi e ottoni; una giovane signora in caftano e chador scivola silenziosa sul lucidissimo rosone intarsiato del pavimento; l’atmosfera esotica e vagamente mediorientale, l’aria tiepida e profumata ci fanno quasi dimenticare le miserie bulgare. Raggiungiamo la camera, moderna e confortevole e, soprattutto, pulitissima. Non ceniamo, ma ci concediamo una freschissima birra alla spina al bar dell’albergo. Anche qui, gentilezza e sorrisi, prendiamo confidenza con carnagioni scure e occhi neri, in un perfetto contraltare con le pelli chiaramente europee dei vicini bulgari.

12.9 
In marcia, ci dirigiamo verso Sud, direzione Istanbul. Purtroppo abbiamo già deciso di non raggiungere il Bosforo, ma bastano pochi chilometri sul suolo turco che già la fascinazione dell’Oriente ci strega e ci fa ripromettere di tornarci, un domani non troppo lontano. Ci accontentiamo di fotografare un cartello stradale che dice “Istanbul 80 km”; meglio di niente! Strade larghe e spaziose, bruciate dal sole; campagne arse,  punteggiate dai pozzi per l’estrazione del gas; ogni pochi km si trova sempre un baracchino che offre ogni ben di dio in frutta fresca e verdure; sembra un paradiso terrestre, se confrontato al nulla della campagna bulgara. Nei pressi di Silivri, ecco un altro mare, siamo sul Mar di Marmara! Acqua blu, spiagge chiare, piccola sosta per foto ricordo col Nissan sulla spiaggia sabbiosa. Dopo aver contrattato l’entrata in una specie di campeggio con un gestore panzone e palesemente ubriaco, riusciamo a scattare una foto sulla spiaggia che, a giudicare dalla puzza, sembrava lo sbocco di un collettore fognario…. E questo sarebbe un campeggio? Riprendiamo la marcia verso ovest, il sole e il caldo secco ci accompagnano in terra ottomana; ma niente panico: in caso di necessità, ai semafori si trova sempre qualcuno attrezzatissimo con borse-frigo e un vassoio con ciambelle di pane tenuto in equilibrio sulla testa! La strada prosegue dritta, il traffico è scorrevole; ci lasciamo il Mar di Marmara alle spalle, ora ci aspetta la Grecia. Sarà una sensazione, ma l’atmosfera che respiriamo in questo Paese ci fa sentire bene accolti. Osserviamo nuovi tipi, nuove facce, donne abbigliate all’occidentale e all’ottomana, Oriente e Occidente convivono in apparente tranquillità: chador e niqab assieme a scollature e minigonne; caftani e babbucce a punta si accompagnano a giacche e cravatte; sembra una società aperta e tollerante come nei voleri di Kemal Atatürk, ma non è da poco che un certo integralismo religioso comincia a prender piede, col beneplacito del governo di Erdoğan, e la moderazione sembra sempre più un lontano ricordo. Non capiamo il turco, ma gli strilloni dei quotidiani in strada sono abbastanza espliciti. Le proteste continuano…
Pomeriggio inoltrato, ci avviciniamo alla frontiera greca; i controlli al posto di blocco turco sono svelti e di pura formalità. Dato che tutti i documenti sono tracciabili, ora i poliziotti sanno tutto di noi ancor prima di consegnare loro i documenti; non facciamo nemmeno a tempo a porgere i passaporti che il poliziotto turco, un occhio a noi e uno allo schermo del computer, esordisce con un: “Ah, Massimo…”. Ma, insomma! Güle Güle Türkiye! (Ciao Turchia!)!
  
GRECIA
Svelto sguardo ai documenti e via alla volta della dogana greca. Ci mettiamo in coda e attendiamo pazientemente il nostro turno, preceduti da una coppia di ragazzi in moto. Capiamo subito che con il doganiere greco non sarà così semplice. Il doganiere è chiaramente stufo, innervosito ed esasperato, ma che colpa abbiamo noi altri viaggiatori? Fa scendere i ragazzi dalla moto, controlla zainetti e bauletto più volte alla ricerca di qualcosa; non trovando nulla, s’innervosisce ancora di più e li manda via in malo modo; è il nostro turno, ci si rivolge in inglese ma secondo lui non rispondiamo correttamente, si incazza e ci fa aprire il baule, abbaiandoci ancora qualcosa. E’ chiaro che occidentali che tornano dalla Turchia dopo brevissimi soggiorni possono essere dei sospetti, ma trattarci tutti come trafficanti ci sembra eccessivo. E se questo è il benvenuto in Grecia, stiamo freschi.
Mandato a quel paese il doganiere incazzoso, procediamo alla volta di Salonicco. Questa è la nostra prima volta in Grecia, altro paese dalla gestione allegra della spesa sociale, e ormai definitivamente affondato dalla crisi infinita. Dato l’alto afflusso turistico e le cospicue entrate, ci immaginiamo un territorio che almeno faccia fruttare gli introiti per mettere a posto strade ed infrastrutture  varie; purtroppo, niente sembra cambiato da decenni a questa parte, come ampiamente confermato da numerosi viaggiatori che hanno attraversato queste contrade dalla fine degli anni ’70 ad oggi; se la costa (le isole, soprattutto) hanno usufruito del flusso di denaro, le zone interne, rurali, non affacciate direttamente sul mare, sembrano del tutto abbandonate a sé stesse; la stessa immagine di povertà e squallore che abbiamo riscontrato in Bulgaria. Terreni incolti e abbandonati, bruciati dal sole, sterpaglie dappertutto; casupole di contadini che riflettono una povertà e una miseria che non immaginavamo in uno Stato che, in teoria, avrebbe tutto per vivere decentemente. Cerchiamo un posto dove dormire ma, dopo aver macinato centinaia di km., non riusciamo a trovare nulla nell’interno, nemmeno un locale per riposarci un attimo a bere qualcosa. Si sta facendo buio e comincia a prenderci lo sconforto. Non ci resta che scendere sulla costa; parecchie zone umide, a riserva naturale, ospitano una nutrita colonia di fenicotteri rosa; purtroppo sono troppo lontani per il nostro obbiettivo; il pallido sole al tramonto rende un po’ meno malinconico il panorama circostante e le uniche macchie di colore sono rappresentate dai venditori di micro cappellette votive in terracotta, a bordo strada. Sarebbero anche un caratteristico ricordino da portarsi a casa, se non rappresentassero l’immagine tombale di uno Stato al fallimento.
Improvvisamente, mi torna alla mente uno sceneggiato portoghese che ho visto da piccola e che s’intitolava “Canne e fango”, narrava della lotta per strappare al mare la terra da coltivare, storia di latifondisti e contadini, di lotta per non morire di fame in una zona paludosa e salmastra della costa portoghese, a inizio Novecento; la stessa miseria, lo stesso senso di abbandono lo ritrovo qui, in questo angolo di Grecia, che sembra dimenticato da tutti. Ce ne andiamo altrove. A Kavala, troviamo un albergo che offre ancora qualche camera libera (siamo a metà settembre ma la stagione è ancora florida). Non volevamo dormire sulla costa per evitare la confusione di una moltitudine di turisti vocianti e ciabattoni e conseguenti schiamazzi notturni di etilisti vari, ma purtroppo la desolazione e mancanza di strutture all’interno ci hanno costretto a scendere a mare. E’ cosa nota che non siamo appassionati né di mare né di città turistico/costiere, così ci adattiamo e ci facciamo trasportare dal fiume umano schiamazzante verso i ristorantini sulle rive. Due birre in un bar all’aperto, poi a cercare un ristorante dove buttar giù qualcosa. Siamo sull’Egeo, è l’occasione per assaggiare del pesce fresco condito con dell’ottimo olio di oliva. Trovato il locale, ci colpiscono le facce, piuttosto tetre, dei camerieri; sembra che nonostante il luogo turistico e il notevole afflusso di vacanzieri, l’aria di crisi si sia appiccicata come una cappa caliginosa un po’ ovunque; uno dei camerieri parla un po’ d’italiano e, alla domanda se ci fosse del pesce fresco, mi accompagna al banco frigo perché possa scegliere: sono circa le 20.00 e quello che trovo adagiato sul ghiaccio non è granché: qualche cefalo, un paio di branzini; è tetro anche il banco frigo; scelgo per Max un branzino abbastanza “di giornata”, io preferisco dei filetti di sgombro affumicato, con contorni vari. Proviamo il rinomato olio greco: non ci sembra degno di nota: non siamo nazionalisti, ma il confronto con un qualsiasi olio italiano non regge.  Se prima di arrivare in Grecia avevamo pensato di comprarne qualche lattina, ora decidiamo di lasciar perdere. Ceniamo e ci guardiamo attorno, ripensando ai km macinati per arrivare fin qui. Per quanto mi riguarda, la Grecia, assieme alla Spagna, sta in fondo alla mia lista dei Paesi da visitare; attraversandola, pensavo che forse mi sarei ricreduta ma, da quanto osservato fino ad ora, nulla di quanto incontrato mi ha dato spunti per cambiare idea. Max è della mia stessa opinione. E’ chiaro che le isole sono un altro ambiente, un mondo a parte, e la loro stessa bellezza rende più accogliente questo Paese. Però ugualmente non riusciamo a comprendere il perché di questo costante senso di abbandono e trascuratezza che emerge sia nell’interno che sulla costa.

13.9 
Lasciamo l’albergo e, anche qui, vengo raggiunta da apprezzamenti sui miei capelli da parte della receptionist, una bella ragazza con una folta chioma corvina; dopo i saluti e ringraziamenti, le scappa un “I like your hair!”. Ripartiamo, rotta ovest-sud-ovest, alla volta di Salonicco, destinazione Igoumenitsa. Costeggiamo un mare cristallino, che però a nostro parere non sembra avere nulla da invidiare al mare dalmato. Ci immettiamo in autostrada, un po’ diversa dalle solite, perché è priva di punti di ristoro (a parte uno sparuto negozietto di generi vari, con prezzi allucinanti), e senza stazioni di rifornimento; per fare gasolio bisogna uscire dall’autostrada, cercare la pompa e rientrare. Per non parlare di come i greci usufruiscano in maniera disinvolta degli accessi all’autostrada: contromano! Sempre più perplessi, continuiamo in una bella giornata di sole. Tentiamo di fare una sosta a Salonicco, ma rimaniamo imbottigliati nel traffico impazzito, causa ennesima manifestazione con corteo di protesta e striscioni annessi. Non riusciamo a entrare in sintonia con questo Paese, e maciniamo chilometri per raggiungere il prossimo mare, lo Ionio, e fermarci a Igoumenitsa. Anche qui rimaniamo un po’ sorpresi: essendo un porto di mare, punto di approdo di numerosi traghetti che partono dall’Italia, ci aspettavamo una cittadina un po’ più vivace e movimentata; sembra invece un porticciolo di pescatori, inadeguato ad accogliere le orde di turisti che vengono scaricati puntualmente ogni estate. Probabilmente è soltanto un punto di sbarco, e nessuno si sogna di soggiornare qui. Alberghi ce ne sono, ma parecchi sono chiusi e abbandonati. Facciamo un piccolo break in un bar all’aperto, sono le 15.00 e non abbiamo buttato giù niente dalla colazione di stamattina; un piatto di patate al forno e due birre Alfa sono sufficienti a corroborarci e darci un po’ di sostanza. E’ l’occasione per fare un bilancio di questa Grecia. Non sarà carino, ma sinceramente non vediamo l’ora di andarcene da qui. Abbiamo delle cartoline da spedire, acquistate in Bulgaria. Però in Bulgaria non siamo riusciti a trovare i francobolli, in Turchia non abbiamo avuto il tempo di cercarli, speriamo di aver maggior fortuna qui. Finito il break, cerchiamo un posto dove dormire stanotte. Riusciamo a trovare una camera proprio sul lungomare, con un piccolo balcone blu affacciato sul tramonto. Scarico bagaglio e via a fare quattro passi, a sgranchirci gambe e sederi ormai intorpiditi dopo lunghe ore in macchina. Il tempo comincia a cambiare, nuvoloni minacciosi si raccolgono sulle isolette antistanti al porto e scaricano il loro contento d’acqua in densi acquazzoni, risparmiandoci. Cerchiamo dei francobolli, ma l’impresa si rivela ardua: i tabaccai ne sono sprovvisti, l’unica posta del paese non riusciamo a trovarla. All’ora di cena cerchiamo un posticino; veniamo accompagnati nel nostro vagare da una cagna randagia, dagli occhi imploranti. Riesco a trovare in auto qualche boccone per lei; da quel momento ci accompagna fino alla soglia di un ristorante, docile e ubbidiente come se fosse nostra; non sarà l’unica bestiola così, Igoumenista (ma, comunque, tutta la Grecia da noi attraversata) è piena di randagi, che forse non aspettano altro di trovare una nuova famiglia e una nuova speranza di vita. Quegli occhi, malinconici e abbattuti, rispecchiano tutta la miseria e la rassegnazione della Grecia di oggi. Ci fermiamo in un ristorantino sul lungomare. Ci colpisce l’insegna: il nome in greco e sotto una scritta in cirillico; sembra russo, dice “pesce fresco”. Come mai in russo? Per i turisti? Ma quali? Boh… Il mistero è presto risolto. Il padrone del ristorante, appena ci porta i menu, capisce che siamo italiani e ci manda sua figlia, Veronica, che è fresca laureata in italianistica alla Ca’ Foscari! Una ragazza brillante, entusiasta dell’Italia ma non degli italiani. Ci racconta di come si è trovata in Italia, delle difficoltà a farsi accettare, soprattutto a Roma; ne è venuto fuori un ritratto di un’Italia arrogante, superba, maleducata. Ne siamo dispiaciuti, ci chiediamo che razza di mostri siamo diventati. Veronica ce lo fa notare, dice che siamo tra i pochi italiani gentili e simpatici che ha incontrato. Da una parte ci fa piacere, dall’altra ci fa sentire come due mosche bianche. Praticamente, è lo stesso discorso che ci fece la nostra guida a S. Pietroburgo, ricordandoci come persone simpatiche e desiderose di conoscere la realtà locale, senza puzza sotto al naso. In viaggio, evitiamo di proporci come “italiani”, eventualmente come “triestini”, sicuramente come “persone”, semplicemente, senza connotazioni, e sempre “in punta di piedi”. Viaggiando all’estero, ci rendiamo sempre più conto di quanto noi due siamo lontani dallo stereotipo dell’italiano in senso assoluto. E tutto ciò viene notato da chi ci sta di fronte. Non è edificante, a volte, doversi quasi vergognare della propria nazionalità, ma certi tipi di “italioti”, all’estero, non fanno altro che peggiorare la già poco gradevole immagine che il mondo intero ha di noi. Le chiediamo il perché della scritta in russo. Ci spiega che, qualche tempo prima, girava voce che le coste greche sarebbero state invase da orde di turisti russi, pronte a riversarsi a spendere e spandere sulle loro spiagge; così, per attirare la clientela russofona, hanno aggiunto la scritta in cirillico sperando di accaparrarsi qualche cliente in più. Invece, di turisti russi non ne hanno proprio visti, e con la crisi anche il resto della clientela si è diradata. Infatti ceniamo quasi da soli… Il pesce è buono, il vino anche, ma il tutto è condito da un’atmosfera di tristezza, di occasioni perdute… Ci dispiace molto per Veronica e la sua famiglia. Ci scambiamo gli indirizzi mail e ci salutiamo. Domani si parte per l’Albania.

14.9 
Prima di partire, facciamo ancora un giretto per cercare i famosi francobolli. Entriamo in un negozietto di souvenir, giusto per non tornare dalla Grecia a mani vuote. Tra tante chincaglierie e paccottiglia, troviamo un vasetto che riproduce un originale antico, giusto per dire “c’ero anch’io”, e magari dare una mano al negoziante in crisi. Nemmeno qui hanno francobolli. La vicenda assume una piega tragicomica … Ci lasciamo alle spalle Igoumenitsa e, definitivamente, la Grecia. Antìo, Ellàda (addio, Grecia).

ALBANIA
E’ una bella giornata e, ormai, abbiamo imboccato la strada del ritorno verso casa. Ci lasciamo il mare alle nostre spalle e ci inerpichiamo su bei tornanti. Da marino, il paesaggio si fa brullo, simil-desertico. Ci piace davvero un sacco questo ambiente, che sembra non offrire nulla al di fuori di una pietraia, ma ad occhi avventurosi regala scorci di selvaggia libertà! Ottima temperatura, ormai la calura estiva lascia il passo ad un clima più sopportabile, la luce è meno violenta; la dolcezza di settembre ci regala scorci meravigliosi in questo “nulla”. Manca poco al confine albanese, eccolo su un poggio; ci mettiamo in coda (si fa per dire, siamo quattro gatti); seduti in macchina, attendiamo il nostro turno; ci si fa incontro una vispa signora, si appoggia con i gomiti sul finestrino, lato guida, e rivolgendosi in italiano, ci dice buongiorno, si informa se abbiamo fatto buon viaggio, ecc ecc. Sul momento ci viene spontaneo chiederci: “E questa cosa vuole?” ma subito intuiamo che è la signora addetta al rilascio dell’assicurazione auto per circolare in Albania! Scendo e la seguo nel suo ufficietto, intanto che Max fa dogana. La signora parla un italiano perfetto, due chiacchiere, carta, timbro, costo dell’assicurazione: 25 euro, si paga in euro… con resto in euro! Immaginiamo il massimale… Poi tanti auguri di buon viaggio e buona permanenza, risalgo in auto e partiamo.
Chissà perché ma qui ci sentiamo un po’ come a casa..! Se pensiamo al trattamento ricevuto alla dogana greca… Sqipetari, grande popolo! Mire se vini! (Benvenuti!). Ancora sorridenti, ci addentriamo nuovamente in questo Stato aperto al turismo solo dal 1991. Ci sorpassa un’auto con al traino uno strano carrello, marca Nissan, targa greca. C’è qualcosa che non ci torna su quel carrello, però… osserviamo meglio e ci accorgiamo che non è un carrello, è semplicemente un pick-up tagliato a metà! Evidentemente, alla motorizzazione greca sono di ampie vedute…  Proseguiamo nel paesaggio steppico, piccola sosta accanto ad uno degli innumerevoli bunker; foto di rito, il bunker trasformato in rimessa e ricovero per capre, pascolanti nei dintorni. Ricordavamo l’Albania come un paese ricchissimo d’acqua, almeno nel nord; ma anche qui al sud l’acqua sgorga in abbondanza, e il contrasto tra i rilievi brulli e i corsi d’acqua freschi e dalle rive lussureggianti è incantevole. “E’ bellissimo, sembra la Mesopotamia!”, dico a Max e non faccio in tempo a finire la frase che ci imbattiamo in un villaggio che, manco farlo apposta, si chiama proprio “Mesopotam”! Ridiamo, e foto di rito con Nissan e splendidi rilievi sullo sfondo. Questa Albania ci piace proprio un sacco, il sud così brullo e pietroso, quanto il nord tanto boschivo e alpino. E poi il mare, che da qua non scorgiamo ma che sappiamo ancora pulito (spiaggie-discarica a parte…). Tanta ricchezza d’acqua non la si può non sfruttare, ed eccoli spuntare come funghi innumerevoli “lavazh”, autolavaggi casalinghi, alcuni decisamente “hand-made”, molti addirittura “spezial”. Per strada, cerchiamo di trovare una meraviglia naturale, descritta su tutte le guide e raccomandataci anche dai nostri compagni di viaggio nel precedente tour albanese, cioè la sorgente “Occhio blu”, che altro non è che un laghetto molto suggestivo, con l’acqua azzurra verso le sponde e acqua blu al centro. Ma gira che ti rigira, sappiamo di essere in zona ma non riusciamo a trovare nessuna indicazione (né qualcuno per strada che ci potesse aiutare). Peccato! Puntiamo la bussola a nord, destinazione Gijrokastra, la nostra Argirocastro, che in greco significa “castello d’argento”, Patrimonio Unesco, abbarbicata su uno dei tanti rilievi montuosi dell’interno. Qui è nato il padre-padrone dell’Albania, Enver Hoxha, e proprio per questo la città è sempre stata tenuta con un occhio di riguardo, in quanto “città museo”.  La giornata è splendida, l’aria tersa, parcheggiamo scansando una ragazzina mendicante, piuttosto insistente, le regalo delle caramelle e lei mi lancia uno sguardo tipo “meglio di niente….”. L’ambiente ci sembra stranamente familiare, ci assale un deja-vu… Ma certo, guarda la posizione, guarda i tetti a scandole, guarda le montagne! Sembra un paesino della Majella! Quanti bei ricordi! Il canto del muezzin ci riporta subito al presente; con la nenia religiosa in sottofondo, passeggiamo fra salite e discese di questo gioiellino architettonico ricchissimo di fascino, artigianato sorprendente, testimonianze arabe, panni stesi e matasse di cavi elettrici tra casa e casa, fichi e gelsi, cinguettio di passeri e stridìo di rondini. E’ mezzogiorno, e se mettessimo qualcosa sotto i denti? In Albania, mangiare e bere non è un problema, un posticino lo si rimedia ovunque. Entriamo in un bugigattolo con cucina fumante, comunicare non è un problema, e gli italiani qui sono bene accolti. Sarà per la valanga di euro che lo Stato italiano versa annualmente all’Albania per la messa in piedi di infrastrutture? Chissà… le considerazioni geopolitiche vengono subito messe in disparte con l’arrivo di due freschissimi e grandi boccali di Korçë, birra tradizionale albanese, prodotta qualche centinaio di chilometri più a nord, proprio nella medesima cittadina. E poi trippa e sarme (involtini di foglie di vite, ripiene di riso speziato, cetrioli, pomodori e formaggio tipo ricottina acida). Satolli, ci dedichiamo alla visita di qualche negozietto di artigianato. Tra tappeti e stuoie di tutti i tipi, ci imbattiamo anche in una signora, parlante italiano, che confeziona splendidi copriletti all’uncinetto. Ci dice che ha molte commesse dalla Puglia, da privati e negozi. Il costo è piuttosto elevato, però se penso a quanto chiedono in Italia per un manufatto simile… La signora dei capolavori ci dà il suo biglietto da visita e ci aiuta perfino a recuperare i francobolli, dato che li vende lei! Purtroppo, siamo sprovvisti di spiccioli, e non ci resta che dare alla signora 50 euro; lei li prende, li consegna al marito perché li vada a cambiare; io e Max ci guardiamo un po’ perplessi, immaginando i 50 euro che prendono il volo.. invece dopo un attimo il consorte torna, così acquistiamo i francobolli, col resto in euro e con tanto di tasso di cambio perfetto! Non finiamo di stupirci per questa gente, dalle mille risorse e dalla grande disponibilità! Finiamo di scrivere le cartoline e finalmente le imbuchiamo, dopo che hanno fatto il giro di mezzi Balcani! (P.S.: le cartoline arriveranno tutte regolarmente a destinazione!). Riprendiamo la marcia, la bussola punta sempre verso nord. Ora il paesaggio si fa via via più verdeggiante e i campi coltivati prendono il posto delle pietraie. Lo avremmo saputo in seguito, ma buona parte  dell’economia agricola in questa zona a sud si fonda sulla coltivazione… della marijuana! A soli trenta chilometri dal confine greco, il paese di Lazarat è diventato famoso per essere la capitale della “maria”, coltivazione che dà lavoro a centinaia di persone, bambini compresi, e per molti è l’unica fonte di sostentamento. Sarà per questo che qui attorno sono tutti così gentili e allegri? Chiederselo è legittimo… Si prosegue, ora il paesaggio si fa più tormentato e aspro, e certi scorci, con ponti in ferro sospesi su torrenti impetuosi, ci fanno sognare proibiti passi caucasici….
Nel tardo pomeriggio, veniamo fermati da una pattuglia della polizia, stanno evidentemente cercando qualcuno, a giudicare dagli elicotteri che sorvolano la zona a bassa quota. Ci si avvicina un ragazzo di leva, sfoderando un sorriso a rastrelliera, e quando capisce che siamo italiani… no problema amico! Tutto ok e buon viaggio, con tanti sorrisi e saluti (e senza nemmeno chiederci i documenti o controllare l’auto). Sono già le 19.00 e ci stiamo addentrando nella parte più interna del Paese. Decidiamo di fermarci a Erseke per la notte. Ci sono due alberghetti in paese, ma il primo non è che ci ispiri un granché, data anche la presenza di loschi figuri nei dintorni (ma forse sono solo ubriachi, di ritorno da un matrimonio poco distante), il secondo sembra più raccomandabile, per due motivi: esteticamente è più carino, a gestione familiare, e sembra una piccola baita in legno e muratura; il secondo motivo è che proprio davanti è parcheggiato un Land Rover bianco targato Italia. Non vuol dire nulla, ma vai a sapere… Entriamo, atmosfera decisamente accogliente e casalinga, il gestore parla qualche parola d’inglese e d’italiano, ma quando capisce che siamo italiani, ci manda prontamente il figlio, un ragazzo alto e magro che ha studiato e lavorato a Firenze. Ci accompagna nella nostra camera e durante il tragitto ci chiede da dove veniamo, incuriosito dal dialetto che usiamo Max ed io nei nostri discorsi, che alle sue orecchie sembra spagnolo. Gli spieghiamo la nostra origine e lui vuole che gli parli il dialetto triestino; lo accontento, ma ovviamente ci capisce poco. Dato che Max ed io indossiamo entrambi una polo verde, ci chiede anche se per caso non facciamo parte di qualche organizzazione ambientalista… Perspicacione!
Ci sistemiamo, e poi scendiamo direttamente giù per la cena. Poco dopo ci raggiunge, e ci informiamo su che cosa propone il cuoco (cioè suo padre) per questa sera; mi dice che facciamo prima se mi mostra di persona che cosa bolle in pentola, e mi fa cenno di seguirlo in cucina. Maamma, è una vera festa per gli occhi (e per stomaci affamati)!. Due tipi di brodo diversi, tre di minestra, poi trippe al pomodoro o in bianco, gulasch, carne, riso, verdure, patate…. Di tutto e di più! Ci accontentiamo di minestra, sugo con la carne, contorni… e ovviamente due Korçë giganti alla spina! Cenando, gettiamo un’occhio al telegiornale, e tra un discorso del primo ministro Edi Rama e l’altro, mostrano delle immagini girate nel pomeriggio proprio nella zona dove siamo stati fermati noi dalle Forze dell’Ordine; ecco che cosa cercavano con tanto dispiegamento di polizia ed elicotteri! Lì attorno hanno beccato undici clandestini pakistani e sicuramente ce n’erano degli altri in zona. Ceniamo assieme a un’altra coppia, persone di mezz’età. Generalmente, noi ci facciamo sempre i fatti nostri, ma tra un boccone e l’altro non posso fare a meno di tendere l’orecchio; mi è sembrato di percepire un idioma familiare, molto familiare… ma è dialetto triestino! A fine cena facciamo così conoscenza con un professore universitario triestino, fresco di pensione, e la sua compagna, una donna albanese originaria proprio della zona di Korçë. Sono loro i proprietari del Land Rover! Il mondo è davvero piccolo, a volte. Appena concluso il proprio incarico universitario, ai primi di settembre, sono partiti alla volta dell’Albania e l’hanno percorsa tutta. Ci chiedono se abbiamo visto l’ “Occhio blu” e si rammaricano con noi per la svista. Sarà per un’altra volta, l’Albania è troppo bella per non essere visitata da cima a fondo con più calma!

15.9 
Di nuovo in marcia, sempre verso nord, alla volta della sponda albanese del lago di Ohrid. Ci lasciamo alle spalle i bellissimi monti del sud e approdiamo alla caotica cittadina di Pogradec. Eccolo, il lago, grande e suggestivo, l’acqua trasparente, marina. La cittadina sembra quasi ordinata, se paragonata allo stato generale di “lavori in corso” che regna ovunque; un lungolago pulito, attrezzature per i giochi dei bimbi seminuove, monumenti a poeti, posticini di ristoro, alberi frondosi e pensionati che giocano a domino.. un idillio in salsa albanese, complice la bella giornata. Una birretta a bordo lago ci sembra d’obbligo. Veniamo serviti da un ragazzo biondo e mingherlino, anche lui con qualche buco tra i denti, che parla un pochino d’italiano, avendolo imparato facendo il cameriere in Puglia. Un attimo di relax, contemplando la placida superficie appena increspata da una brezza leggera, sommesso brusio di avventori tutto attorno. Sì, indubbiamente questo Paese ci piace, sarà l’atmosfera calma e rilassata della gente, le bellezze naturali in gran parte incontaminate, niente musi incazzati ma tanti sorrisi, e saluti a bordo strada… sarà forse perché qui al sud si respira anche un’aria un po’ cannabinoide… e allora yeah, peace & love, fratelli!
Rotta ovest-nord-ovest, direzione Tirana, destinazione Scutari. Altra campagna, altri auto-lavazh (qui, un’industria), basta colline, attraversiamo la pianura e superiamo Elbasan, Tirana e, nel primo pomeriggio, sbarchiamo a Shkodër (Scutari, sull’omonimo lago). Non la troviamo molto diversa da due anni fa, sempre intasata da lavori in corso per renderla più accogliente. Si va, of course, all’Hotel Colosseo, ormai… un must. La zona è stata completamente pedonalizzata e molto più tranquilla. Scarichiamo il bagaglio nella nostra camera con vista moschea, rinfrescatina e due passi nella zona pedonale. Spuntino con birretta e patatine, e contorno di bimbo zingaro piuttosto insistente. Alle 17.00 in punto parte l’oratoria del muezzin, rondoni ciarlieri e profumi salmastri completano il quadro orientaleggiante nella luce pomeridiana. Cominciamo a risentire dei tanti giorni passati seduti in macchina e dei km macinati quotidianamente. Siamo a tre quarti del viaggio e possiamo un po’ tirare le somme. Quante dogane, quanti incontri… e quanto ancora da vedere! Domani ci aspetta il Montenegro, finalmente riusciremo ad affrontare il Parco Durmitor! Serata di puro relax; la sala ristorante è piuttosto affollata anche di italiani, e noi preferiamo cenare, con sottofondo di partita con schermo gigante, all’aperto, nella corte interna dell’hotel. Ah, devono aver cambiato il cuoco, perché non c’è più il fantastico menu del giorno, ma solamente il menu à la carte. Peccato: e noi che sognavamo una mega frittura di pesce… Ci serve un solerte cameriere che parla un buon italiano, ma noi cerchiamo con lo sguardo un altro cameriere, incontrato due anni fa; uno spilungone un po’ allampanato, ma dallo squisito savoir faire e parlante un italiano impeccabile. Gli chiedemmo dove avesse imparato la nostra lingua così bene e la risposta fu “Ho lavorato otto anni a Milano”. A cena finita, eccolo comparire in sala, ci cerchiamo con gli sguardi. E puntualmente,  eccolo per il dessert. Si ricorda perfettamente di noi, due parole di saluto e si congeda con una frase che, magari, sarà stata anche di prammatica, ma che a parer nostro veniva dal cuore: “E’ sempre un piacere servire delle persone gentili come voi”. Forse per riguardo, alla fine non gli abbiamo chiesto il nome. Non volevamo distoglierlo dalla sala, ma ci sarebbe piaciuto scambiarci magari una mail e farlo sentire un po’ protagonista nel nostro blog. Ce ne rammarichiamo. Faleminderit, Sqhipërie! (Grazie Albania!).

16.9 
Lasciamo Scutari per raggiungere la frontiera montenegrina. Rapido giro per lasciare la città, in un susseguirsi di pozzanghere-piscine (la notte ha diluviato), asfalto bombardato da chissà che, cassonetti dei rifiuti ribaltati, mercatino dell’usato (scarpe-vestiti) direttamente per terra, ragazzine con carriole, macerie ed inerti dappertutto, capre al pascolo tra marciapiedi, vacche con pastora, mercato di ovini vivi sul marciapiede e, in tutto questo delirio, un venditore ambulante di fumanti hot-dog.. in strada, perché il marciapiede, dissestato, è troppo ingombro di macerie per permettergli di lavorare bene. L’impressione generale è che, nonostante le periferie siano in condizioni da immediato dopoguerra, qui, contrariamente alla Bulgaria,  sembra che nessuno se ne stia con le mani in mano; ognuno si arrabatta come può, magari, appunto, con un carrettino di hot-dog. Il tempo si è guastato, fa anche più fresco e ormai siamo prossimi al confine montenegrino. Durante la marcia di avvicinamento, superiamo una ciclo-turista, non proprio una ragazzina, che si inerpica verso il confine. Ci salutiamo. Chissà da dove arriva, chissà dove è diretta. Non è tanto il fatto di sorprendere una donna, sola, che si avventura in bici in queste zone, quanto il suo abbigliamento: una maglietta e un paio di short decisamente corti, che lasciano scoperte due belle gambe affusolate ed abbronzate. Ci chiediamo quanto possa viaggiare incolume questa signora, transitando per contrade non propriamente sicure nemmeno per chi viaggia in auto, figuriamoci in bici, e poi donna, e poi sola. Già in Serbia, sul lungo Danubio, paralleli al confine rumeno, ci era capitato di incontrare una coppia di ragazzi giovanissimi, nordicissimi, che sicuramente avevano litigato; lei biondina, forse ventenne, col viso rigato di lacrime che pedalava a fatica, pur mettendoci impegno; lui, coetaneo, ad almeno un chilometro più avanti, incurante del fatto che la compagna fosse tanto distante. Ma, ci chiediamo noi, coi tempi che corrono, uno ci mette niente a sbucare da un qualsiasi viottolo di campagna e far di questa ragazza un sol boccone. Chi la sente, che non c’è un cane per strada? Il suo compagno di viaggio sicuramente no…  Ora, nuovamente una donna sola, in sella alla bici, anche molto bella. O è grande fiducia in sé stessi e nelle proprie capacità, o grande fiducia nel prossimo, o grande incoscienza… Con questi pensieri, guadagniamo la dogana montenegrina. E qui ci spetta una sorpresa! Consegna dei passaporti, ci attendiamo un controllo formale, magari dei bagagli. Invece… ci fanno cenno di accostarci e parcheggiare in una specie di officina, con ponte mobile. Hai capito…. Non sappiamo se fossero i timbri di Turchia e Albania ad insospettirli, o forse l’aver viaggiato per rotte da contrabbandieri, fatto sta che ci fanno scendere dall’auto perché deve essere sollevata e controllata. Azionano il ponte e il Nissan viene issato verso l’alto. Un funzionario comincia a ispezionare tutto il fondo del fuoristrada, a battere sulle portiere, sui parafanghi… Noi ci teniamo a distanza, ma non li perdiamo d’occhio. Ispezionano tutto, ma anche questi non tengono in minima considerazione lo snorkel. Scesa l’auto, rapido controllo dei bagagli, tutto con molta professionalità,  condita da facce grevi e serie. Ci fanno accomodare al controllo definitivo dei passaporti, timbro e via.

MONTENEGRO
Eccoci nuovamente qui, ci accostiamo per rimettere a posto i documenti; la bella ciclista ci saluta e prosegue per la sua strada, che non incroceremo più. Mah.. Sarà arrivata sana e salva? Durante il tragitto verso il Durmitor, scorgiamo un cartello che indica il monastero di Ostrog, il più importante monastero ortodosso del Montenegro, che la leggenda vuole sia stato scavato nella roccia dal santo Vasilije  per sfuggire alle orde ottomane. Parcheggiamo e ci incamminiamo in salita per raggiungere il monastero, che è aggrappato ad uno strapiombo di circa 900 metri sulla sottostante valle! Numerosi pullman stazionano nei parcheggi, di diverse nazionalità. Foto di rito e poi ci accodiamo alla fila per entrare. Supponiamo che la fila sia dovuta agli ingressi consentiti solo a piccoli gruppi di persone. Ascoltiamo lingue diverse… molti sono serbi, altri ucraini, altri addirittura russi.. una coppia di sposi russi che ci precede, in particolare, ci colpisce: lui tipica faccia “sovietica”, scolpito con l’accetta, biondo e dalle gote rosse, lei occhi dal taglio orientale, capelli castano scuri carnagione color del cuoio… sicuramente una buriata! Osserviamo come ognuno degli astanti infili delle monetine nelle fessure della scalinata in pietra. Lo facciamo anche noi, per buon auspicio. Finalmente sembra sia il nostro turno per entrare… e lì capiamo che la fila non è tanto per osservare gli affreschi della grotta del santo e rendere omaggio alle sue reliquie, quanto per ricevere la benedizione del pope con tanto di bacio alla croce! A questo punto ci facciamo volentieri benedire, una benedizione in più non guasta mai…
Di nuovo in sella, direzione nord-est, tappa a Niksić, destinazione Vučje, stazione invernale ai piedi del Durmitor, già apprezzata meta di due anni fa. Chissà se anche stavolta troveremo l’intraprendente cameriere che prendeva appunti sulle nuove parole italiane imparate? Purtroppo no: la gestione è cambiata, al suo posto nuovi inservienti e una ragazza mora dai tratti severi e squadrati, a digiuno totale di qualsiasi lingua non slava, e totalmente impreparata ad accogliere turisti stranieri. Con qualche difficoltà in più, riusciamo comunque a farci assegnare una stanza (anche stavolta, unici turisti). Purtroppo non è solamente cambiata la gestione, ma pure i prezzi sono notevolmente aumentati (difatti rinunciamo alla bottiglia di vino a cena, non siamo disposti a farci rapinare). La ruspante cucina di due anni fa è solo un pallido ricordo. Ce ne andiamo a letto, un po’ delusi per i non positivi cambiamenti; nel silenzio della foresta che ci circonda, facciamo un po’ il punto del nostro tour, approfittando anche del wi-fi gratuito, perfettamente funzionante! E domani… Durmitor!

17.9 
Siamo proprio sfortunati: due anni fa non siamo riusciti a salire al Durmitor, il Parco Nazionale, per mancanza di tempo; ora di tempo cronologico ne abbiamo, ma è il tempo atmosferico a fregarci: nuvoloni minacciosi si accalcano tutti attorno alle cime, promettendo sfracelli. D’altra parte, è il primo break di maltempo che subiamo, dopo dodici giorni quasi ininterrotti di sereno. Non si può pretendere tutto, no? Scendiamo in paese per fare rifornimento di panini e bibite. Ci accorgiamo che i prezzi del supermercato sono sorprendentemente alti, quasi come da noi, e ci chiediamo come faccia la gente a tirare avanti con questi prezzi e con gli stipendi che sono meno della metà dei nostri. Mistero. Sarà pure un effetto della crisi, ma a nostro parere questi prezzi sono ingiustificati. Fatta la spesa, ci arrampichiamo alla volta dei confini del Parco. Purtroppo il tempo peggiora, e nemmeno stavolta riusciremo a fare un trekking. Ci accontentiamo di un lungo raid in auto e, finalmente, un po’ di off-road! Nonostante le nuvole basse e la pioggia a tratti, ci imbattiamo in scenari mozzafiato, a tratti lunari, ogni tanto un piccolo laghetto occhieggia tra le rocce e i cardi di Scozia, in piena fioritura. Per un buon tratto proseguiamo su asfalto, poi ci appare sulla sinistra uno sterrato intrigante e la tentazione di sterzare su terra e roccia è troppo forte! Almeno tentiamo di rendere meno uggiosa questa giornata di pioggia e vento (e freddo!). Non ci pensiamo su due volte, in un attimo Max sterza e siamo finalmente fuori dall’asfalto. Ci si para davanti un paesaggio d’alta montagna, con laghetti, rocce e vegetazione bassa, mughi e graminacee. Lo sterrato rossastro si srotola tra i calcari ora frastagliati, ora levigati da acqua e vento, un magico luogo di bellezza minerale; siamo da soli con il fischio del vento. Proseguiamo per qualche km fino ad incontrare… un nucleo abitato! Un cane da pastore simile ai nostri abruzzesi, alla catena, lancia l’allarme. In lontananza, accanto a delle casupole, intravedo della stoffa nera che sventola; avvicinandoci a passo d’uomo, ci accorgiamo che la stoffa nera sventolante è nientemeno che l’abito nero di una vecchina che, accortasi del nostro arrivo, ha pensato bene di nascondersi in una delle tre casupole di legno, paglia e lamiera. E’ una pastora, e a giudicare dalla biancheria stesa ad asciugare, probabilmente starà qui tutta l’estate a pascolare le pecore. Non scendiamo per non invadere la sua vita, e anche perché altri due cani pastore, liberi e minacciosi, ci abbaiano contro con fare poco amichevole, accompagnando con inseguimenti e latrati un bel tratto del nostro andare. Piove a tratti, la temperatura raggiunge i tre gradi e lo sterrato prosegue tra i pascoli. Ci fermiamo a fare il punto nave. Questo sterrato è davvero intrigante e chissà fino a dove ci porta, ma ormai si sta facendo tardi e non abbiamo molto tempo per fare nuove esplorazioni. Perciò dietrofront, ripassando nuovamente davanti alle casupole della vecchina (ancora nascosta) e ai due cani accucciati accanto ad una minuscola casetta di legno e lamiera provvista di grossi pattini da slitta, probabilmente usata per portare bestiame o persone a valle in caso di necessità. Riagguantiamo l’asfalto, sempre soli al mondo, e scopriamo nuovi paesaggi mozzafiato. Nei pressi di un rettilineo, troviamo persino mezzo campo da basket disegnato sull’asfalto, con tanto di canestro regolamentare, segno evidente della scarsità di traffico quassù! Scendiamo nuovamente verso valle, e il paesaggio cambia ancora: rupi ammantate di fitta vegetazione, strapiombanti su uno dei tanti fiumi che scorrono in questa zona, attraversate da una strada che si incunea e si fa largo con numerose gallerie scavate nella pura roccia. Uno spettacolo splendido! Alla fine dei tornanti, si torna a valle. Seguiamo l’indicazione per un piccolo monastero, abitato da suore di clausura. Sembra deserto, a parte un tizio che vediamo saltare per acchiappare delle susine mature nel giardino del monastero. Crediamo sia chiuso e, anche se fosse aperto, è inutile che mi porti il cavalletto, tanto sicuramente non potrò fotografare all’interno. Invece, non solo la chiesa del monastero è visitabile, ma si può persino fotografare! Il tizio che saltava per le susine è il custode, una specie di “perpetuo”, messo a guardia di chiesa e incolumità delle monache. La chiesa è un’anonima costruzione in pietra, ma l’interno è un tripudio di mosaici di qualche secolo fa, icone dorate e splendide incisioni in oro a sbalzo. Siamo i soli visitatori; io documento questi tesori, Max lascia una sua preghierina scritta con allegata offerta sul piccolo altare allestito alla bisogna; ci sarebbe da perdere una giornata intera solamente per gustarsi queste opere d’arte sacra, ma dobbiamo andare e non vogliamo stravolgere con le nostre abitudini un luogo così sacro e silenzioso. Ringraziamo il giovanotto delle susine e ci avviamo verso l’albergo in montagna. Il Montenegro riserva mille e una sorpresa, tra natura e cultura. Altra cena insipida e poi a nanna. Domani ci aspetta la Bosnia.

18.9 
Manco a dirlo, stamattina nemmeno una nuvola. Paghiamo il conto (sempre troppo caro per il trattamento offerto) e ci dirigiamo verso il confine. Anche qui, il paesaggio è una favola, uno dei tanti fiumi irreggimentati dalle dighe disegna scenari lagunari, con isolotti verdi e anse coperte da foreste. Facciamo qualche scatto e veniamo raggiunti da una specie di pastore con tanto di fisarmonica, che attacca un concertino per voce e strumento; sorrisi, saluti, e ci allontaniamo anche perché non vorremmo perdere altro tempo al nuovo confine. Zdravo, Crna Gora! (ciao Montenegro).

BOSNIA-ERZEGOVINA
Tra la dogana montenegrina e quella bosniaca, altro repentino cambio di paesaggio, con scorci di canyon lussureggianti; trattandosi di terra di nessuno, e per evitare rogne, rinuncio a scattare delle foto, ma ne valeva davvero la pena! Veloce sguardo ai passaporti e ci fanno passare senza chiederci altro. Anche qui, i nomi dei paesi evocano scenari da guerra fratricida. Siamo in Bosnia, ma effettivamente stiamo attraversando la Repubblica Srpska, cioè l’enclave dei Serbi di Bosnia. Fino a pochissimo tempo fa, qui c’era un confine con richiesta di passaporto, poi è stato tolto e la circolazione è libera in tutte e due le entità. A complicare ancor di più la situazione, è lo sventolio di vessilli croati su parecchie case al di qua o al di là della strada. Stanno a significare nuclei di croati di Bosnia che rivendicano il proprio diritto di appartenenza ad una terra lacerata. Ennesimo esempio di una guerra inutile. Attraversiamo uno Stato immobile, con un’altissima disoccupazione, cimiteri dell’ultima guerra ovunque. La nostra meta di oggi sarà Mostar, altra città martire e simbolo della pazzia che ha devastato tutti. Per prima cosa, cerchiamo un posto dove passare la notte. Bussiamo a qualche porta, ma sembra che sia tutto esaurito! Poi, sempre attorno al centro storico, una gentile albergatrice ci conferma di avere il proprio albergo pieno, però ci indica il bed&breakfast di un’amica poco lontano. Ci dirigiamo in macchina e troviamo la proprietaria intenta a lavare i vetri della sua struttura. Ci accoglie con un inglese perfetto, parla anche qualche parola d’italiano e ci comprendiamo benissimo. Parcheggiamo nello spazio riservato e ci accompagna nella nostra camera, con vista minareti e centro storico. Il luogo è carino e pulitissimo, aria condizionata, biancheria candida e soffice. Scendiamo subito per non perdere preziose ore di luce, il mio intento è fotografare il famoso ponte a schiena d’asino, magari da una diversa angolazione. Riprendiamo l’auto e la parcheggiamo all’inizio del centro pedonale. Ci facciamo trasportare dalla corrente di turisti, ancora molto abbondanti, e tanti, tanti giapponesi. Assistiamo ai tuffi che un gruppo di ragazzi compiono a pagamento, per la gioia dei molti turisti giapponesi assiepati ai bordi del ponte; il ponte, come si ricorderà, fu distrutto dai bombardamenti croati, tagliando così la città in due; una parte cristiana, l’altra musulmana. E’ stato riedificato con molti sforzi da una ditta italiana, recuperando anche le pietre cadute nella Neretva; il ponte ha così riacquistato la sua forma originaria, creata nel Quattrocento, ma non sarà mai più com’era. Ci incamminiamo verso una moschea con minareto, ora museo. Bè, ormai che siamo qui… saliamo sul minareto, no? Ci infiliamo su per gli scalini angusti, alti e bui, sperando che nessuno decida di scendere proprio in quel momento! Finalmente sbuchiamo in cima, e lo spettacolo da quassù è meraviglioso. Mostar è davvero un gioiellino, dovrebbe essere considerata come punto d’unione tra culture e religioni, non un motivo di odio e divisioni… Sulla collina che sovrasta la città, scorgiamo una croce bianca: da lassù partivano le cannonate dei serbi; aguzzando la vista, giù, tra i vicoli, si intravvede la targa di una madrasa; molto denaro per la ricostruzione è giunto fin qui da fondazioni arabe. Ci chiediamo se in queste scuole coraniche si studino soltanto i precetti del Corano o qualcos’altro che con la religione e la tolleranza nulla hanno a che fare. Sul camminamento del minareto ci si sta stretti stretti tra altri turisti, è meglio scendere. Ci godiamo un po’ di tranquillità nel giardino del piccolo cimitero islamico, ora museo, altri scatti particolari, la luce è splendida. Una sbirciata alle bancarelle di artigianato, notevolmente migliorato rispetto a quanto offriva la Jugoslavija trent’anni fa. Ma tra ceramiche, ricami e tappeti, ora spuntano anche curiosi portachiavi e souvenir prodotti assemblando cartucce e proiettili. Troviamo simile oggettistica di cattivo gusto, d’altronde la vendita di simili “ricordini” può aiutare a tirare avanti in un’economia non certo florida. Ci sono ancora le “matitone” sagomate al tornio, le stesse che si vendevano sulle bancarelle dell’Istria quando eravamo giovanissimi! Ormai si è fatto buio. Riportiamo in camera zaino e Nikon, per girare almeno stasera senza pesi e impicci. Ne approfitto per scattare qualche foto notturna dal poggiolo della nostra stanza. Che bella atmosfera. Cenetta romantica in un localino affacciato su uno dei tanti canali d’acqua scrosciante che attraversano la città. Birra, carne, pesce e gatti affamati. Ci aspetta un riposo memorabile tra le lenzuola più pulite e fresche di bucato che abbiamo mai trovato ultimamente!

19.9 
Si riparte alla volta di Sarajevo, tra acquazzoni più o meno intensi. Dopo qualche ora siamo nella circonvallazione della capitale bosniaca, piove ancora, il traffico è intenso e nulla ci induce a fermarci; sembra che il ring attorno alla città sia dominio di zingari, siamo parecchio in ritardo sulla tabella di marcia e quindi desistiamo dall’immetterci nel flusso veicolare per il centro e ne usciamo, ancora direzione nord. La pioggia non molla, e rende piuttosto triste il paesaggio che attraversiamo; croci  e steli funerarie ovunque, case sventrate…. Qui si sono scannati tutti per una guerra senza un perché. A pranzo decidiamo di fermarci per un boccone, siamo nei pressi di Donij Vakuf, Bosnia centrale. Sostiamo in un ristorantino sulla strada, la nostra è l’unica macchina in parcheggio, a parte una Zastava 600 (“Fičko”) gialla e rossa parcheggiata poco più avanti. Il locale è grande ma è buio e dentro non c’è nessuno… poi appare una specie di giovane gigante buono in camicia celeste. Chiediamo se si può mangiare e ci risponde affermativamente in inglese. Ci accomodiamo al tavolo e, guardandoci attorno, ci rendiamo conto che siamo capitati in una specie di ritrovo per nostalgici della ex Repubblica Socialista di Jugoslavia… un grande ritratto di Tito campeggia nella sala, poi in giro ritagli di giornale, ricordi del passato regime.. Oltre ai ricordi socialisti, sul bancone fanno bella mostra di sé decine di trofei di gare automobilistiche… vuoi vedere che c’entrano qualcosa con la Zastava parcheggiata fuori? Il gigante buono ci porta il menu e due birre e, intanto che scegliamo cosa prendere, lo vediamo che ci sbircia da dietro il bancone con i trofei… non capiamo se destiamo la sua curiosità in quanto primi clienti da qualche tempo in qua o se siamo i primi stranieri che vede in vita sua… Mangiamo sotto lo sguardo severo di Tito e quello incuriosito (e defilato) del cameriere; a fine pranzo il gigante buono ci racconta che i trofei li ha vinti il titolare del ristorante proprio con la 600 Zastava che abbiamo visto fuori (regolarmente dipinta col pennello) e Max gli diventa ancora più simpatico quando gli dice che anche lui era un pilota di rally; io non posso fare a meno di chiedergli del ritratto del maresciallo Tito e delle bandiere jugoslave: Emsad, questo il nome del gigante buono in camicia celestina a mezze maniche, si illumina tutto e ci dice che lui è nato proprio il giorno della morte del Maresciallo, il 4 maggio 1980; questo ragazzone è nato e cresciuto in un’entità di una Federazione che proprio con la morte del suo “fondatore” è crollata miseramente, con tutto lo strascico di faide e guerre che sappiamo; eppure c’è ancora chi vede Tito come una personalità eccezionale e di grandi valori. Sicuramente, per esser riuscito a tenere unite per oltre quarant’anni sei repubbliche e due province autonome che, ideali socialisti a parte, si guardavano in cagnesco, si doveva esser altro che eccezionali… Ancora una volta riflettiamo su quanto siano servite queste guerre fratricide. Chi ci ha perso è sicuramente stata la popolazione di Bosnia; stato sovrano, ma frazionato su base etnico/religiosa, schiacciato da miseria e prospettive nulle di ripresa economica; un’altra carcassa da gettare in pasto agli avvoltoi occidentali (in primis, banche). Arriva il momento del conto; possiamo pagare in euro ma, purtroppo, Emsad non ha il resto. Nel frattempo entra nel locale un signore in bicicletta, amico di Emsad, il quale gli presta la bici per andare fino al distributore di benzina a cambiare gli euro. Il signore di mezza età attende con noi il ritorno del solerte cameriere. Dopo un po’, bagnato di pioggia, ritorna Emsad con il resto. Grandi ringraziamenti, pacche sulle spalle, due bottiglie di birra Sarajevsko in omaggio e… assolutamente foto ricordo con Max e il nostro Patrol e liquore per il brindisi finale. Emsad è così alto che sovrasta il fuoristrada! Gli chiediamo se hanno una mail e ci dà l’indirizzo del locale. Al nostro rientro a casa, ci rimettiamo in contatto, tramite un collega bosniaco di Max, con il nostro gigante, il quale ci fa sapere che ha raccontato di noi alla moglie, che ci ricorda con tanto piacere e che se gli possiamo mandare due righe con foto non per mail (l’internet in Bosnia non funziona granché), ma per posta, desiderio che esaudiamo con molto piacere. Ci rimettiamo in marcia, ora qualche raggio di sole spunta tra nuvole gonfie d’acqua. Oltrepassiamo Bihać, tristemente famosa per essere un’altra delle città martiri, nella sanguinosa battaglia del 1994; altre croci, altre lapidi con la mezzaluna punteggiano ogni spazio libero…. Arriviamo al confine con la Croazia, rapido controllo documenti, niente da dichiarare se non tanti perché e quesiti irrisolti…. Na svidenje, Bosna! (Arrivederci, Bosnia).

CROAZIA
Dobrodošli! (benvenuti) Siamo già nel territorio del Parco di Plitvice, ultima tappa del nostro viaggio. Ci dirigiamo nell’albergo principale, circondato da decine di pullman, a chiedere un posto per dormire. La gentilissima signora ci avvisa che tutti e due gli alberghi del parco sono al completo! Forse però riesce a trovarci un appartamentino. Rapido giro di telefonate e sì, l’appartamento c’è, ma a qualche km di distanza dal parco. Ci dà il nome della proprietaria dell’appartamento, la quale si farà trovare nei pressi del grande ponte sul fiume a bordo di un’auto rossa. Ormai è buio, partiamo alla ricerca della signora sull’auto rossa. Arriviamo al ponte, vediamo un’utilitaria rossa che, al nostro arrivo, sfreccia subito via, noi talloniamo la vettura chiedendoci il perché di tanta fretta. L’utilitaria si ferma al parcheggio di un supermercato, la passeggera scende ed entra nel negozio. Noi attendiamo qualche minuto, ma qualcosa non torna, scendo e chiedo alla ragazza bionda al volante se è lei la signora dell’appartamento; la ragazza si mette a ridere e mi dice che non è lei ma è sua madre che ci sta aspettando, sul ponte, a bordo dell’auto, qualche km più indietro! Ma?!? Dietro-front, sgommiamo e pochi km dopo, sul cavalcavia, un’altra auto rossa ci lampeggia! Eccola, è lei la signora che ci affitterà l’appartamento! Rapido scambio di saluti con risate, e ci accodiamo in una stradina di campagna. Per strada, incrociamo parecchie autovetture, tutte rosse… ci viene il sospetto che in paese ci sia stata un’infornata di auto rosse d’occasione e tutti ne abbiano approfittato! Eccoci finalmente a destinazione; l’appartamento è un monolocale carino e dotato di tutti i comfort, con cucina, frigo, tv… Ok, la sistemazione è super, e come vicini abbiamo solo una coppia di tedeschi silenziosi. Ceniamo in una pizzeria nei dintorni, strapiena; ma siccome siamo gente che ha sfidato il gelo russo, possiamo anche mangiare all’aperto, no? Anche se l’aria umida e pungente si fa sentire, fuori stiamo sicuramente più in pace. Notte di meritato riposo e domani… gita ai laghi!

20.9 
Fatta un po’ di spesa per riempire il frigo ed essere autonomi per cene e colazioni, verso mezzogiorno entriamo nel Parco Nazionale dei Laghi di Plitvice (Nacionalni Park Plitvička Jezera), Parco Nazionale dal 1949 (il più antico della Croazia, tra i primi della neonata Jugoslavija) e sito Unesco dal 1979. Per Max è la prima volta, per me è un tuffo nel passato e nei ricordi di una bellissima estate del 1985, quando già si percepivano i primi sommovimenti politici e la ferocia sobbolliva più a sud; nei ricordi di ragazzina comparivano ritratti del maresciallo Tito ancora listati a lutto e un figuro di nome Miloševič che occhieggiava sui quotidiani. A me, che in quell’estate con i miei genitori l’avevo trascorsa in giro per la Jugoslavija fino a Sebenico, quelle campagne antiche piacevano molto e la semplicità della vita nelle Kraijne mi attirava di più delle località turistiche della costa. Era chiaro che un mondo così non poteva durare. Imbocchiamo la stradina che ci porta alla prima grande cascata, siamo circondati da caterve di turisti di tutte le nazionalità; sotto alla cascata siamo anche in compagnia di un gruppo di turisti israeliani caciaroni e goliardici, che si scattano foto di gruppo, ma di dubbio gusto (leggi: al posto delle facce, mostrano le terga inguainate in bermudoni a scacchi); monopolizzano ogni punto di belvedere e sono piuttosto fastidiosi, anche per gli altri turisti; qualche scatto e ci avventuriamo sulle passerelle di legno che solcano i laghetti dai mille colori diversi; il colore dell’acqua cambia in continuazione con il passaggio delle nuvole e col passare delle ore; spettacolo meraviglioso! Davanti al tabellone con la mappa del parco facciamo un po’ il punto della situazione; vista l’ora, decidiamo per una gita in barca con ritorno in pullmino; purtroppo, anche gli israeliani si imbarcano con noi, e non rinunciano alla caciara nemmeno a bordo, intonando “Hava Nagila” e coinvolgendo anche il resto dei partecipanti a cantare e battere le mani con loro. Noi due e una coppia di giovani musulmani imbarazzati siamo gli unici a non partecipare; ci chiediamo cosa sarebbe successo se, ad un certo punto, Max ed io ci fossimo alzati a cantare a squarciagola “Luna rossa” e invitando tutti gli altri a cantarla con noi. Purtroppo la cafonaggine israelita non termina qui, e più volte li avremmo sentiti vociare per tutto il parco… La maleducazione non ha passaporto. Finalmente sbarchiamo e troviamo il modo per defilarci dalla confusione; pur con il notevole afflusso di visitatori, il parco è abbastanza vasto per permettere una diluizione delle persone, anche se costrette a camminare solamente sulle passerelle sull’acqua. Purtroppo, una pecca (che avevo già osservato nel 1985) è che ci sono pochissimi servizi igienici; considerata l’alta presenza di turisti, spesso non giovanissimi, due soli luoghi dedicati ai servizi (uno all’ingresso e uno al centro del parco) non sono sufficienti per dare sollievo a chi cammina per oltre tre ore; infatti, ogni tanto qualcuno si infratta tra le piante. Riesco a fare degli scatti senza troppa gente in giro, ma spesso, negli angoli più suggestivi, ci dobbiamo mettere in fila ed attendere il nostro turno per lo scatto-ricordo! C’è gente che si porta dietro anche l’attrezzatura professionale, maxi-tele, filtri… ma, con un po’ di pazienza, c’è posto per tutti. La nostra prima gita termina nel tardo pomeriggio; rientriamo a casa a riposare le gambe e approfittiamo del tavolino nel giardino del nostro appartamento per una bella birra fresca, a goderci il tramonto e l’aria già frizzantina di fine settembre. Osserviamo anche che siamo partiti che era ancora estate e torniamo in autunno…. Scherzi da calendario.

21.9 
Penultimo giorno di vacanza, giornata dedicata tutta ai laghi. Decidiamo di saltare le zone all’ingresso per dedicarci ai percorsi non visti ieri. Rapido sguardo alla cartina e via, a cercare scorci lontano dalla pazza folla. Le cascate si sono formate a seguito dei depositi carbonatici delle acque, creando innumerevoli concrezioni in travertino; Max è estasiato dallo spettacolo, io rivivo momenti felici della mia adolescenza; per certi aspetti, sembra che nulla sia cambiato dopo ventotto anni. Ogni tanto ci imbattiamo in pozze dall’acqua così trasparente da riuscire a scorgere il fondale, distante però parecchi metri dalla superficie; diverse passerelle si srotolano direttamente sul pelo dell’acqua, e non so cosa ci trattiene dal tuffarci nell’acqua cristallina! Plitvice è sempre un incanto in tutte le stagioni, pure d’inverno, quando le cascate ghiacciano e tutto è un merletto di brina. Ora, a inizio autunno, qualche albero comincia ad ingiallire, prodromi di uno spettacolo indimenticabile. Nel nostro peregrinare incontriamo, anche qui, delle ragazze giapponesi. Ad un certo punto si fermano, una di loro apre lo zainetto e tira fuori una specie di costume di peluche… In men che non si dica, si traveste da gattone e si fa fotografare così conciata con sfondo del lago! Ma questa si è portata il costume da manga dal Giappone per farsi ritrarre così proprio qui? L’universo nipponico ci risulta incomprensibile… A metà pomeriggio abbiamo percorso il giro di quasi tutti i laghi, e col biglietto cumulativo di ieri ritorniamo alla base col barchino (e pulmino). Due giorni veramente di tutto riposo, nella natura e nell’aria pulita. Ci voleva proprio! Cenetta nella tranquillità del nostro appartamento, riposo e poi domani… partenza per Trieste!

22.9 
Salutiamo la sig.ra Renata, proprietaria dell’appartamento, dove siamo stati molto bene e ad un prezzo onesto. Rotta ovest-nord-ovest, col borino ed il sole. Ci stiamo avvicinando all’ultimo dei cinque mari; ora il nostro Adriatico è all’orizzonte. Sulle alture sopra Senj ci fermiamo per una pausa; splendide appaiono le coste brulle dell’isola di Krk (Veglia) e Cres (Cherso), il bianco calcare sferzato dalla Bora che si getta a picco nel mare blu cobalto. Uno spettacolo unico, che veramente non ci fa rimpiangere la Grecia… Ci rimettiamo in marcia, vicino a Rijeka (Fiume) ci attende un caro amico croato, collega di Max, per un pranzo a base di pesce, in un locale a picco sul mare. Tra un sarago ai ferri e un calice di malvasia, i racconti e gli aneddoti di questo lungo viaggio riaffiorano in continuazione. Un viaggio che, tra manifestazioni e proteste ovunque, siamo comunque riusciti a portare a termine.
Il nostro è stato un lunghissimo andare, in un’Europa balcanica ricca di misteri e contraddizioni, di fascino e miseria, di rimpianti del passato e voglia di futuro, di imperi perduti e democrazie sui generis, di confini materiali e confini mentali. E, a giudicare da quanto visto, forse era meglio rimanere in un’Europa di Stati e confini. In tutto 4.970 km nella pancia di un continente che, forse, non ha ancora scoperto la sua vera identità. E che, probabilmente, nemmeno la cerca. 


2 commenti:

bonita84 ha detto...

Pershendetje Massimo.
E lexova me kujdes pershkrimin qe ke bere rreth udhetimit ne Shqiperi. Ne radhe te pare te falenderoj per pershtypjet e mira qe ke thene per vendin tim, por s'jam dakort me ty ne disa gjera. E para nuk eshte e vertete qe nuk ka tabela per te te drejtuar tek "Syri i Kalter". Ai eshte vendi me i vizituar nga turistet dhe eshte nje perle e vertete prandaj per kete arsye ka tabela qe te cojne per atje, duhet te kishit qene me te vemendshem ;) ... E dyta nuk jemi sorridenti per arsye te "hashashit" sic e ke cituar ti, por jemi keshtu nga natyra, te qeshur, mikprites, te dashur me kedo qe vjen e na viziton. Per sa i perket te tjerave sdo hiqja asnje presje per sa ke thene nga ato qe ke pare. Shqiperia ka akoma shume vende te bukura per te vizituar ndaj mos e ler me kaq por kthehu perseri dhe shijoje te gjithen. :)
Faleminderit dhe mireardhshi perseri!

max ha detto...

Buonasera bonita84,
grazie per aver letto e commentato il nostro viaggio nei Balcani del 2013. Come avrai capito, era la seconda volta che visitavamo il tuo Paese a distanza di pochi anni dal primo ingresso. Già allora, ci aveva particolarmente colpito la bellezza dei luoghi (allora visitammo unicamente la parte centro-nord del Paese, paesaggisticamente molto diversa da quello che abbiamo visto questa volta), ma questo è logicamente soggettivo.
Ci ha davvero sorpreso la totale, sincera e vera accoglienza dei suoi abitanti. Le parti del racconto dove accenno all’allegria e alla gentilezza a causa forse degli effluvi che si diffondono tutto attorno per colpa di certe piantine, erano decisamente delle battute di spirito, in quanto, provenendo dalla Grecia, paese gravemente depresso causa tragica crisi economica, dopo aver visto molta delusione rassegnazione nelle persone, era inevitabile non accorgersi di facce sorridenti e ben disposte verso i turisti. La mia frase era riferita unicamente a questo aspetto.
L’altra nota che sottolinei riguardo “l’Occhio Blu” purtroppo è una nostra grande delusione averlo mancato nei pochi chilometri che lo separano da Mesopotam, evidentemente forse non era particolarmente indicato 7 anni fa, oppure come dici tu, forse causa la mia disattenzione. Certo è, che sarà sempre un motivo di grande interesse ritornare in Albania per cercarlo e finalmente visitarlo, ma anche per rivedere ancora altre bellezze che sicuramente ci sono sfuggite. Colgo l’occasione di invitarti a leggere anche il racconto precedente, quello del 2011 per darmi ancora una volta un giudizio sul mio racconto e sperando di rileggere ancora tuoi prossimi interventi. Grazie!
Një përqafim i madh