4.970 Km in 18 giorni, 63 ore di guida fra 9 Stati, 6 capitali e 5 mari
(clicca sulla cartina per ingrandire)
UN’AVVENTURA BALCANICA
Partenza per
il tour dei cinque mari, ma in realtà non ci immergeremo nelle acque; sarà
piuttosto un’immersione nei territori, per certi versi misteriosi e
affascinanti, dei Balcani occidentali. Il viaggio si snoda attraverso nove
Stati: Slovenia, Croazia, Serbia, Bulgaria (con sosta a Plovdiv,
ospiti del nostro carissimo amico Adalberto), Turchia, Grecia, Albania,
Montenegro, Bosnia-Erzegovina, e poi nuovamente Croazia e Slovenia. Paesi nati
dalla dissoluzione della ex-Jugoslavia, democrazie spuntate dopo il crollo
della Cortina di Ferro, una nuova Europa in cerca di una sua identità nel mezzo
di una crisi economica che morde da cinque anni. Scopriremo un Paese da sempre
nella UE (Grecia) che sembra annichilito e incapace di guardare avanti;
attraverseremo uno Stato come la Bulgaria, che ci fa chiedere ad ogni
chilometro come e perché è entrato nella UE; un Paese come la Turchia che
prosegue nel suo sviluppo, sotto lo sguardo severo e onnipresente
di Atatürk; uno Stato come l’Albania che sembrava irrimediabilmente
ostaggio del suo passato di povertà e arretratezza e che invece dimostra come
si possa, anche con poco, nelle piccole cose di ogni giorno, proseguire nel
difficile cammino della democrazia e del riscatto sociale; e le perenni
contraddizioni del mondo slavo, i medesimi fanatismi, odii secolari
puntualmente riattizzati, laddove basta una segnaletica bilingue a scatenare
rancori e nemmeno troppo malcelate insofferenze. I morti di vent’anni fa non
sono bastati…
La prima
tappa sarà Belgrado, ma già pensiamo al momento in cui finalmente vedremo il
cartello “Istanbul”. Siamo incerti se spingerci fino al Bosforo o meno: i
recentissimi notiziari, che narrano di frequenti e quasi quotidiane manifestazioni
in città, ci inducono a continui ripensamenti; e poi c’è la guerra in Siria,
Paese confinante con la Turchia; gli ultimi lanci delle agenzie riportano una
frase del premier turco Erdoğan molto esplicita: “La Turchia sarà al fianco di
qualsiasi Governo che interverrà militarmente in Siria”. La situazione è già
molto calda a Istanbul e ad Ankara: il rischio di attentati, soprattutto in
luoghi affollati, è significativamente alto. Decideremo all’ultimo momento se
varcare il Corno d’Oro. La mente corre poi alla fine del tour, dove riposeremo
corpi e menti nel paradiso dei laghi di Plitvice. Ma andiamo con ordine..
5.9
SLOVENIA
Il nostro
fidato Patrol ha superato egregiamente il consueto check-up e, finalmente, alle
ore 12.30 del 5 settembre, si parte. Appena uscita dall’ufficio, trovo Max ad
attendermi col motore del Nissan impaziente di partire verso una nuova,
lunghissima avventura.
La giornata è
calda e assolata. Dopo nemmeno quindici chilometri, entriamo in Slovenia. Causa
l’assenza di traffico, visto anche l’orario e la giornata infrasettimanale, si
svolgono veloci le operazioni di routine (il pieno di gasolio, l’acquisto della
vignetta e l’indispensabile scorta di caramelle, molto utile per il lungo
viaggio). Fatta una manciata di chilometri, ci fermiamo per fissare sul
cristallo anteriore la vignetta, prima di prendere l’autostrada che ci porterà
prima a Ljubljana e successivamente dopo diverse ore a Belgrado. Approfittiamo
della sosta anche per sorseggiare qualche bibita fresca ed appurare così il
buon funzionamento del nuovo frigo da viaggio. Una ventina di minuti dopo,
siamo di nuovo in partenza.
Primo
contatto con la crisi economica, che miracolosamente sembrava non aver
intaccato questo piccolo e verdissimo Stato. Nella sonnacchiosa e soleggiata
campagna slovena, osserviamo la notevole quantità di immobili che sono spuntati
come funghi negli ultimi anni, soprattutto complessi di appartamenti e villini,
a volte del tutto pretenziosi. Dopo anni di euforia economica, anche qui la
bolla immobiliare è scoppiata e quello che sembrava un paese dalla florida
economia, si è rivelato fragile come tanti altri. Non si contano più ormai i
numerosissimi cartelli “na prodaj” (in vendita), alcuni arrugginiti, appesi su
immobili che difficilmente troveranno un acquirente.
Arriviamo al
confine di Bragana, fra Slovenia e Croazia; nonostante la Croazia sia il nuovo
membro della UE, lo “spazio Schengen” non è ancora in essere, e quindi il posto
di controllo rimane; ma è solo pura formalità e lo passiamo in un attimo.
CROAZIA
Il viaggio in Croazia prosegue
tranquillo, traffico scarso per non dire quasi inesistente. Attraversiamo la
verde sub-regione croata della Slavonia, zona collinare ricca di foreste, con
vaste conche pianeggianti ove scorre il fiume Sava, affluente del Danubio.
Transitiamo alla periferia di Zagabria per non rimanere imbottigliati dal
traffico caotico della capitale. I Km scorrono veloci, eppure appena superata
la città di Novska, decidiamo di fare una seconda sosta. Sono le 17.00. Max
manifesta i primi segnali di insofferenza nel guidare tante ore in autostrada.
E’ sì comoda, veloce, scorrevole, liscia, ma di una tal noia… Mai stato tanto
insofferente in autostrada come quest’anno! Altra mezz’ora fermi in un’area di
sosta a bere qualcosa di fresco e interrompere così la monotonia del viaggio.
Nella morbida luce di un tramonto di fine estate approdiamo a Osijek alle
19.00, e decidiamo di fermarci qui per la notte. Per questo viaggio, tanto per
vedere l’effetto che fa, Max si è appoggiato a un motore di ricerca per il
calcolo di distanze e chilometri. Evidentemente, il programma di calcolo ha una
visione molto ottimistica del mondo…. Il risultato è che dopo sei
ore e mezza di marcia sostenuta e con due soste di complessivi quarantacinque
minuti siamo arrivati appena a Osijek. E siamo ben lontani dalla capitale serba
come pronosticato dal computer! Purtroppo strada facendo, scopriremo che non
sarà l’unica volta che il programma si è mostrato ottimista circa i tempi di
percorrenza!
Nella ricerca
di un posto dove dormire, tocchiamo con mano quanto la guerra tra Croati e
Serbi abbia infierito pesantemente in città; segni di granate e case crivellate
dai proiettili sono ovunque, muti testimoni di un passato che sarà impossibile
da dimenticare per chi ha più di vent’anni. Troviamo un alberghetto un tantino
insipido (Hotel Drava), ma con comodo parcheggio interno e personale anglofono.
Un giretto in centro ad osservare vetrine che, nella composizione e
disposizione di arredi e articoli, sembrano le stesse che vedevamo ai tempi
della vecchia Jugoslavia di trent’anni fa. Ci assale la “Jugonostàlghia”…. In
città si respira un’aria immobile; non capiamo se è per colpa della pesante
crisi economica che martella anche questo Paese, o se è soltanto un essere in
“surplace” in attesa dei fondi strutturali e di coesione spettante a questo
nuovo membro della UE. Forse, è solo l’umidità del fiume…
In un attimo
fa buio e ci stupiamo per la scarsa illuminazione di strade e locali; la
cittadina sembra vivere in un perenne coprifuoco. Spicca solo il campanile in
mattoni rossi della cattedrale neogotica, il secondo più alto della Croazia
dopo quello della cattedrale di Zagabria; a parte lo sferragliare di
coloratissimi tram, il centro, scuro e deprimente, non offre granché. Magari
con la luce del giorno si rivestirà di vita e colore ma, nel buio delle 21.00,
di attrattive non ne scorgiamo, nemmeno i ponti sulla Drava. Ci ristoriamo con
due pizze giganti e buonissime, e quattro Osječko in bottiglia, il tutto per 17
euro.
6.9
Di buon
mattino, dopo un’abbondante colazione, saldiamo il conto (561 kune, 74 euro!
Alla faccia dell’alberghetto insipido). Consegnata la chiave, vedo che la
altrettanto insipida receptionist rimane incollata con lo sguardo sui miei
capelli, già terremotati. Un fugace sorriso e le scappa un “I like your hair!”.
Ringrazio la biondina e partiamo alla volta della Serbia, destinazione Danubio,
fortezza di Golubac, le mitiche Porte di Ferro….
In teoria,
oggi il programma di viaggio dovrebbe portarci a Plovdiv, in Bulgaria, invece
non siamo nemmeno a Belgrado! Intuiamo che questo viaggio sarà molto più lungo
di quanto preventivato e trascorreremo diverse ore seduti in macchina per
rispettare la tabella di marcia. Per arrivare a Plovdiv, dovremmo prima
transitare nelle città di Vukovar e Belgrado, e poi giungere alle leggendarie
Porte di Ferro sull’altrettanto leggendario Danubio (qui chiamato Dunav), che
con le sue ampie anse disegna il flessuoso proseguire. Appare subito chiaro che
stasera non arriveremo dall’amico Adalberto a Plovdiv, visti i notevoli
chilometri che ci separano, ma cercheremo di mantenere una non troppo
insuperabile distanza.
Arriviamo dunque a
Vukovar, “la Martire”. Capitiamo in mezzo ad una manifestazione di protesta:
agenti di Polizia pesantemente armati presidiano parecchi quartieri; neri
striscioni minacciosi contro l’introduzione del doppio alfabeto (latino e
cirillico) sui segnali stradali nelle zone di confine con la Serbia; la gente
(croata) non vuole vedere cartelli stradali bilingui e si oppone con durezza
alla legge che impone (come da normativa europea) il bilinguismo in zone
confinarie (tra l’altro, Vukovar ospita una nutrita popolazione serba). Un odio
atavico che non si riuscirà mai a sradicare. Incontriamo parecchi edifici
sventrati dalle granate e dai colpi di mortaio, residui della guerra; le
vecchie case con i fori dei proiettili stuccati spiccano tra villini nuovi e
moderni, casette ignare del dolore e della pazzia, al pari degli adolescenti
contestatari, che conoscono la storia solo perché raccontata dai loro padri. La
Croazia è ad un passo da una gravissima congiuntura economica, la
disoccupazione supera il 20%, un ex primo ministro è stato recentissimamente
condannato a dieci anni per corruzione, eppure – magari sbaglieremo – l’impressione
è che per la gente di qui tutto questo passi in secondo piano rispetto al
problema della doppia segnaletica e del bilinguismo. Di fronte a tutto ciò, ci
chiediamo come questo Stato possa affrontare un impegnativo futuro comunitario
e moderno se resta tuttora ancorato all’odio etnico, non di vent’anni fa, ma
secolare… Foto di rito per “non dimenticare” e via a riprendere l’autostrada
per Belgrado. In meno di un’oretta, arriviamo sul confine croato-serbo di
Lipovac. Zdravo Hrvatska! (ciao Croazia).
SERBIA
Il tratto di
autostrada verso la Serbia lo percorriamo in solitaria: nessun veicolo davanti,
nessun veicolo dietro; sembra di essere soli al mondo, i sopravvissuti a un
qualche olocausto. Verso l’ora di pranzo guadagniamo il confine
serbo. Poco traffico in entrata, parecchio in uscita. In coda,
scorgiamo i doganieri sotto la pensilina, loro scorgono noi e ci puntano con lo
sguardo. Chissà perché abbiamo la sensazione che finiremo sotto le loro
grinfie… Infatti! Il poliziotto addetto al controllo passaporti, in un quasi
perfetto italiano, ci fa cenno di accostare. Cinque armadi a due ante ci
circondano e ci chiedono, con molta professionalità, di scendere per un
controllo dell’auto. Infilano le mani nei portaoggetti delle portiere, sopra e
sotto i sedili, nei parasole… Sempre con fare gentile, ci chiedono
di sistemare sopra una panchina tutti i bagagli contenuti nel baule per il
controllo. E, con delicatezza, controllano sul serio tutti i
bagagli, persino nella bustina dei cerotti e nel pacco regalo che abbiamo preso
per la figlia degli amici bulgari. Il tutto dura una ventina di
minuti. Sfogliando i nostri passaporti e osservando i numerosi timbri (e i
visti per la Russia) ci chiedono chi siamo, dove andiamo, perché ci andiamo,
poi, sempre in inglese: “You are journalist?” risposta: “No, i’m traveller…
look!” e gli indico l’adesivo del tour Siberia 2008. Quella scritta fa sempre
colpo e così, con apprezzamenti a mezza voce da parte del doganiere più
giovane, e aver caricato nuovamente tutti i bagagli, riprendiamo la marcia alla
volta del Danubio.
Commentiamo
subito dopo il confine che il controllo sarà anche stato minuzioso, ma non ci
hanno fatto aprire il cofano motore, non hanno badato allo snorkel, ma
soprattutto, non ci hanno perquisito. Ma con un controllo così accurato, non
avrebbe dovuto avvalersi anche di un cane antidroga? Boh. Magari cercavano
altro..
Per strada
non incontriamo quasi nessuno e la marcia procede svelta. Nei pressi di
Belgrado, ripetiamo la stessa operazione già messa in atto a Zagabria,
cerchiamo di tenerci alla larga dal centro e quindi rimaniamo all’esterno
aggirandolo senza mai uscire dall’autostrada e puntare così in direzione
Požarevac e quindi poi verso V. Gradište, costeggiando così il Danubio nel suo
corso. La zona della Serbia da noi attraversata, fino a Belgrado, corrisponde
all’ampia pianura pannonica, in comune con l’Ungheria e la Vojvodina. Paesaggio
alluvionale e uniforme, molto verde e dal caldo afoso, un tempo la zona veniva
definita la “Mesopotamia jugoslava”, proprio per la confluenza di parecchi
fiumi (Sava, Drava e Danubio). Siamo fortunati, il clima continentale, con le
sue estati roventi, ci concede tregua e perciò il viaggio prosegue con una
temperatura ottimale. Qua e là la steppa appare nella monotona pianura
alluvionale, e ci ricorda un po’ la pustza ungherese. Brevemente, ci immergiamo
nel caotico traffico della capitale serba, tra palazzoni real-socialisti e
modernissime architetture. La Serbia è uno dei Paesi balcanici più duramente
bastonati dalla crisi economica mondiale ma, incredibilmente, è riuscita a
rimanere a galla anche grazie alle esportazioni dello stabilimento
Fiat di Kragujevac… Rotta est-sud-est, seguendo il corso del grande Danubio.
Nel primo
pomeriggio arriviamo alle mitiche Porte di Ferro! E’ dalle elementari che sento
parlare di questo luogo leggendario e della fortezza medievale semisommersa di
Golubac e, finalmente, ci siamo arrivati! La giornata, sempre splendida, ci
regala scorci e immagini meravigliose, peccato che la Nikon abbia deciso di
fare le bizze e pertanto qualche scatto non sarà nitido…. Constatiamo la
pochezza di ricezione turistica (leggi: una sola bancarella di poverissimi
souvenir risalenti alla vecchia Jugoslavia, niente punti informativi, solo alla
fine della zona archeologica compare un ristorante, affollatissimo di gente e
pullman); a contraltare, decine d’irriducibili pescatori a riva,
attrezzatissimi con centinaia di canne, roulotte, tende, barbecue… Se, da un
lato, la desolazione aumenta il fascino un po’ truce e “carpatico” della zona,
dall’altra un minimo di promozione informativa non avrebbe guastato… Bastava un
cartello almeno bilingue e la gente ne avrebbe saputo di più.
Ci godiamo
per un po’ questo maestoso spettacolo di storia e natura e constatiamo che il
Danubio… è sempre blu; la riva opposta è già Romania e l’Unione Europea si fa
annunciare da una selva di pale eoliche… Ci chiediamo quanta gente avrà
raggiunto clandestinamente la sponda opposta, sognando magari un futuro
migliore, e chissà quali contrabbandi consentono di sbarcare il lunario…
Il bellissimo
fiume, davvero grande e profondo in qualche tratto, si snoda placido attraverso
le gole del parco Đerdap (Đerdapska klisura in serbo, Porţile de Fier in
romeno), e le falesie sovrastanti raggiungono la ragguardevole altezza di 500
metri a strapiombo sul secondo fiume d’Europa. Ancora una piccola sosta alla
gola Kazan, famosa perché è la gola più stretta dell’intero percorso; la
distanza che separa le due rive è di soli 150 metri e il fiume raggiunge la
davvero ragguardevole profondità di 53 metri!
Con poco
traffico, ci lasciamo alla nostra sinistra uno dei nuovi ponti con la dogana
verso la Romania e proseguiamo, sempre quasi da soli a parte qualche ciclista
avventuroso, alla volta del confine bulgaro. Curva dopo curva, al crepuscolo,
arriviamo prima a Negotin e poi a Bregovo, dove finalmente, dopo una ventina di
chilometri saremo a Vidin, prima città bulgara. La strada, che taglia numerosi
campi coltivati, è buia, piena di buche, una classica strada da
contrabbandieri. Infine, nell’oscurità della campagna serba, intravvediamo
delle fioche lucine in lontananza: sarà mica il confine? Esatto: quattro pali
della luce, una casupola e il confine tra ex Jugoslavia e Unione Europea è
servito! La scena ha un che di surreale; arriviamo attorno alle 20.00, non c’è
nessuno in giro, ci troviamo da soli davanti alla sbarra abbassata e aspettiamo
il movimento di qualcuno. Max spegne il motore, scende e si avvia verso la
casermetta illuminata all’interno; in quello stesso istante escono due figuri.
Nel cono di luce proiettato dall’unico lampione della dogana, ci siamo noi, un
doganiere panzuto (e scamiciato, senza cravatta e con nessuna voglia di
controllare alcunché), una Lara Croft dei Balcani (bella poliziotta spilungona
dai capelli rossi e pistolone sulla coscia destra) e… un cane festoso, l’unico
del trio serbo a mostrare un qualche interesse. Parlottano un po’ fra loro, lei
ci controlla svogliatamente i passaporti e decidono di non far niente. Nessun
controllo al mezzo né a noi. Dopo dieci minuti ritengono di averne abbastanza e
ci fanno partire. Hvala, zdravo Srbija! (Grazie, ciao Serbia!).
BULGARIA
Dogana
bulgara ancora più folkloristica: noi sempre da soli, mezzo personale a
guardare la tv (partita di calcio Italia-Bulgaria…), l’altro mezzo sugli scalini
di fronte ad osservare quei singolari turisti arrivati
dall’Italia (cioè noi). Funzionari più gentili e parlanti un po’
d’italiano ci ricordano che dobbiamo fare la vignetta (5 euro per sette
giorni). Max rimane accanto al fuoristrada mentre i funzionari controllano
sommariamente il mezzo e leggono gli adesivi, commentando qualcosa fra loro, io
vado a procurarmi la vignetta. Non so perché, al funzionario addetto mi rivolgo
in tedesco, lui mi risponde in bulgaro “papir za avto” (ci vuole la carta di
circolazione), torno con la carta, pago in euro, ringrazio in italiano e
poi via nel buio della campagna alla volta di Vidin. Primo contatto
con la lingua e scrittura bulgara: molte parole sono simili al russo, altre al
serbo croato, l’alfabeto è quasi del tutto identico al cirillico russo ma dalla
pronuncia molto più semplice. Vado sul velluto.
Cerchiamo la
cittadina di Vidin, sempre nel buio più totale. Arriviamo in città e giriamo un
po’ col Patrol prima di trovare un albergo. Qui siamo molto vicini alla Romania
e alla città di Calafati, anche se c’è sempre il Danubio a far da
confine naturale.
Girando per
città, imbocchiamo una stradina che ci porta direttamente a una mega festa
all’aperto. Centinaia di auto transitano sulla nostra stessa strada e tutte stanno
cercando un parcheggio. Noi vorremmo solo uscire da questa bolgia. Alla fine ci
riusciamo e quasi per sbaglio troviamo l’hotel Bononia, reperto architettonico
da socialismo reale; vista l’ora (le 21.00) e nessuna voglia di cercare di
meglio, ci accontentiamo volentieri. Con un po’ di fatica da parte della
receptionist (fuori c’erano diversi pullman) riusciamo a farci dare una camera
per la notte, camera che raramente deve aver visto aspirapolveri e viakal…
Rimandando a
dopo cena lo scarico bagagli, andiamo direttamente in ristorante a metter
qualcosa sotto i denti. Ovviamente, il mega schermo tv trasmette la diretta
della partita Italia-Bulgaria, per i bulgari si sta mettendo male. Ci
scherziamo un po’ sul fatto della nostra incolumità e quella del Patrol. La
cena ci costa poco. L’equivalente di 15 euro per una speziatissima pljeskavica,
patatine fritte, filetto di maiale, quattro birre grandi e una piccola, e un
gelato. Costi che in Italia, così ce li sogniamo da anni. L’albergo invece ci
costerà (con una colazione da dimenticare) 20 euro, più 1 lev (quindi al cambio
39 leva). Iniziano ad arrivare sempre più numerosi gli sms di Adalberto che ci
chiede dove siamo, e fra quanto tempo ci vediamo. Non vediamo l’ora di poterlo
riabbracciare! Lui più di tutti ha creduto nel nostro progetto del viaggio in
Siberia, ci ha sostenuti e contagiati con la sua passione per la Russia intera,
ci ha entusiasmato con i suoi racconti di viaggiatore indipendente. Ci
conosciamo ormai da 5 anni ed è tra i nostri amici più cari di sempre.
7.9
Il clima ci
assiste e, nello splendore di una giornata fresca e tersa, ci rendiamo conto di
attraversare la zona più depressa dell’intero Paese. Il primo tratto di
Bulgaria (da Vidin a Montana) si srotola attraverso una magnifica foresta di
pura quercia, da Europa primigenia; dal fresco delle alture si passa al caldo
afoso della pianura; degrado, sporcizia, villaggi miserabili di zingari,
contrastano con una campagna povera ma che nel complesso sembra curata e
lavorata; catapecchie gitane e casette bulgare, con giardinetti, ciuchini e
carretti con i cavalli; ci chiediamo come gli zingari facciano a vivere a
tutt’oggi in un contesto di degrado, squallore e soprattutto tanta sporcizia,
che sembra appartenere ad altri luoghi, altri tempi. Benvenuti in Bulgaria, lo
Stato più povero dell’intera UE…. Lungo la strada ci lasciamo alle spalle delle
singolari formazioni rocciose e colline particolari e giù, a valle, sullo
stradone principale, come uno schiaffo in pieno viso, la cruda realtà locale ci
viene sbattuta in faccia. Parecchie decine di “lucciole”, sia zingare sia
caucasiche, merce esposta in pieno giorno…. Sarà che non ci siamo abituati, che
almeno dalle nostre parti cose simili non accadono, ma la visione di decine di
ragazzine, alcune poco più che bambine, letteralmente mezze nude, buttate in
mezzo alla strada come vacche al mercato è un pugno allo stomaco. Quante
bastonate, quanti soprusi e violenze dietro ai loro sorrisi di fanciulle e ai
loro festanti saluti con la mano? Sinceramente intristiti, proseguiamo per
Sofia, altra città sommersa da proteste da parecchi mesi: il rincaro abnorme
del costo dell’elettricità prima, la nomina, (poi revocata) di un pupillo
dell’intellighenzia a capo dei servizi di “intelligence” poi, hanno dato la stura
al malcontento popolare, con poveri disperati, pensionati alla fame, studenti e
ceto medio assieme a protestare a gran voce di essere stufi di uno Stato
governato da un’élite monolitica, chiedendo nuove elezioni, nuova classe
dirigente, trasparenza…. A più di vent’anni dalla caduta del regime comunista,
in Bulgaria, il più allineato tra gli allineati, nemmeno qui sembra che le cose
siano cambiate molto. Giriamo per il centro, davvero monumentale e molto bello
e dalle splendide basiliche, ma l’intenso traffico e la difficoltà di trovare
un parcheggio, ci fanno desistere dal cercare un luogo dove fermarci per un
boccone; Sofia merita comunque una visita, promettiamo di ritornarci in un
prossimo futuro. Imbocchiamo l’autostrada, nel traffico scorrevole alcune scenette
ci strappano un sorriso: la prima è di un’automobile che ci supera con una
bara, perfettamente incellophanata, sul portapacchi; la seconda è ancora più
mitica: una pattuglia della polizia stradale, ferma nella zona di
spartitraffico; viaggiamo nei limiti e quindi non ci preoccupiamo, quello che
ci inquieta è il singolare attrezzo che sovrasta la volante: avvicinandoci, ci
accorgiamo che la pattuglia, regolarmente seduta nella vettura, si fa ombra dal
sole tardo estivo con un bellissimo ombrellone da spiaggia, con tanto di base,
e tenuto in posizione da uno dei poliziotti, con un braccio che sbuca dal
finestrino…. Logico chiedersi, in caso di chiamata, quali siano i tempi di
reazione. Grandissimi!
Gli sms di
Adalberto iniziano a fioccare, ci dà indicazioni su quale uscita prendere per
Plovdiv e sul luogo del nostro rendez-vous. Ancora sorridenti per l’incontro
con la singolare pattuglia balneare, imbocchiamo il vialone che ci porterà
direttamente nella seconda città della Bulgaria per grandezza. L’appuntamento è
davanti ad un grande albergo, altra bruttura real-socialista, parcheggiamo e
vediamo il nostro amico arrivare a piedi. Grande emozione, baci, abbracci e
strette di mano, tante cose da raccontarci e consolidare ancora una volta quel
legame che ci unisce. Sempre a piedi, e noi dietro in auto, ci accompagna a
parcheggiare la jeep. Troviamo posto a meno di cinquanta mt. da casa sua, in
piena curva, davanti alla vetrina di un negozio; ci sembra un luogo un tantino
precario, ma lui ci rassicura che il parcheggio è ok. Saliamo a piedi i quattro
piani (oggi l’ascensore non funziona) e conosciamo così la sua nuova famiglia.
Milena, sua figlia Laura e il gatto Kikko. C’è subito feeling con tutti, oddio,
forse con Kikko ancora no. Dopo le presentazioni, una birra fresca è ben
gradita. Ci accompagnano nell’appartamento che occuperemo per due notti. Tempo
di scaricare le valigie dalla macchina, darci una rinfrescatina veloce, e siamo
pronti per un giretto per la città tutti assieme. In un cambio valute del centro,
cambiamo un po’ di euro, anche per prender un po’ pratica con la nuova moneta
(lev), e poi via a far due passi sul lungofiume Maritsa (che denuncia un
riprovevole stato d’abbandono) attraverso un simpatico ponte coperto, pieno di
negozietti, stile “Ponte Vecchio” di Firenze, ma in salsa balcanica; e poi giù,
verso la pedonale Daskalov e sulla Alexandăr a far acquisti di prodotti a base
di estratti di rosa, fino ad arrivare alla grande piazza Tsentralen per poi
tornare a casa loro per la cena. La rosa bulgara (Rosa Damascena) è famosa
perché dai suoi petali si ottiene il tanto rinomato olio essenziale,
indispensabile nell’industria profumiera e dolciaria di tutto il mondo, ed è
veramente il migliore. Una tonnellata di petali per produrre un litro d’olio essenziale…
Nonostante la sua preziosità, il negozio offre i prodotti alla rosa a prezzi
abbordabili: inevitabile farne man bassa!
Il centro
storico è stato pedonalizzato e molti degli edifici sono stati sottoposti a
restauro, ma parecchie facciate scrostate e con crepe varie tradiscono la vera
epoca dei restauri. Enormi contrasti: mega casinò stile Las Vegas in pieno
centro, ma per raggiungerlo si deve fare una gimcana su dei marciapiedi che
definire tali è fargli un complimento, lavori in corso infiniti, cantieri
precari e pericolosi, limousine e berline dai vetri scuri sfrecciano su strade
abbastanza caotiche e mal tenute. Non ci stupiamo, abbiamo abbastanza
esperienza di Est-Europa del post-Cortina di Ferro, perciò… nulla di nuovo. E’
però inevitabile fare un raffronto con un altro Paese slavo “d’oltre cortina”,
la Polonia; guardandoci attorno, nell’incuria che ci circonda, lo Stato baltico
al confronto sembra la Svizzera. Eppure, ci racconta Milena, ai tempi del
regime tutto era in ordine, pulito, ordinato….
Nonostante
ciò, le vie pedonali sono carine e danno ragione al detto che
descriveva Plovdiv “la Parigi dell’Est”. Scopriamo splendide vestigia romane, i
resti di una specie di Circo Massimo interrato, oggi usato come set fotografico
per una coppia di neo-sposi, una singolare moschea con meridiana angolare, lo
spazzacamino benaugurante, la targa ricordo di quando il tedoforo passò in
città per le Olimpiadi di Mosca del 1980, e poi il monolitico palazzone delle
poste in bianchissimo calcare, un’originale ragazza-mimo e poco distante un
mosaico che suggellava il gemellaggio tra Plovdiv e Leningrado… Un concentrato
di storia a chilometro zero. Adalberto e Milena ci fanno da ottimi ciceroni,
una vera miniera di storia e cultura passata e presente da gustarsi assieme a
delle rinfrescanti birre bulgare Kamenitsa, in uno dei tanti bar all’aperto.
8.9
Domenica
mattina, ci alziamo presto per visitare il monastero di Bačkovo distante una
trentina di km da Plovdiv. Dalla finestra del nostro appartamento, osservo
diversi zingari con indosso una pettorina arancione: chi spazza le strade, chi
rovista tra i cassonetti dei rifiuti… Veniamo a sapere che qui in Bulgaria gli
zingari lavorano tutti: pulizia, appunto, delle strade oppure fanno la raccolta
differenziata: cioè rovistano nei cassonetti alla ricerca di alluminio, carta e
cartone, vetro, metallo… da portare poi ai centri di raccolta e guadagnare
qualche soldo. Il resto lo vendono nel loro mercato domenicale che, a quanto ci
racconta Adalberto, è una vera miniera per le occasioni e gli affari,
soprattutto modernariato e memorabilia del passato regime. Ci sarebbe piaciuto
visitarne uno, ma forse il monastero è più significativo. Saliamo nella Kangoo
di Adalberto e, dopo una trentina di km direzione sud, siamo a Bačkovo. E’ il
secondo monastero ortodosso in ordine di grandezza dopo quello di Rila. Lo
stile romanico ci conferma la vetustà della costruzione, risalente ai primi
anni del 1000. Dopo 500 anni di dominazione turca, anche questo monastero ha
subito devastazioni e saccheggi. Importanti restauri hanno ridato vita a queste
sacre mura. Nonostante fossimo arrivati molto presto la mattina, ci sono già
tanti pellegrini e fedeli a intasare i parcheggi riservati, e una piccola folla
si è radunata nel cortile interno. Non si possono scattare fotografie né nel
cortile né all’interno della chiesa. Io tento lo stesso di rubare qualche
scatto e mi becco pure una sgridata dal sorvegliante, nonostante fossi
circondata da bulgari che scattavano foto col telefonino… Saltiamo una
fila di devoti per entrare nella chiesa: la fila è tutta di pellegrini e fedeli
che vengono fin qui a venerare un’icona della Madonna incastonata nell’argento,
con tanto di offerte e bacio all’icona. Assistiamo per pochi minuti alla messa
nella chiesa stracolma di gente; la chiesa è splendida, tutta affrescata, ma
gli affreschi si possono soltanto immaginare, coperti come sono da una spessa
cappa di fuliggine prodotta dalle candele di cera d’api e dai fumi
dell’incenso. Pensiamo a quanto lavoro si potrebbe dare a centinaia di ragazzi,
studenti di belle arti, restauratori e laureati, per ripulire e riportare a
nuova vita queste meraviglie… Dov’è l’Europa, qui? Usciamo dalla chiesetta e
facciamo il giro dell’edificio: Adalberto ci racconta che in questo monastero è
possibile pernottare a prezzi modici e c’è pure la mensa (ce n’eravamo accorti,
nel giardino siamo avviluppati da un inequivocabile aroma di minestrone col
dado….). Uscendo, ritroviamo le bancarelle che propongono souvenir di tutti i
tipi. Noi cerchiamo qualcosa di tipicamente bulgaro; saltiamo a piè pari
oggetti di dubbio gusto spacciati per sacri, t-shirt e paccottiglia varia
(anche numeri civici su metallo smaltato), e ci concentriamo su del vasellame
con decori davvero originali. Scelta difficile, ma alla fine riesco a decidermi
e faccio man bassa di ciotole e pentole di coccio a prezzi modicissimi.
Acquistiamo anche dell’ottimo miele di abete, scuro e balsamico. A pranzo ci
fermiamo a mangiare in un locale all’aperto: ottime trote grigliate, accompagnate
da buona birra, mentre Adalberto preferisce bere ayran, una sorta di yogurt
allungato e salato, dissetante e nutriente. Ci ricordiamo che la Bulgaria è
anche la patria dello yogurt, qui infatti fu isolato il Lactobacillus
Bulgaricus! Sulla strada del ritorno, ci fermiamo su un cavalcavia, sovrastante
una caserma. Non che ci importi granché delle forze armate bulgare, ma Adal ci
indica un parco veicoli militari d’antan davvero impressionante! Veri pezzi da
museo, da far felici schiere di appassionati di “militaria”, parcheggiati nel
cortile della caserma, ormai inutilizzati. Nemmeno il tempo di scattare due
foto che subito salta fuori un militare armato, piuttosto bellicoso. Saltiamo
svelti nel Kangoo, ad evitare una raffica di kalashnikov, questa sì sempre
attuale. Al ritorno, a casa a prendere fiato, una rinfrescata, e via
per una cena fuori a base di “tza tza”! Percorriamo mezza città in macchina,
alle prime luci della sera passiamo per quartieri non propriamente
raccomandabili, ma ci dicono che di solito non ci sono problemi… Durante il
tragitto, Milena ci spiega che gli tza-tza sono dei pesciolini che si mangiano
fritti, specialità del ristorante verso il quale ci dirigiamo; hanno prenotato
con anticipo, dato l’alto afflusso di clientela. Eccoci tutti seduti all’aperto
e.. tza-tza per tutti! Scopriamo che questi pesciolini fritti sono simili a
quelli che si pescano dalle nostre parti, e che noi a Trieste conosciamo col
nome di “ribaltavapori” (in italiano: latterini), con una differenza: quelli dell’Adriatico
sono amarognoli, questi del Mar Nero sono invece quasi dolci, fritti benissimo
e, con bei boccali di Kamenitza fredda, uno tira l’altro! Tra una chiacchiera e
l’altra, i pesciolini spariscono in fretta! Per il dessert, ci spostiamo invece
in un altro locale-novità, una birreria autentica bavarese, con birra di
propria produzione e le cameriere tutte vestite in costume tipico. Questa
dovrebbe essere l’ultima notte a Plovdiv, ma un po’ per le insistenze di Ada e
di Milena, un po’ per i disordini che stanno accadendo a Istanbul, decidiamo di
rinunciare alla metropoli turca e di rimanere ancora una notte in questa città
con i nostri amici. Detto fatto.
9.9
Giornata
dedicata alle meraviglie della città vecchia, come antiche chiese e le
caratteristiche case della Plovdiv antica: singolare architettura che sa di un
misto di balcanico e ottomano. Ci si arrampica a piedi sulle strade
acciottolate dove incontriamo prima l’Accademia di Musica, la casa dove ha
soggiornato il poeta francese Lamartine, durante il suo “Voyage en Orient” nel
1833, e visitata anche dal fu presidente francese Mitterand, e poi il maestoso
Anfiteatro romano, incredibile teatro scoperto per puro caso nel 1972, a causa
dello smottamento di una collina! Il teatro è stato restaurato e tuttora viene
usato per spettacoli all’aperto. Minuscolo e di singolare verticalità, ma molto
suggestivo. Passo dopo passo, incontriamo numerose case museo, tutte
deliziose, fino ad arrivare a delle antiche rovine in cima a un
colle, uno dei sette che circonda Plovdiv, proprio come Roma, rovine datate
7.000 anni fa. Ancora a zonzo per le belle e acciottolate viuzze con l’acquisto
di souvenir. Entriamo anche in una curiosa bottega di un’antica casa (in
origine, un carcere), dove una bella e giovane signora mora lavora a delle
ceramiche. Ci racconta delle difficoltà di vendere ai turisti e di come campare
dopo la morte di suo marito, artista pure lui. Assistiamo in diretta alla
creazione di una brocca al tornio. Sembra di essere sul set del film Ghost, e magari
il fantasma del marito accompagna i movimenti delle mani di sua moglie. Mi
viene naturale l’acquisto di una sua creazione!
La città
vecchia pullula di negozietti di cianfrusaglie, ricordi del passato regime e
dell’Unione Sovietica, antiquariato (vero o presunto) e un’infinità di oggetti
di modernariato che, a rivenderli in Italia, ci potrebbero far quasi
arricchire! Ma quello che ci colpisce di più è… la marea di gatti randagi
ovunque, di tutte le età e di tutti i colori. Io non resisto a raccogliere un
gattino di poco più di un mese, pelle e ossa, che staziona all’esterno di una
rigatteria. Mi guardo attorno e ce ne sono a decine… Osservo le vetrine con
questo “pulcino” che mi fa le fusa in mano e lo depongo subito giù, tra sguardi
di riprovazione di Max e sensi di colpa per non poterlo portare via con noi…
Scarpinata e
chiacchiere mettono appetito; ci fermiamo per un break in una rosticceria; poi
un salto al mercato per un po’ di spesa; profumi e sapori dimenticati, caterve
di funghi e frutti di bosco a quintali, spezie in quantità industriali, frutta
e verdura a prezzi irrisori. Pomeriggio di riposo e alle 18.00 tutti a cena da
Adal e Milena.
Poco prima
delle 18.00, scendiamo in strada e notiamo che … il Patrol non c’è
più! Ca*** pensiamo, ce l’hanno rubato! Ma com’è possibile? Ma quando? Il tutto
in due ore? Ma porc…. Il panico ci assale, per certi versi riviviamo il dramma
del furto di cinque anni prima. Max cammina su e giù per il marciapiede alla
ricerca di un qualcosa di indefinito, almeno di un indizio. Possibile che ci
abbiano fottuto la macchina, in pieno giorno? Avvertiamo Adal che ci raggiunge
immediatamente. In tre cerchiamo di ragionare con lucidità cercando tutte le
possibili logiche soluzioni. A terra non ci sono vetri, quindi niente rotture
dei cristalli. Ma allora è opera di professionisti. Dai, forse no.
Ricapitoliamo: abbiamo parcheggiato, come altri, in divieto di sosta, ma
possibile che abbiano portato via solamente la nostra? Cerchiamo di
sdrammatizzare il momento, pensiamo che gli indigeni saranno ancora incazzati
per aver perso la partita di calcio e magari con questo vogliono farcela
pagare! Sul cartello del divieto c’è un numero di telefono, proviamo a
chiamare. Intanto Adalberto cerca di darci coraggio; dai Max, in Bulgaria non rubano
macchine, magari solo forse a Sofia, ma non qui. Come vorremmo credergli …
Intanto dalla
telefonata risulta che la macchina l’ha prelevata la polizia e la tengono in un
deposito. Una parolaccia liberatoria che inizia con un vaffa… esce dalla bocca
di Max. La voce all’altro capo del telefono ci dice anche di sbrigarci, perché
più il tempo passa, e più si paga. Ovvio, come da noi. Cerchiamo di capire dove
si trova il deposito e partiamo. Ma ci perdiamo subito. Chiediamo informazioni
alle persone che incontriamo e ognuna di loro ci indica un luogo diverso.
Intanto il tempo passa e Max non si sente tranquillo. Possibile che
nessuno sappia dove si trovi il deposito della polizia? Passa circa una buona
mezz’ora da quando siamo in macchina e stiamo girando per mezza città. Intanto
Max si scervella su quanto sarà il conto.
Alla fine
troviamo il luogo, entriamo, e prima di pagare chiediamo di vedere lo stato del
Patrol per accertarci di eventuali danni subiti durante il prelievo. Nessuno si
oppone. Max ci gira attorno lentamente, controlla accuratamente sopra, sotto,
il tetto, i cristalli, è tutto a posto. Si avvia quindi a pagare e scopre che
il conto ammonta a ben… 26 euro. Ma vaffa…!! Se lo avessimo saputo prima,
avremmo parcheggiato subito qui che è il posto più sicuro!! 26 euro che
comprendono la multa di divieto di sosta, carico, scarico e transito del carro
attrezzi, e la sosta oraria del deposito. Il tutto per meno di tre ore. Proprio
come a casa nostra… J !!
Torniamo a
casa già con un sorriso decisamente più ampio sul volto. Conosciamo in questo
frangente la mamma di Milena e ceniamo a casa di Adal per la seconda volta. Il
vino scorre piacevole come i discorsi. Ormai lo stress di prima è solo un
ricordo lontano.
10.9
Di primo
mattino partiamo, salutando i nostri cari amici, con la promessa di rivederci
per le feste di Natale, a Trieste. Direzione est, il Mar Nero ci aspetta. Il
tempo è sempre bello e la temperatura gradevole, traffico scarso. Ci lasciamo
alle spalle tanta campagna e zone misere; man mano che ci si avvicina al mare,
però, il degrado e la povertà lasciano il posto all’ordine, alla pulizia e a
una certa aria di “benessere”. Numerose case e casette ben tenute, giardini
curati, è evidente che la zona marittima è sempre più redditizia delle campagne
dell’interno. I chilometri scorrono tra paesini e paesetti abbastanza simili
tra loro e, verso il confine rumeno, perdiamo ore preziose per individuare la
strada che ci porterà dritta al mare; la mappa stradale che dice una cosa, i
cartelli stradali (scarsi) che dicono il contrario, il navigatore che ci porta
da tutt’altra parte, alla fine è già buio quando riusciamo a raggiunger
l’albergo Otdih, nella cittadina rivierasca di Kavarna. Ceniamo in albergo e ci
addormentiamo cullati dal rumore della risacca.
11.9
Il mattino
dopo, col sole, notiamo una singolarità sulle facciate dei palazzoni di regime;
enormi dipinti raffiguranti Billy Idol e Phil Collins campeggiano sulle
facciate al posto dei mosaici e degli affreschi di stampo socialista.
Evidentemente, i giovani di vent’anni fa non ne potevano più della retorica di
Stato…
Il sole ci
accompagna nel nostro viaggio verso sud; lasciamo Kavarna per
dirigerci alla volta di Varna, proseguiamo e oltrepassiamo Burgas; capitiamo a
Sunny Beach, la “Ibiza dell’Est”, nuova capitale del divertimento low cost;
sembra un incrocio tra Mirabilandia e Disneyland; nonostante la stagione sia al
termine, ci sono ancora frotte di ragazzini con salvagente che si divertono a
buttarsi giù da enormi scivoli ad acqua. Ci lasciamo alle spalle il
“divertimentificio” e approdiamo per una pausa alla riserva naturale di
Kamčija; finalmente tocchiamo il Mar Nero! Parcheggiamo il Nissan al limitare
della bella spiaggia sabbiosa, siamo solo noi e una coppia che fa il bagno.
Tanto vento e tante onde, il mare non è freddo e stormi di gabbiani prendono il
volo, vociando. Il luogo è molto bello, il piccolo fiume Kamčija, che sfocia
qui, ha creato nel corso del tempo una bella laguna, formando una zona di acque
salmastre che attira molte specie di uccelli e dà rifugio persino alle lontre.
Ci lasciamo sferzare le gambe dalle onde; osserviamo l’orizzonte, all’altra
sponda dell’immenso mare si trovano la Turchia, l’Ucraina, la Russia….
Fantasticando, ci rendiamo conto che le ore passano e dobbiamo rimetterci in
cammino. Facciamo un po’ di off-road salendo su un suggestivo promontorio, un
faro sulla costa sembra indicarci la strada verso la Turchia, in un paesaggio
che ormai sa di Mediterraneo; macchia di sempreverdi e tantissimi melograni
selvatici, profumi di timo e salvia, l’aria salmastra. Quanto sono lontane le
colline e le campagne di Plovdiv! Prima di affrontare il confine turco, ci
fermiamo per un break e, davanti a due spumeggianti Zagorka con contorno di
frittura, riflettiamo su questo Paese, povero di tutto ma altrettanto ricco di
bellezze naturali, sulla miseria incontrata; forse, più che con un fuoristrada,
avremmo dovuto venire fin qui con un capiente furgone e caricare tutti i
randagi e tutte le ragazzine-schiave incontrate dappertutto, per portarli via
da una vita di stenti, botte, violenze, degrado, anche morale. Ancora una
volta, ci si sente impotenti di fronte ad un mondo assurdo, schifoso e crudele
nei confronti dei più deboli. Dovizhdane, Bălgarija (arrivederci,
Bulgaria).
TURCHIA
In serata,
arriviamo al confine bulgaro-turco, anche qui il traffico è quasi inesistente,
illuminazione scarsa. Non essendoci chiare indicazioni, proseguiamo a passo
d’uomo tra le varie strutture in muratura fino a trovare, dopo una piccola
discesa, un casello con sbarra. Consegniamo i passaporti al doganiere e questi,
con grande gentilezza, ci dice in inglese che non dobbiamo consegnare i
documenti a lui, bensì alla dogana che si trova nelle costruzioni che ci siamo lasciati
alle spalle. Ops.. Dietro-front, riprendiamo la salita, parcheggiamo e ci
dirigiamo negli uffici. Tornando sui nostri passi, vediamo un cartello che
indica “Bulgaristan”. Ci mettiamo a ridere, non credevamo che la Bulgaria per i
turchi fosse proprio Bulgaristan! Questo esotico modo di intendere il Paese che
stiamo lasciando ci fa volare con la fantasia, ma allora Bulgaristan non è poi
tanto più diverso di AfghaniSTAN, TurkmeniSTAN…. Bellissimo!
Consegna dei
documenti sia alla polizia di frontiera che alla dogana; attendiamo il nostro
turno, intanto fuori si è fatto buio. Osserviamo numerose comitive di bulgari
che rientrano in patria, dopo aver passato la giornata ad acquistare beni che
non si trovano in Bulgaria (praticamente, di tutto). Arriva il nostro turno,
timbri sui documenti, nessuno sguardo al veicolo e finalmente possiamo
riprendere la discesa verso l’ultimo controllo passaporti. Il medesimo
doganiere ci accoglie con un sorriso, rapido sguardo e siamo finalmente in
territorio turco. Le strade sono più illuminate, troviamo subito un
bell’albergo tutto marmi, vetri, specchi e ottoni; una giovane signora in
caftano e chador scivola silenziosa sul lucidissimo rosone intarsiato del
pavimento; l’atmosfera esotica e vagamente mediorientale, l’aria tiepida e
profumata ci fanno quasi dimenticare le miserie bulgare. Raggiungiamo la
camera, moderna e confortevole e, soprattutto, pulitissima. Non ceniamo, ma ci
concediamo una freschissima birra alla spina al bar dell’albergo. Anche qui,
gentilezza e sorrisi, prendiamo confidenza con carnagioni scure e occhi neri,
in un perfetto contraltare con le pelli chiaramente europee dei vicini bulgari.
12.9
In marcia, ci
dirigiamo verso Sud, direzione Istanbul. Purtroppo abbiamo già deciso di non
raggiungere il Bosforo, ma bastano pochi chilometri sul suolo turco che già la
fascinazione dell’Oriente ci strega e ci fa ripromettere di tornarci, un domani
non troppo lontano. Ci accontentiamo di fotografare un cartello stradale che
dice “Istanbul 80 km”; meglio di niente! Strade larghe e spaziose, bruciate dal
sole; campagne arse, punteggiate dai pozzi per l’estrazione del gas;
ogni pochi km si trova sempre un baracchino che offre ogni ben di dio in frutta
fresca e verdure; sembra un paradiso terrestre, se confrontato al nulla della
campagna bulgara. Nei pressi di Silivri, ecco un altro mare, siamo sul Mar di
Marmara! Acqua blu, spiagge chiare, piccola sosta per foto ricordo col Nissan
sulla spiaggia sabbiosa. Dopo aver contrattato l’entrata in una specie di
campeggio con un gestore panzone e palesemente ubriaco, riusciamo a scattare
una foto sulla spiaggia che, a giudicare dalla puzza, sembrava lo sbocco di un
collettore fognario…. E questo sarebbe un campeggio? Riprendiamo la marcia
verso ovest, il sole e il caldo secco ci accompagnano in terra ottomana; ma
niente panico: in caso di necessità, ai semafori si trova sempre qualcuno
attrezzatissimo con borse-frigo e un vassoio con ciambelle di pane tenuto in
equilibrio sulla testa! La strada prosegue dritta, il traffico è scorrevole; ci
lasciamo il Mar di Marmara alle spalle, ora ci aspetta la Grecia. Sarà una
sensazione, ma l’atmosfera che respiriamo in questo Paese ci fa sentire bene
accolti. Osserviamo nuovi tipi, nuove facce, donne abbigliate all’occidentale e
all’ottomana, Oriente e Occidente convivono in apparente tranquillità: chador e
niqab assieme a scollature e minigonne; caftani e babbucce a punta si
accompagnano a giacche e cravatte; sembra una società aperta e tollerante come
nei voleri di Kemal Atatürk, ma non è da poco che un certo integralismo
religioso comincia a prender piede, col beneplacito del governo di Erdoğan, e
la moderazione sembra sempre più un lontano ricordo. Non capiamo il turco, ma
gli strilloni dei quotidiani in strada sono abbastanza espliciti. Le proteste
continuano…
Pomeriggio
inoltrato, ci avviciniamo alla frontiera greca; i controlli al posto di blocco
turco sono svelti e di pura formalità. Dato che tutti i documenti sono
tracciabili, ora i poliziotti sanno tutto di noi ancor prima di consegnare loro
i documenti; non facciamo nemmeno a tempo a porgere i passaporti che il
poliziotto turco, un occhio a noi e uno allo schermo del computer, esordisce
con un: “Ah, Massimo…”. Ma, insomma! Güle Güle Türkiye! (Ciao
Turchia!)!
GRECIA
Svelto sguardo
ai documenti e via alla volta della dogana greca. Ci mettiamo in coda e
attendiamo pazientemente il nostro turno, preceduti da una coppia di ragazzi in
moto. Capiamo subito che con il doganiere greco non sarà così semplice. Il
doganiere è chiaramente stufo, innervosito ed esasperato, ma che colpa abbiamo
noi altri viaggiatori? Fa scendere i ragazzi dalla moto, controlla zainetti e
bauletto più volte alla ricerca di qualcosa; non trovando nulla, s’innervosisce
ancora di più e li manda via in malo modo; è il nostro turno, ci si rivolge in
inglese ma secondo lui non rispondiamo correttamente, si incazza e ci fa aprire
il baule, abbaiandoci ancora qualcosa. E’ chiaro che occidentali che tornano
dalla Turchia dopo brevissimi soggiorni possono essere dei sospetti, ma
trattarci tutti come trafficanti ci sembra eccessivo. E se questo è il
benvenuto in Grecia, stiamo freschi.
Mandato a
quel paese il doganiere incazzoso, procediamo alla volta di Salonicco. Questa è
la nostra prima volta in Grecia, altro paese dalla gestione allegra della spesa
sociale, e ormai definitivamente affondato dalla crisi infinita. Dato l’alto
afflusso turistico e le cospicue entrate, ci immaginiamo un territorio che
almeno faccia fruttare gli introiti per mettere a posto strade ed infrastrutture varie;
purtroppo, niente sembra cambiato da decenni a questa parte, come ampiamente
confermato da numerosi viaggiatori che hanno attraversato queste contrade dalla
fine degli anni ’70 ad oggi; se la costa (le isole, soprattutto) hanno usufruito
del flusso di denaro, le zone interne, rurali, non affacciate direttamente sul
mare, sembrano del tutto abbandonate a sé stesse; la stessa immagine di povertà
e squallore che abbiamo riscontrato in Bulgaria. Terreni incolti e abbandonati,
bruciati dal sole, sterpaglie dappertutto; casupole di contadini che riflettono
una povertà e una miseria che non immaginavamo in uno Stato che, in teoria,
avrebbe tutto per vivere decentemente. Cerchiamo un posto dove dormire ma, dopo
aver macinato centinaia di km., non riusciamo a trovare nulla nell’interno,
nemmeno un locale per riposarci un attimo a bere qualcosa. Si sta facendo buio
e comincia a prenderci lo sconforto. Non ci resta che scendere sulla costa;
parecchie zone umide, a riserva naturale, ospitano una nutrita colonia di
fenicotteri rosa; purtroppo sono troppo lontani per il nostro obbiettivo; il
pallido sole al tramonto rende un po’ meno malinconico il panorama circostante
e le uniche macchie di colore sono rappresentate dai venditori di micro
cappellette votive in terracotta, a bordo strada. Sarebbero anche un
caratteristico ricordino da portarsi a casa, se non rappresentassero l’immagine
tombale di uno Stato al fallimento.
Improvvisamente,
mi torna alla mente uno sceneggiato portoghese che ho visto da piccola e che
s’intitolava “Canne e fango”, narrava della lotta per strappare al mare la
terra da coltivare, storia di latifondisti e contadini, di lotta per non morire
di fame in una zona paludosa e salmastra della costa portoghese, a inizio
Novecento; la stessa miseria, lo stesso senso di abbandono lo ritrovo qui, in
questo angolo di Grecia, che sembra dimenticato da tutti. Ce ne andiamo
altrove. A Kavala, troviamo un albergo che offre ancora qualche camera libera
(siamo a metà settembre ma la stagione è ancora florida). Non volevamo dormire
sulla costa per evitare la confusione di una moltitudine di turisti vocianti e
ciabattoni e conseguenti schiamazzi notturni di etilisti vari, ma purtroppo la
desolazione e mancanza di strutture all’interno ci hanno costretto a scendere a
mare. E’ cosa nota che non siamo appassionati né di mare né di città
turistico/costiere, così ci adattiamo e ci facciamo trasportare dal fiume umano
schiamazzante verso i ristorantini sulle rive. Due birre in un bar all’aperto,
poi a cercare un ristorante dove buttar giù qualcosa. Siamo sull’Egeo, è
l’occasione per assaggiare del pesce fresco condito con dell’ottimo olio di
oliva. Trovato il locale, ci colpiscono le facce, piuttosto tetre, dei
camerieri; sembra che nonostante il luogo turistico e il notevole afflusso di
vacanzieri, l’aria di crisi si sia appiccicata come una cappa caliginosa un po’
ovunque; uno dei camerieri parla un po’ d’italiano e, alla domanda se ci fosse
del pesce fresco, mi accompagna al banco frigo perché possa scegliere: sono
circa le 20.00 e quello che trovo adagiato sul ghiaccio non è granché: qualche
cefalo, un paio di branzini; è tetro anche il banco frigo; scelgo per Max un
branzino abbastanza “di giornata”, io preferisco dei filetti di sgombro
affumicato, con contorni vari. Proviamo il rinomato olio greco: non ci sembra
degno di nota: non siamo nazionalisti, ma il confronto con un qualsiasi olio
italiano non regge. Se prima di arrivare in Grecia avevamo pensato
di comprarne qualche lattina, ora decidiamo di lasciar perdere. Ceniamo e ci
guardiamo attorno, ripensando ai km macinati per arrivare fin qui. Per quanto
mi riguarda, la Grecia, assieme alla Spagna, sta in fondo alla mia lista dei
Paesi da visitare; attraversandola, pensavo che forse mi sarei ricreduta ma, da
quanto osservato fino ad ora, nulla di quanto incontrato mi ha dato spunti per
cambiare idea. Max è della mia stessa opinione. E’ chiaro che le isole sono un
altro ambiente, un mondo a parte, e la loro stessa bellezza rende più
accogliente questo Paese. Però ugualmente non riusciamo a comprendere il perché
di questo costante senso di abbandono e trascuratezza che emerge sia
nell’interno che sulla costa.
13.9
Lasciamo l’albergo
e, anche qui, vengo raggiunta da apprezzamenti sui miei capelli da parte della
receptionist, una bella ragazza con una folta chioma corvina; dopo i saluti e
ringraziamenti, le scappa un “I like your hair!”. Ripartiamo, rotta
ovest-sud-ovest, alla volta di Salonicco, destinazione Igoumenitsa. Costeggiamo
un mare cristallino, che però a nostro parere non sembra avere nulla da
invidiare al mare dalmato. Ci immettiamo in autostrada, un po’ diversa dalle
solite, perché è priva di punti di ristoro (a parte uno sparuto negozietto di
generi vari, con prezzi allucinanti), e senza stazioni di rifornimento; per
fare gasolio bisogna uscire dall’autostrada, cercare la pompa e rientrare. Per
non parlare di come i greci usufruiscano in maniera disinvolta degli accessi
all’autostrada: contromano! Sempre più perplessi, continuiamo in una bella
giornata di sole. Tentiamo di fare una sosta a Salonicco, ma rimaniamo
imbottigliati nel traffico impazzito, causa ennesima manifestazione con corteo
di protesta e striscioni annessi. Non riusciamo a entrare in sintonia con
questo Paese, e maciniamo chilometri per raggiungere il prossimo mare, lo
Ionio, e fermarci a Igoumenitsa. Anche qui rimaniamo un po’ sorpresi: essendo
un porto di mare, punto di approdo di numerosi traghetti che partono
dall’Italia, ci aspettavamo una cittadina un po’ più vivace e movimentata;
sembra invece un porticciolo di pescatori, inadeguato ad accogliere le orde di
turisti che vengono scaricati puntualmente ogni estate. Probabilmente è
soltanto un punto di sbarco, e nessuno si sogna di soggiornare qui. Alberghi ce
ne sono, ma parecchi sono chiusi e abbandonati. Facciamo un piccolo break in un
bar all’aperto, sono le 15.00 e non abbiamo buttato giù niente dalla colazione
di stamattina; un piatto di patate al forno e due birre Alfa sono sufficienti a
corroborarci e darci un po’ di sostanza. E’ l’occasione per fare un bilancio di
questa Grecia. Non sarà carino, ma sinceramente non vediamo l’ora di andarcene
da qui. Abbiamo delle cartoline da spedire, acquistate in Bulgaria. Però in
Bulgaria non siamo riusciti a trovare i francobolli, in Turchia non abbiamo
avuto il tempo di cercarli, speriamo di aver maggior fortuna qui. Finito il
break, cerchiamo un posto dove dormire stanotte. Riusciamo a trovare una camera
proprio sul lungomare, con un piccolo balcone blu affacciato sul tramonto.
Scarico bagaglio e via a fare quattro passi, a sgranchirci gambe e sederi ormai
intorpiditi dopo lunghe ore in macchina. Il tempo comincia a cambiare, nuvoloni
minacciosi si raccolgono sulle isolette antistanti al porto e scaricano il loro
contento d’acqua in densi acquazzoni, risparmiandoci. Cerchiamo dei
francobolli, ma l’impresa si rivela ardua: i tabaccai ne sono sprovvisti,
l’unica posta del paese non riusciamo a trovarla. All’ora di cena cerchiamo un
posticino; veniamo accompagnati nel nostro vagare da una cagna randagia, dagli
occhi imploranti. Riesco a trovare in auto qualche boccone per lei; da quel
momento ci accompagna fino alla soglia di un ristorante, docile e ubbidiente
come se fosse nostra; non sarà l’unica bestiola così, Igoumenista (ma,
comunque, tutta la Grecia da noi attraversata) è piena di randagi, che forse
non aspettano altro di trovare una nuova famiglia e una nuova speranza di vita.
Quegli occhi, malinconici e abbattuti, rispecchiano tutta la miseria e la
rassegnazione della Grecia di oggi. Ci fermiamo in un ristorantino sul
lungomare. Ci colpisce l’insegna: il nome in greco e sotto una scritta in
cirillico; sembra russo, dice “pesce fresco”. Come mai in russo? Per i turisti?
Ma quali? Boh… Il mistero è presto risolto. Il padrone del ristorante, appena
ci porta i menu, capisce che siamo italiani e ci manda sua figlia, Veronica,
che è fresca laureata in italianistica alla Ca’ Foscari! Una ragazza brillante,
entusiasta dell’Italia ma non degli italiani. Ci racconta di come si è trovata
in Italia, delle difficoltà a farsi accettare, soprattutto a Roma; ne è venuto
fuori un ritratto di un’Italia arrogante, superba, maleducata. Ne siamo
dispiaciuti, ci chiediamo che razza di mostri siamo diventati. Veronica ce lo
fa notare, dice che siamo tra i pochi italiani gentili e simpatici che ha
incontrato. Da una parte ci fa piacere, dall’altra ci fa sentire come due
mosche bianche. Praticamente, è lo stesso discorso che ci fece la nostra guida
a S. Pietroburgo, ricordandoci come persone simpatiche e desiderose di
conoscere la realtà locale, senza puzza sotto al naso. In viaggio, evitiamo di
proporci come “italiani”, eventualmente come “triestini”, sicuramente come
“persone”, semplicemente, senza connotazioni, e sempre “in punta di piedi”.
Viaggiando all’estero, ci rendiamo sempre più conto di quanto noi due siamo
lontani dallo stereotipo dell’italiano in senso assoluto. E tutto ciò viene
notato da chi ci sta di fronte. Non è edificante, a volte, doversi quasi
vergognare della propria nazionalità, ma certi tipi di “italioti”, all’estero,
non fanno altro che peggiorare la già poco gradevole immagine che il mondo
intero ha di noi. Le chiediamo il perché della scritta in russo. Ci spiega che,
qualche tempo prima, girava voce che le coste greche sarebbero state invase da
orde di turisti russi, pronte a riversarsi a spendere e spandere sulle loro
spiagge; così, per attirare la clientela russofona, hanno aggiunto la scritta
in cirillico sperando di accaparrarsi qualche cliente in più. Invece, di
turisti russi non ne hanno proprio visti, e con la crisi anche il resto della
clientela si è diradata. Infatti ceniamo quasi da soli… Il pesce è buono, il
vino anche, ma il tutto è condito da un’atmosfera di tristezza, di occasioni
perdute… Ci dispiace molto per Veronica e la sua famiglia. Ci scambiamo gli
indirizzi mail e ci salutiamo. Domani si parte per l’Albania.
14.9
Prima di
partire, facciamo ancora un giretto per cercare i famosi francobolli. Entriamo
in un negozietto di souvenir, giusto per non tornare dalla Grecia a mani vuote.
Tra tante chincaglierie e paccottiglia, troviamo un vasetto che riproduce un
originale antico, giusto per dire “c’ero anch’io”, e magari dare una mano al
negoziante in crisi. Nemmeno qui hanno francobolli. La vicenda assume una piega
tragicomica … Ci lasciamo alle spalle Igoumenitsa e, definitivamente, la
Grecia. Antìo, Ellàda (addio, Grecia).
ALBANIA
E’ una bella
giornata e, ormai, abbiamo imboccato la strada del ritorno verso casa. Ci
lasciamo il mare alle nostre spalle e ci inerpichiamo su bei tornanti. Da
marino, il paesaggio si fa brullo, simil-desertico. Ci piace davvero un sacco
questo ambiente, che sembra non offrire nulla al di fuori di una pietraia, ma ad
occhi avventurosi regala scorci di selvaggia libertà! Ottima temperatura, ormai
la calura estiva lascia il passo ad un clima più sopportabile, la luce è meno
violenta; la dolcezza di settembre ci regala scorci meravigliosi in questo
“nulla”. Manca poco al confine albanese, eccolo su un poggio; ci mettiamo in
coda (si fa per dire, siamo quattro gatti); seduti in macchina, attendiamo il
nostro turno; ci si fa incontro una vispa signora, si appoggia con i gomiti sul
finestrino, lato guida, e rivolgendosi in italiano, ci dice buongiorno, si
informa se abbiamo fatto buon viaggio, ecc ecc. Sul momento ci viene spontaneo
chiederci: “E questa cosa vuole?” ma subito intuiamo che è la signora addetta
al rilascio dell’assicurazione auto per circolare in Albania! Scendo e la seguo
nel suo ufficietto, intanto che Max fa dogana. La signora parla un italiano
perfetto, due chiacchiere, carta, timbro, costo dell’assicurazione: 25 euro, si
paga in euro… con resto in euro! Immaginiamo il massimale… Poi tanti auguri di
buon viaggio e buona permanenza, risalgo in auto e partiamo.
Chissà perché
ma qui ci sentiamo un po’ come a casa..! Se pensiamo al trattamento ricevuto
alla dogana greca… Sqipetari, grande popolo! Mire se vini! (Benvenuti!).
Ancora sorridenti, ci addentriamo nuovamente in questo Stato aperto al turismo
solo dal 1991. Ci sorpassa un’auto con al traino uno strano carrello, marca
Nissan, targa greca. C’è qualcosa che non ci torna su quel carrello, però…
osserviamo meglio e ci accorgiamo che non è un carrello, è semplicemente un
pick-up tagliato a metà! Evidentemente, alla motorizzazione greca sono di ampie
vedute… Proseguiamo nel paesaggio steppico, piccola sosta accanto ad
uno degli innumerevoli bunker; foto di rito, il bunker trasformato in rimessa e
ricovero per capre, pascolanti nei dintorni. Ricordavamo l’Albania come un
paese ricchissimo d’acqua, almeno nel nord; ma anche qui al sud l’acqua sgorga
in abbondanza, e il contrasto tra i rilievi brulli e i corsi d’acqua freschi e
dalle rive lussureggianti è incantevole. “E’ bellissimo, sembra la
Mesopotamia!”, dico a Max e non faccio in tempo a finire la frase che ci
imbattiamo in un villaggio che, manco farlo apposta, si chiama proprio
“Mesopotam”! Ridiamo, e foto di rito con Nissan e splendidi rilievi sullo sfondo.
Questa Albania ci piace proprio un sacco, il sud così brullo e pietroso, quanto
il nord tanto boschivo e alpino. E poi il mare, che da qua non scorgiamo ma che
sappiamo ancora pulito (spiaggie-discarica a parte…). Tanta ricchezza d’acqua
non la si può non sfruttare, ed eccoli spuntare come funghi innumerevoli
“lavazh”, autolavaggi casalinghi, alcuni decisamente “hand-made”, molti
addirittura “spezial”. Per strada, cerchiamo di trovare una meraviglia
naturale, descritta su tutte le guide e raccomandataci anche dai nostri
compagni di viaggio nel precedente tour albanese, cioè la sorgente “Occhio
blu”, che altro non è che un laghetto molto suggestivo, con l’acqua azzurra
verso le sponde e acqua blu al centro. Ma gira che ti rigira, sappiamo di
essere in zona ma non riusciamo a trovare nessuna indicazione (né qualcuno per
strada che ci potesse aiutare). Peccato! Puntiamo la bussola a nord,
destinazione Gijrokastra, la nostra Argirocastro, che in greco significa
“castello d’argento”, Patrimonio Unesco, abbarbicata su uno dei tanti rilievi
montuosi dell’interno. Qui è nato il padre-padrone dell’Albania, Enver Hoxha, e
proprio per questo la città è sempre stata tenuta con un occhio di riguardo, in
quanto “città museo”. La giornata è splendida, l’aria tersa, parcheggiamo
scansando una ragazzina mendicante, piuttosto insistente, le regalo delle
caramelle e lei mi lancia uno sguardo tipo “meglio di niente….”. L’ambiente ci
sembra stranamente familiare, ci assale un deja-vu… Ma certo, guarda la
posizione, guarda i tetti a scandole, guarda le montagne! Sembra un paesino
della Majella! Quanti bei ricordi! Il canto del muezzin ci riporta subito al
presente; con la nenia religiosa in sottofondo, passeggiamo fra salite e
discese di questo gioiellino architettonico ricchissimo di fascino, artigianato
sorprendente, testimonianze arabe, panni stesi e matasse di cavi elettrici tra
casa e casa, fichi e gelsi, cinguettio di passeri e stridìo di rondini. E’
mezzogiorno, e se mettessimo qualcosa sotto i denti? In Albania, mangiare e bere
non è un problema, un posticino lo si rimedia ovunque. Entriamo in un
bugigattolo con cucina fumante, comunicare non è un problema, e gli italiani
qui sono bene accolti. Sarà per la valanga di euro che lo Stato italiano versa
annualmente all’Albania per la messa in piedi di infrastrutture? Chissà… le
considerazioni geopolitiche vengono subito messe in disparte con l’arrivo di
due freschissimi e grandi boccali di Korçë, birra tradizionale albanese,
prodotta qualche centinaio di chilometri più a nord, proprio nella medesima
cittadina. E poi trippa e sarme (involtini di foglie di vite, ripiene di riso
speziato, cetrioli, pomodori e formaggio tipo ricottina acida). Satolli, ci
dedichiamo alla visita di qualche negozietto di artigianato. Tra tappeti e
stuoie di tutti i tipi, ci imbattiamo anche in una signora, parlante italiano,
che confeziona splendidi copriletti all’uncinetto. Ci dice che ha molte
commesse dalla Puglia, da privati e negozi. Il costo è piuttosto elevato, però
se penso a quanto chiedono in Italia per un manufatto simile… La signora dei
capolavori ci dà il suo biglietto da visita e ci aiuta perfino a recuperare i
francobolli, dato che li vende lei! Purtroppo, siamo sprovvisti di spiccioli, e
non ci resta che dare alla signora 50 euro; lei li prende, li consegna al
marito perché li vada a cambiare; io e Max ci guardiamo un po’ perplessi,
immaginando i 50 euro che prendono il volo.. invece dopo un attimo il consorte
torna, così acquistiamo i francobolli, col resto in euro e con tanto di tasso
di cambio perfetto! Non finiamo di stupirci per questa gente, dalle mille
risorse e dalla grande disponibilità! Finiamo di scrivere le cartoline e
finalmente le imbuchiamo, dopo che hanno fatto il giro di mezzi Balcani! (P.S.:
le cartoline arriveranno tutte regolarmente a destinazione!). Riprendiamo la
marcia, la bussola punta sempre verso nord. Ora il paesaggio si fa via via più
verdeggiante e i campi coltivati prendono il posto delle pietraie. Lo avremmo
saputo in seguito, ma buona parte dell’economia agricola in questa
zona a sud si fonda sulla coltivazione… della marijuana! A soli trenta
chilometri dal confine greco, il paese di Lazarat è diventato famoso per essere
la capitale della “maria”, coltivazione che dà lavoro a centinaia di persone,
bambini compresi, e per molti è l’unica fonte di sostentamento. Sarà per questo
che qui attorno sono tutti così gentili e allegri? Chiederselo è legittimo… Si
prosegue, ora il paesaggio si fa più tormentato e aspro, e certi scorci, con
ponti in ferro sospesi su torrenti impetuosi, ci fanno sognare proibiti passi
caucasici….
Nel tardo
pomeriggio, veniamo fermati da una pattuglia della polizia, stanno
evidentemente cercando qualcuno, a giudicare dagli elicotteri che sorvolano la
zona a bassa quota. Ci si avvicina un ragazzo di leva, sfoderando un sorriso a
rastrelliera, e quando capisce che siamo italiani… no problema amico! Tutto ok
e buon viaggio, con tanti sorrisi e saluti (e senza nemmeno chiederci i
documenti o controllare l’auto). Sono già le 19.00 e ci stiamo addentrando
nella parte più interna del Paese. Decidiamo di fermarci a Erseke per la notte.
Ci sono due alberghetti in paese, ma il primo non è che ci ispiri un granché,
data anche la presenza di loschi figuri nei dintorni (ma forse sono solo
ubriachi, di ritorno da un matrimonio poco distante), il secondo sembra più raccomandabile,
per due motivi: esteticamente è più carino, a gestione familiare, e sembra una
piccola baita in legno e muratura; il secondo motivo è che proprio davanti è
parcheggiato un Land Rover bianco targato Italia. Non vuol dire nulla, ma vai a
sapere… Entriamo, atmosfera decisamente accogliente e casalinga, il gestore
parla qualche parola d’inglese e d’italiano, ma quando capisce che siamo
italiani, ci manda prontamente il figlio, un ragazzo alto e magro che ha
studiato e lavorato a Firenze. Ci accompagna nella nostra camera e durante il
tragitto ci chiede da dove veniamo, incuriosito dal dialetto che usiamo Max ed
io nei nostri discorsi, che alle sue orecchie sembra spagnolo. Gli spieghiamo
la nostra origine e lui vuole che gli parli il dialetto triestino; lo
accontento, ma ovviamente ci capisce poco. Dato che Max ed io indossiamo
entrambi una polo verde, ci chiede anche se per caso non facciamo parte di
qualche organizzazione ambientalista… Perspicacione!
Ci
sistemiamo, e poi scendiamo direttamente giù per la cena. Poco dopo ci
raggiunge, e ci informiamo su che cosa propone il cuoco (cioè suo padre) per
questa sera; mi dice che facciamo prima se mi mostra di persona che cosa bolle
in pentola, e mi fa cenno di seguirlo in cucina. Maamma, è una vera festa per
gli occhi (e per stomaci affamati)!. Due tipi di brodo diversi, tre di
minestra, poi trippe al pomodoro o in bianco, gulasch, carne, riso, verdure,
patate…. Di tutto e di più! Ci accontentiamo di minestra, sugo con la carne,
contorni… e ovviamente due Korçë giganti alla spina! Cenando, gettiamo
un’occhio al telegiornale, e tra un discorso del primo ministro Edi Rama e
l’altro, mostrano delle immagini girate nel pomeriggio proprio nella zona dove
siamo stati fermati noi dalle Forze dell’Ordine; ecco che cosa cercavano con
tanto dispiegamento di polizia ed elicotteri! Lì attorno hanno beccato undici
clandestini pakistani e sicuramente ce n’erano degli altri in zona. Ceniamo
assieme a un’altra coppia, persone di mezz’età. Generalmente, noi ci facciamo sempre
i fatti nostri, ma tra un boccone e l’altro non posso fare a meno di tendere
l’orecchio; mi è sembrato di percepire un idioma familiare, molto familiare… ma
è dialetto triestino! A fine cena facciamo così conoscenza con un professore
universitario triestino, fresco di pensione, e la sua compagna, una donna
albanese originaria proprio della zona di Korçë. Sono loro i proprietari del
Land Rover! Il mondo è davvero piccolo, a volte. Appena concluso il proprio
incarico universitario, ai primi di settembre, sono partiti alla volta
dell’Albania e l’hanno percorsa tutta. Ci chiedono se abbiamo visto l’ “Occhio
blu” e si rammaricano con noi per la svista. Sarà per un’altra volta, l’Albania
è troppo bella per non essere visitata da cima a fondo con più calma!
15.9
Di nuovo in
marcia, sempre verso nord, alla volta della sponda albanese del lago di Ohrid.
Ci lasciamo alle spalle i bellissimi monti del sud e approdiamo alla caotica
cittadina di Pogradec. Eccolo, il lago, grande e suggestivo, l’acqua
trasparente, marina. La cittadina sembra quasi ordinata, se paragonata allo
stato generale di “lavori in corso” che regna ovunque; un lungolago pulito,
attrezzature per i giochi dei bimbi seminuove, monumenti a poeti, posticini di
ristoro, alberi frondosi e pensionati che giocano a domino.. un idillio in
salsa albanese, complice la bella giornata. Una birretta a bordo lago ci sembra
d’obbligo. Veniamo serviti da un ragazzo biondo e mingherlino, anche lui con
qualche buco tra i denti, che parla un pochino d’italiano, avendolo imparato
facendo il cameriere in Puglia. Un attimo di relax, contemplando la placida
superficie appena increspata da una brezza leggera, sommesso brusio di
avventori tutto attorno. Sì, indubbiamente questo Paese ci piace, sarà
l’atmosfera calma e rilassata della gente, le bellezze naturali in gran parte
incontaminate, niente musi incazzati ma tanti sorrisi, e saluti a bordo strada…
sarà forse perché qui al sud si respira anche un’aria un po’ cannabinoide… e
allora yeah, peace & love, fratelli!
Rotta
ovest-nord-ovest, direzione Tirana, destinazione Scutari. Altra campagna, altri
auto-lavazh (qui, un’industria), basta colline, attraversiamo la pianura e
superiamo Elbasan, Tirana e, nel primo pomeriggio, sbarchiamo a Shkodër
(Scutari, sull’omonimo lago). Non la troviamo molto diversa da due anni fa,
sempre intasata da lavori in corso per renderla più accogliente. Si va, of
course, all’Hotel Colosseo, ormai… un must. La zona è stata completamente
pedonalizzata e molto più tranquilla. Scarichiamo il bagaglio nella nostra
camera con vista moschea, rinfrescatina e due passi nella zona pedonale.
Spuntino con birretta e patatine, e contorno di bimbo zingaro piuttosto
insistente. Alle 17.00 in punto parte l’oratoria del muezzin, rondoni ciarlieri
e profumi salmastri completano il quadro orientaleggiante nella luce
pomeridiana. Cominciamo a risentire dei tanti giorni passati seduti in macchina
e dei km macinati quotidianamente. Siamo a tre quarti del viaggio e possiamo un
po’ tirare le somme. Quante dogane, quanti incontri… e quanto ancora da vedere!
Domani ci aspetta il Montenegro, finalmente riusciremo ad affrontare il Parco
Durmitor! Serata di puro relax; la sala ristorante è piuttosto affollata anche
di italiani, e noi preferiamo cenare, con sottofondo di partita con schermo
gigante, all’aperto, nella corte interna dell’hotel. Ah, devono aver cambiato
il cuoco, perché non c’è più il fantastico menu del giorno, ma solamente il
menu à la carte. Peccato: e noi che sognavamo una mega frittura di pesce… Ci
serve un solerte cameriere che parla un buon italiano, ma noi cerchiamo con lo
sguardo un altro cameriere, incontrato due anni fa; uno spilungone un po’
allampanato, ma dallo squisito savoir faire e parlante un italiano impeccabile.
Gli chiedemmo dove avesse imparato la nostra lingua così bene e la risposta fu
“Ho lavorato otto anni a Milano”. A cena finita, eccolo comparire in sala, ci
cerchiamo con gli sguardi. E puntualmente, eccolo per il dessert. Si
ricorda perfettamente di noi, due parole di saluto e si congeda con una frase
che, magari, sarà stata anche di prammatica, ma che a parer nostro veniva dal
cuore: “E’ sempre un piacere servire delle persone gentili come voi”. Forse per
riguardo, alla fine non gli abbiamo chiesto il nome. Non volevamo distoglierlo
dalla sala, ma ci sarebbe piaciuto scambiarci magari una mail e farlo sentire
un po’ protagonista nel nostro blog. Ce ne rammarichiamo. Faleminderit,
Sqhipërie! (Grazie Albania!).
16.9
Lasciamo
Scutari per raggiungere la frontiera montenegrina. Rapido giro per lasciare la
città, in un susseguirsi di pozzanghere-piscine (la notte ha diluviato),
asfalto bombardato da chissà che, cassonetti dei rifiuti ribaltati, mercatino
dell’usato (scarpe-vestiti) direttamente per terra, ragazzine con carriole,
macerie ed inerti dappertutto, capre al pascolo tra marciapiedi, vacche con
pastora, mercato di ovini vivi sul marciapiede e, in tutto questo delirio, un
venditore ambulante di fumanti hot-dog.. in strada, perché il marciapiede,
dissestato, è troppo ingombro di macerie per permettergli di lavorare bene.
L’impressione generale è che, nonostante le periferie siano in condizioni da
immediato dopoguerra, qui, contrariamente alla Bulgaria, sembra che
nessuno se ne stia con le mani in mano; ognuno si arrabatta come può, magari,
appunto, con un carrettino di hot-dog. Il tempo si è guastato, fa anche più
fresco e ormai siamo prossimi al confine montenegrino. Durante la marcia di
avvicinamento, superiamo una ciclo-turista, non proprio una ragazzina, che si
inerpica verso il confine. Ci salutiamo. Chissà da dove arriva, chissà dove è
diretta. Non è tanto il fatto di sorprendere una donna, sola, che si avventura
in bici in queste zone, quanto il suo abbigliamento: una maglietta e un paio di
short decisamente corti, che lasciano scoperte due belle gambe affusolate ed
abbronzate. Ci chiediamo quanto possa viaggiare incolume questa signora,
transitando per contrade non propriamente sicure nemmeno per chi viaggia in
auto, figuriamoci in bici, e poi donna, e poi sola. Già in Serbia, sul lungo
Danubio, paralleli al confine rumeno, ci era capitato di incontrare una coppia
di ragazzi giovanissimi, nordicissimi, che sicuramente avevano litigato; lei
biondina, forse ventenne, col viso rigato di lacrime che pedalava a fatica, pur
mettendoci impegno; lui, coetaneo, ad almeno un chilometro più avanti,
incurante del fatto che la compagna fosse tanto distante. Ma, ci chiediamo noi,
coi tempi che corrono, uno ci mette niente a sbucare da un qualsiasi viottolo
di campagna e far di questa ragazza un sol boccone. Chi la sente, che non c’è
un cane per strada? Il suo compagno di viaggio sicuramente no… Ora,
nuovamente una donna sola, in sella alla bici, anche molto bella. O è grande
fiducia in sé stessi e nelle proprie capacità, o grande fiducia nel prossimo, o
grande incoscienza… Con questi pensieri, guadagniamo la dogana montenegrina. E
qui ci spetta una sorpresa! Consegna dei passaporti, ci attendiamo un controllo
formale, magari dei bagagli. Invece… ci fanno cenno di accostarci e
parcheggiare in una specie di officina, con ponte mobile. Hai capito…. Non
sappiamo se fossero i timbri di Turchia e Albania ad insospettirli, o forse
l’aver viaggiato per rotte da contrabbandieri, fatto sta che ci fanno scendere
dall’auto perché deve essere sollevata e controllata. Azionano il ponte e il
Nissan viene issato verso l’alto. Un funzionario comincia a ispezionare tutto
il fondo del fuoristrada, a battere sulle portiere, sui parafanghi… Noi ci
teniamo a distanza, ma non li perdiamo d’occhio. Ispezionano tutto, ma anche
questi non tengono in minima considerazione lo snorkel. Scesa l’auto, rapido
controllo dei bagagli, tutto con molta professionalità, condita da
facce grevi e serie. Ci fanno accomodare al controllo definitivo dei
passaporti, timbro e via.
MONTENEGRO
Eccoci
nuovamente qui, ci accostiamo per rimettere a posto i documenti; la bella
ciclista ci saluta e prosegue per la sua strada, che non incroceremo più. Mah..
Sarà arrivata sana e salva? Durante il tragitto verso il Durmitor, scorgiamo un
cartello che indica il monastero di Ostrog, il più importante monastero
ortodosso del Montenegro, che la leggenda vuole sia stato scavato nella roccia
dal santo Vasilije per sfuggire alle orde ottomane. Parcheggiamo e
ci incamminiamo in salita per raggiungere il monastero, che è aggrappato ad uno
strapiombo di circa 900 metri sulla sottostante valle! Numerosi pullman
stazionano nei parcheggi, di diverse nazionalità. Foto di rito e poi ci
accodiamo alla fila per entrare. Supponiamo che la fila sia dovuta agli
ingressi consentiti solo a piccoli gruppi di persone. Ascoltiamo lingue
diverse… molti sono serbi, altri ucraini, altri addirittura russi.. una coppia
di sposi russi che ci precede, in particolare, ci colpisce: lui tipica faccia
“sovietica”, scolpito con l’accetta, biondo e dalle gote rosse, lei occhi dal
taglio orientale, capelli castano scuri carnagione color del cuoio… sicuramente
una buriata! Osserviamo come ognuno degli astanti infili delle monetine nelle
fessure della scalinata in pietra. Lo facciamo anche noi, per buon auspicio.
Finalmente sembra sia il nostro turno per entrare… e lì capiamo che la fila non
è tanto per osservare gli affreschi della grotta del santo e rendere omaggio
alle sue reliquie, quanto per ricevere la benedizione del pope con tanto di
bacio alla croce! A questo punto ci facciamo volentieri benedire, una
benedizione in più non guasta mai…
Di nuovo in
sella, direzione nord-est, tappa a Niksić, destinazione Vučje, stazione
invernale ai piedi del Durmitor, già apprezzata meta di due anni fa. Chissà se
anche stavolta troveremo l’intraprendente cameriere che prendeva appunti sulle
nuove parole italiane imparate? Purtroppo no: la gestione è cambiata, al suo
posto nuovi inservienti e una ragazza mora dai tratti severi e squadrati, a
digiuno totale di qualsiasi lingua non slava, e totalmente impreparata ad
accogliere turisti stranieri. Con qualche difficoltà in più, riusciamo comunque
a farci assegnare una stanza (anche stavolta, unici turisti). Purtroppo non è
solamente cambiata la gestione, ma pure i prezzi sono notevolmente aumentati
(difatti rinunciamo alla bottiglia di vino a cena, non siamo disposti a farci
rapinare). La ruspante cucina di due anni fa è solo un pallido ricordo. Ce ne
andiamo a letto, un po’ delusi per i non positivi cambiamenti; nel silenzio
della foresta che ci circonda, facciamo un po’ il punto del nostro tour,
approfittando anche del wi-fi gratuito, perfettamente funzionante! E domani…
Durmitor!
17.9
Siamo proprio
sfortunati: due anni fa non siamo riusciti a salire al Durmitor, il Parco
Nazionale, per mancanza di tempo; ora di tempo cronologico ne abbiamo, ma è il
tempo atmosferico a fregarci: nuvoloni minacciosi si accalcano tutti attorno
alle cime, promettendo sfracelli. D’altra parte, è il primo break di maltempo
che subiamo, dopo dodici giorni quasi ininterrotti di sereno. Non si può
pretendere tutto, no? Scendiamo in paese per fare rifornimento di panini e
bibite. Ci accorgiamo che i prezzi del supermercato sono sorprendentemente
alti, quasi come da noi, e ci chiediamo come faccia la gente a tirare avanti
con questi prezzi e con gli stipendi che sono meno della metà dei nostri.
Mistero. Sarà pure un effetto della crisi, ma a nostro parere questi prezzi
sono ingiustificati. Fatta la spesa, ci arrampichiamo alla volta dei confini
del Parco. Purtroppo il tempo peggiora, e nemmeno stavolta riusciremo a fare un
trekking. Ci accontentiamo di un lungo raid in auto e, finalmente, un po’ di
off-road! Nonostante le nuvole basse e la pioggia a tratti, ci imbattiamo in
scenari mozzafiato, a tratti lunari, ogni tanto un piccolo laghetto occhieggia
tra le rocce e i cardi di Scozia, in piena fioritura. Per un buon tratto
proseguiamo su asfalto, poi ci appare sulla sinistra uno sterrato intrigante e
la tentazione di sterzare su terra e roccia è troppo forte! Almeno tentiamo di
rendere meno uggiosa questa giornata di pioggia e vento (e freddo!). Non ci
pensiamo su due volte, in un attimo Max sterza e siamo finalmente fuori
dall’asfalto. Ci si para davanti un paesaggio d’alta montagna, con laghetti,
rocce e vegetazione bassa, mughi e graminacee. Lo sterrato rossastro si srotola
tra i calcari ora frastagliati, ora levigati da acqua e vento, un magico luogo
di bellezza minerale; siamo da soli con il fischio del vento. Proseguiamo per
qualche km fino ad incontrare… un nucleo abitato! Un cane da pastore simile ai
nostri abruzzesi, alla catena, lancia l’allarme. In lontananza, accanto a delle
casupole, intravedo della stoffa nera che sventola; avvicinandoci a passo
d’uomo, ci accorgiamo che la stoffa nera sventolante è nientemeno che l’abito
nero di una vecchina che, accortasi del nostro arrivo, ha pensato bene di
nascondersi in una delle tre casupole di legno, paglia e lamiera. E’ una
pastora, e a giudicare dalla biancheria stesa ad asciugare, probabilmente starà
qui tutta l’estate a pascolare le pecore. Non scendiamo per non invadere la sua
vita, e anche perché altri due cani pastore, liberi e minacciosi, ci abbaiano
contro con fare poco amichevole, accompagnando con inseguimenti e latrati un
bel tratto del nostro andare. Piove a tratti, la temperatura raggiunge i tre
gradi e lo sterrato prosegue tra i pascoli. Ci fermiamo a fare il punto nave.
Questo sterrato è davvero intrigante e chissà fino a dove ci porta, ma ormai si
sta facendo tardi e non abbiamo molto tempo per fare nuove esplorazioni. Perciò
dietrofront, ripassando nuovamente davanti alle casupole della vecchina (ancora
nascosta) e ai due cani accucciati accanto ad una minuscola casetta di legno e
lamiera provvista di grossi pattini da slitta, probabilmente usata per portare
bestiame o persone a valle in caso di necessità. Riagguantiamo l’asfalto,
sempre soli al mondo, e scopriamo nuovi paesaggi mozzafiato. Nei pressi di un
rettilineo, troviamo persino mezzo campo da basket disegnato sull’asfalto, con
tanto di canestro regolamentare, segno evidente della scarsità di traffico
quassù! Scendiamo nuovamente verso valle, e il paesaggio cambia ancora: rupi
ammantate di fitta vegetazione, strapiombanti su uno dei tanti fiumi che
scorrono in questa zona, attraversate da una strada che si incunea e si fa
largo con numerose gallerie scavate nella pura roccia. Uno spettacolo
splendido! Alla fine dei tornanti, si torna a valle. Seguiamo l’indicazione per
un piccolo monastero, abitato da suore di clausura. Sembra deserto, a parte un
tizio che vediamo saltare per acchiappare delle susine mature nel giardino del
monastero. Crediamo sia chiuso e, anche se fosse aperto, è inutile che mi porti
il cavalletto, tanto sicuramente non potrò fotografare all’interno. Invece, non
solo la chiesa del monastero è visitabile, ma si può persino fotografare! Il
tizio che saltava per le susine è il custode, una specie di “perpetuo”, messo a
guardia di chiesa e incolumità delle monache. La chiesa è un’anonima
costruzione in pietra, ma l’interno è un tripudio di mosaici di qualche secolo
fa, icone dorate e splendide incisioni in oro a sbalzo. Siamo i soli
visitatori; io documento questi tesori, Max lascia una sua preghierina scritta con
allegata offerta sul piccolo altare allestito alla bisogna; ci sarebbe da
perdere una giornata intera solamente per gustarsi queste opere d’arte sacra,
ma dobbiamo andare e non vogliamo stravolgere con le nostre abitudini un luogo
così sacro e silenzioso. Ringraziamo il giovanotto delle susine e ci avviamo
verso l’albergo in montagna. Il Montenegro riserva mille e una sorpresa, tra
natura e cultura. Altra cena insipida e poi a nanna. Domani ci aspetta la
Bosnia.
18.9
Manco a
dirlo, stamattina nemmeno una nuvola. Paghiamo il conto (sempre troppo caro per
il trattamento offerto) e ci dirigiamo verso il confine. Anche qui, il
paesaggio è una favola, uno dei tanti fiumi irreggimentati dalle dighe disegna
scenari lagunari, con isolotti verdi e anse coperte da foreste. Facciamo
qualche scatto e veniamo raggiunti da una specie di pastore con tanto di
fisarmonica, che attacca un concertino per voce e strumento; sorrisi, saluti, e
ci allontaniamo anche perché non vorremmo perdere altro tempo al nuovo confine. Zdravo,
Crna Gora! (ciao Montenegro).
BOSNIA-ERZEGOVINA
Tra la dogana
montenegrina e quella bosniaca, altro repentino cambio di paesaggio, con scorci
di canyon lussureggianti; trattandosi di terra di nessuno, e per evitare rogne,
rinuncio a scattare delle foto, ma ne valeva davvero la pena! Veloce sguardo ai
passaporti e ci fanno passare senza chiederci altro. Anche qui, i nomi dei
paesi evocano scenari da guerra fratricida. Siamo in Bosnia, ma effettivamente
stiamo attraversando la Repubblica Srpska, cioè l’enclave dei Serbi di Bosnia.
Fino a pochissimo tempo fa, qui c’era un confine con richiesta di passaporto,
poi è stato tolto e la circolazione è libera in tutte e due le entità. A
complicare ancor di più la situazione, è lo sventolio di vessilli croati su
parecchie case al di qua o al di là della strada. Stanno a significare nuclei
di croati di Bosnia che rivendicano il proprio diritto di appartenenza ad una
terra lacerata. Ennesimo esempio di una guerra inutile. Attraversiamo uno Stato
immobile, con un’altissima disoccupazione, cimiteri dell’ultima guerra ovunque.
La nostra meta di oggi sarà Mostar, altra città martire e simbolo della pazzia
che ha devastato tutti. Per prima cosa, cerchiamo un posto dove passare la
notte. Bussiamo a qualche porta, ma sembra che sia tutto esaurito! Poi, sempre
attorno al centro storico, una gentile albergatrice ci conferma di avere il
proprio albergo pieno, però ci indica il bed&breakfast di un’amica poco
lontano. Ci dirigiamo in macchina e troviamo la proprietaria intenta a lavare i
vetri della sua struttura. Ci accoglie con un inglese perfetto, parla anche
qualche parola d’italiano e ci comprendiamo benissimo. Parcheggiamo nello
spazio riservato e ci accompagna nella nostra camera, con vista minareti e
centro storico. Il luogo è carino e pulitissimo, aria condizionata, biancheria
candida e soffice. Scendiamo subito per non perdere preziose ore di luce, il
mio intento è fotografare il famoso ponte a schiena d’asino, magari da una
diversa angolazione. Riprendiamo l’auto e la parcheggiamo all’inizio del centro
pedonale. Ci facciamo trasportare dalla corrente di turisti, ancora molto
abbondanti, e tanti, tanti giapponesi. Assistiamo ai tuffi che un gruppo di
ragazzi compiono a pagamento, per la gioia dei molti turisti giapponesi
assiepati ai bordi del ponte; il ponte, come si ricorderà, fu distrutto dai
bombardamenti croati, tagliando così la città in due; una parte cristiana,
l’altra musulmana. E’ stato riedificato con molti sforzi da una ditta italiana,
recuperando anche le pietre cadute nella Neretva; il ponte ha così riacquistato
la sua forma originaria, creata nel Quattrocento, ma non sarà mai più com’era.
Ci incamminiamo verso una moschea con minareto, ora museo. Bè, ormai che siamo
qui… saliamo sul minareto, no? Ci infiliamo su per gli scalini angusti, alti e
bui, sperando che nessuno decida di scendere proprio in quel momento!
Finalmente sbuchiamo in cima, e lo spettacolo da quassù è meraviglioso. Mostar
è davvero un gioiellino, dovrebbe essere considerata come punto d’unione tra
culture e religioni, non un motivo di odio e divisioni… Sulla collina che
sovrasta la città, scorgiamo una croce bianca: da lassù partivano le cannonate
dei serbi; aguzzando la vista, giù, tra i vicoli, si intravvede la targa di una
madrasa; molto denaro per la ricostruzione è giunto fin qui da fondazioni
arabe. Ci chiediamo se in queste scuole coraniche si studino soltanto i
precetti del Corano o qualcos’altro che con la religione e la tolleranza nulla
hanno a che fare. Sul camminamento del minareto ci si sta stretti stretti tra
altri turisti, è meglio scendere. Ci godiamo un po’ di tranquillità nel
giardino del piccolo cimitero islamico, ora museo, altri scatti particolari, la
luce è splendida. Una sbirciata alle bancarelle di artigianato, notevolmente
migliorato rispetto a quanto offriva la Jugoslavija trent’anni fa. Ma tra
ceramiche, ricami e tappeti, ora spuntano anche curiosi portachiavi e souvenir
prodotti assemblando cartucce e proiettili. Troviamo simile oggettistica di
cattivo gusto, d’altronde la vendita di simili “ricordini” può aiutare a tirare
avanti in un’economia non certo florida. Ci sono ancora le “matitone” sagomate
al tornio, le stesse che si vendevano sulle bancarelle dell’Istria quando
eravamo giovanissimi! Ormai si è fatto buio. Riportiamo in camera zaino e
Nikon, per girare almeno stasera senza pesi e impicci. Ne approfitto per
scattare qualche foto notturna dal poggiolo della nostra stanza. Che bella
atmosfera. Cenetta romantica in un localino affacciato su uno dei tanti canali
d’acqua scrosciante che attraversano la città. Birra, carne, pesce e gatti
affamati. Ci aspetta un riposo memorabile tra le lenzuola più pulite e fresche
di bucato che abbiamo mai trovato ultimamente!
19.9
Si riparte
alla volta di Sarajevo, tra acquazzoni più o meno intensi. Dopo qualche ora
siamo nella circonvallazione della capitale bosniaca, piove ancora, il traffico
è intenso e nulla ci induce a fermarci; sembra che il ring attorno alla città
sia dominio di zingari, siamo parecchio in ritardo sulla tabella di marcia e
quindi desistiamo dall’immetterci nel flusso veicolare per il centro e ne
usciamo, ancora direzione nord. La pioggia non molla, e rende piuttosto triste
il paesaggio che attraversiamo; croci e steli funerarie ovunque,
case sventrate…. Qui si sono scannati tutti per una guerra senza un perché. A
pranzo decidiamo di fermarci per un boccone, siamo nei pressi di Donij Vakuf,
Bosnia centrale. Sostiamo in un ristorantino sulla strada, la nostra è l’unica
macchina in parcheggio, a parte una Zastava 600 (“Fičko”) gialla e rossa
parcheggiata poco più avanti. Il locale è grande ma è buio e dentro non c’è
nessuno… poi appare una specie di giovane gigante buono in camicia celeste.
Chiediamo se si può mangiare e ci risponde affermativamente in inglese. Ci
accomodiamo al tavolo e, guardandoci attorno, ci rendiamo conto che siamo
capitati in una specie di ritrovo per nostalgici della ex Repubblica Socialista
di Jugoslavia… un grande ritratto di Tito campeggia nella sala, poi in giro
ritagli di giornale, ricordi del passato regime.. Oltre ai ricordi socialisti,
sul bancone fanno bella mostra di sé decine di trofei di gare automobilistiche…
vuoi vedere che c’entrano qualcosa con la Zastava parcheggiata fuori? Il
gigante buono ci porta il menu e due birre e, intanto che scegliamo cosa
prendere, lo vediamo che ci sbircia da dietro il bancone con i trofei… non
capiamo se destiamo la sua curiosità in quanto primi clienti da qualche tempo
in qua o se siamo i primi stranieri che vede in vita sua… Mangiamo sotto lo
sguardo severo di Tito e quello incuriosito (e defilato) del cameriere; a fine
pranzo il gigante buono ci racconta che i trofei li ha vinti il titolare del
ristorante proprio con la 600 Zastava che abbiamo visto fuori (regolarmente
dipinta col pennello) e Max gli diventa ancora più simpatico quando gli dice
che anche lui era un pilota di rally; io non posso fare a meno di chiedergli
del ritratto del maresciallo Tito e delle bandiere jugoslave: Emsad, questo il
nome del gigante buono in camicia celestina a mezze maniche, si illumina tutto
e ci dice che lui è nato proprio il giorno della morte del Maresciallo, il 4
maggio 1980; questo ragazzone è nato e cresciuto in un’entità di una
Federazione che proprio con la morte del suo “fondatore” è crollata miseramente,
con tutto lo strascico di faide e guerre che sappiamo; eppure c’è ancora chi
vede Tito come una personalità eccezionale e di grandi valori. Sicuramente, per
esser riuscito a tenere unite per oltre quarant’anni sei repubbliche e due
province autonome che, ideali socialisti a parte, si guardavano in cagnesco, si
doveva esser altro che eccezionali… Ancora una volta riflettiamo su quanto
siano servite queste guerre fratricide. Chi ci ha perso è sicuramente stata la
popolazione di Bosnia; stato sovrano, ma frazionato su base etnico/religiosa,
schiacciato da miseria e prospettive nulle di ripresa economica; un’altra
carcassa da gettare in pasto agli avvoltoi occidentali (in primis, banche).
Arriva il momento del conto; possiamo pagare in euro ma, purtroppo, Emsad non
ha il resto. Nel frattempo entra nel locale un signore in bicicletta, amico di
Emsad, il quale gli presta la bici per andare fino al distributore di benzina a
cambiare gli euro. Il signore di mezza età attende con noi il ritorno del
solerte cameriere. Dopo un po’, bagnato di pioggia, ritorna Emsad con il resto.
Grandi ringraziamenti, pacche sulle spalle, due bottiglie di birra Sarajevsko
in omaggio e… assolutamente foto ricordo con Max e il nostro Patrol e liquore
per il brindisi finale. Emsad è così alto che sovrasta il fuoristrada! Gli
chiediamo se hanno una mail e ci dà l’indirizzo del locale. Al nostro rientro a
casa, ci rimettiamo in contatto, tramite un collega bosniaco di Max, con il
nostro gigante, il quale ci fa sapere che ha raccontato di noi alla moglie, che
ci ricorda con tanto piacere e che se gli possiamo mandare due righe con foto
non per mail (l’internet in Bosnia non funziona granché), ma per posta,
desiderio che esaudiamo con molto piacere. Ci rimettiamo in marcia, ora qualche
raggio di sole spunta tra nuvole gonfie d’acqua. Oltrepassiamo Bihać,
tristemente famosa per essere un’altra delle città martiri, nella sanguinosa
battaglia del 1994; altre croci, altre lapidi con la mezzaluna punteggiano ogni
spazio libero…. Arriviamo al confine con la Croazia, rapido controllo
documenti, niente da dichiarare se non tanti perché e quesiti irrisolti…. Na
svidenje, Bosna! (Arrivederci, Bosnia).
CROAZIA
Dobrodošli! (benvenuti) Siamo
già nel territorio del Parco di Plitvice, ultima tappa del nostro viaggio. Ci
dirigiamo nell’albergo principale, circondato da decine di pullman, a chiedere
un posto per dormire. La gentilissima signora ci avvisa che tutti e due gli
alberghi del parco sono al completo! Forse però riesce a trovarci un
appartamentino. Rapido giro di telefonate e sì, l’appartamento c’è, ma a
qualche km di distanza dal parco. Ci dà il nome della proprietaria
dell’appartamento, la quale si farà trovare nei pressi del grande ponte sul
fiume a bordo di un’auto rossa. Ormai è buio, partiamo alla ricerca della
signora sull’auto rossa. Arriviamo al ponte, vediamo un’utilitaria rossa che,
al nostro arrivo, sfreccia subito via, noi talloniamo la vettura chiedendoci il
perché di tanta fretta. L’utilitaria si ferma al parcheggio di un supermercato,
la passeggera scende ed entra nel negozio. Noi attendiamo qualche minuto, ma
qualcosa non torna, scendo e chiedo alla ragazza bionda al volante se è lei la
signora dell’appartamento; la ragazza si mette a ridere e mi dice che non è lei
ma è sua madre che ci sta aspettando, sul ponte, a bordo dell’auto, qualche km
più indietro! Ma?!? Dietro-front, sgommiamo e pochi km dopo, sul cavalcavia,
un’altra auto rossa ci lampeggia! Eccola, è lei la signora che ci affitterà
l’appartamento! Rapido scambio di saluti con risate, e ci accodiamo in una
stradina di campagna. Per strada, incrociamo parecchie autovetture, tutte
rosse… ci viene il sospetto che in paese ci sia stata un’infornata di auto
rosse d’occasione e tutti ne abbiano approfittato! Eccoci finalmente a destinazione;
l’appartamento è un monolocale carino e dotato di tutti i comfort, con cucina,
frigo, tv… Ok, la sistemazione è super, e come vicini abbiamo solo una coppia
di tedeschi silenziosi. Ceniamo in una pizzeria nei dintorni, strapiena; ma
siccome siamo gente che ha sfidato il gelo russo, possiamo anche mangiare
all’aperto, no? Anche se l’aria umida e pungente si fa sentire, fuori stiamo
sicuramente più in pace. Notte di meritato riposo e domani… gita ai laghi!
20.9
Fatta un po’
di spesa per riempire il frigo ed essere autonomi per cene e colazioni, verso
mezzogiorno entriamo nel Parco Nazionale dei Laghi di Plitvice (Nacionalni Park
Plitvička Jezera), Parco Nazionale dal 1949 (il più antico della Croazia, tra i
primi della neonata Jugoslavija) e sito Unesco dal 1979. Per Max è la prima
volta, per me è un tuffo nel passato e nei ricordi di una bellissima estate del
1985, quando già si percepivano i primi sommovimenti politici e la ferocia
sobbolliva più a sud; nei ricordi di ragazzina comparivano ritratti del
maresciallo Tito ancora listati a lutto e un figuro di nome Miloševič che
occhieggiava sui quotidiani. A me, che in quell’estate con i miei genitori
l’avevo trascorsa in giro per la Jugoslavija fino a Sebenico, quelle campagne
antiche piacevano molto e la semplicità della vita nelle Kraijne mi attirava di
più delle località turistiche della costa. Era chiaro che un mondo così non
poteva durare. Imbocchiamo la stradina che ci porta alla prima grande cascata,
siamo circondati da caterve di turisti di tutte le nazionalità; sotto alla
cascata siamo anche in compagnia di un gruppo di turisti israeliani caciaroni e
goliardici, che si scattano foto di gruppo, ma di dubbio gusto (leggi: al posto
delle facce, mostrano le terga inguainate in bermudoni a scacchi);
monopolizzano ogni punto di belvedere e sono piuttosto fastidiosi, anche per
gli altri turisti; qualche scatto e ci avventuriamo sulle passerelle di legno
che solcano i laghetti dai mille colori diversi; il colore dell’acqua cambia in
continuazione con il passaggio delle nuvole e col passare delle ore; spettacolo
meraviglioso! Davanti al tabellone con la mappa del parco facciamo un po’ il
punto della situazione; vista l’ora, decidiamo per una gita in barca con
ritorno in pullmino; purtroppo, anche gli israeliani si imbarcano con noi, e
non rinunciano alla caciara nemmeno a bordo, intonando “Hava Nagila” e
coinvolgendo anche il resto dei partecipanti a cantare e battere le mani con
loro. Noi due e una coppia di giovani musulmani imbarazzati siamo gli unici a
non partecipare; ci chiediamo cosa sarebbe successo se, ad un certo punto, Max
ed io ci fossimo alzati a cantare a squarciagola “Luna rossa” e invitando tutti
gli altri a cantarla con noi. Purtroppo la cafonaggine israelita non termina
qui, e più volte li avremmo sentiti vociare per tutto il parco… La
maleducazione non ha passaporto. Finalmente sbarchiamo e troviamo il modo per
defilarci dalla confusione; pur con il notevole afflusso di visitatori, il
parco è abbastanza vasto per permettere una diluizione delle persone, anche se
costrette a camminare solamente sulle passerelle sull’acqua. Purtroppo, una
pecca (che avevo già osservato nel 1985) è che ci sono pochissimi servizi
igienici; considerata l’alta presenza di turisti, spesso non giovanissimi, due
soli luoghi dedicati ai servizi (uno all’ingresso e uno al centro del parco)
non sono sufficienti per dare sollievo a chi cammina per oltre tre ore;
infatti, ogni tanto qualcuno si infratta tra le piante. Riesco a fare degli
scatti senza troppa gente in giro, ma spesso, negli angoli più suggestivi, ci
dobbiamo mettere in fila ed attendere il nostro turno per lo scatto-ricordo!
C’è gente che si porta dietro anche l’attrezzatura professionale, maxi-tele,
filtri… ma, con un po’ di pazienza, c’è posto per tutti. La nostra prima gita
termina nel tardo pomeriggio; rientriamo a casa a riposare le gambe e
approfittiamo del tavolino nel giardino del nostro appartamento per una bella
birra fresca, a goderci il tramonto e l’aria già frizzantina di fine settembre.
Osserviamo anche che siamo partiti che era ancora estate e torniamo in
autunno…. Scherzi da calendario.
21.9
Penultimo
giorno di vacanza, giornata dedicata tutta ai laghi. Decidiamo di saltare le
zone all’ingresso per dedicarci ai percorsi non visti ieri. Rapido sguardo alla
cartina e via, a cercare scorci lontano dalla pazza folla. Le cascate si sono
formate a seguito dei depositi carbonatici delle acque, creando innumerevoli
concrezioni in travertino; Max è estasiato dallo spettacolo, io rivivo momenti
felici della mia adolescenza; per certi aspetti, sembra che nulla sia cambiato
dopo ventotto anni. Ogni tanto ci imbattiamo in pozze dall’acqua così
trasparente da riuscire a scorgere il fondale, distante però parecchi metri dalla
superficie; diverse passerelle si srotolano direttamente sul pelo dell’acqua, e
non so cosa ci trattiene dal tuffarci nell’acqua cristallina! Plitvice è sempre
un incanto in tutte le stagioni, pure d’inverno, quando le cascate ghiacciano e
tutto è un merletto di brina. Ora, a inizio autunno, qualche albero comincia ad
ingiallire, prodromi di uno spettacolo indimenticabile. Nel nostro peregrinare
incontriamo, anche qui, delle ragazze giapponesi. Ad un certo punto si fermano,
una di loro apre lo zainetto e tira fuori una specie di costume di peluche… In
men che non si dica, si traveste da gattone e si fa fotografare così conciata
con sfondo del lago! Ma questa si è portata il costume da manga dal Giappone
per farsi ritrarre così proprio qui? L’universo nipponico ci risulta
incomprensibile… A metà pomeriggio abbiamo percorso il giro di quasi tutti i
laghi, e col biglietto cumulativo di ieri ritorniamo alla base col barchino (e
pulmino). Due giorni veramente di tutto riposo, nella natura e nell’aria pulita.
Ci voleva proprio! Cenetta nella tranquillità del nostro appartamento, riposo e
poi domani… partenza per Trieste!
22.9
Salutiamo la
sig.ra Renata, proprietaria dell’appartamento, dove siamo stati molto bene e ad
un prezzo onesto. Rotta ovest-nord-ovest, col borino ed il sole. Ci stiamo
avvicinando all’ultimo dei cinque mari; ora il nostro Adriatico è
all’orizzonte. Sulle alture sopra Senj ci fermiamo per una pausa; splendide
appaiono le coste brulle dell’isola di Krk (Veglia) e Cres (Cherso), il bianco
calcare sferzato dalla Bora che si getta a picco nel mare blu cobalto. Uno
spettacolo unico, che veramente non ci fa rimpiangere la Grecia… Ci rimettiamo
in marcia, vicino a Rijeka (Fiume) ci attende un caro amico croato, collega di
Max, per un pranzo a base di pesce, in un locale a picco sul mare. Tra un
sarago ai ferri e un calice di malvasia, i racconti e gli aneddoti di questo
lungo viaggio riaffiorano in continuazione. Un viaggio che, tra manifestazioni
e proteste ovunque, siamo comunque riusciti a portare a termine.
Il nostro è
stato un lunghissimo andare, in un’Europa balcanica ricca di misteri e
contraddizioni, di fascino e miseria, di rimpianti del passato e voglia di
futuro, di imperi perduti e democrazie sui generis, di confini materiali e
confini mentali. E, a giudicare da quanto visto, forse era meglio rimanere in
un’Europa di Stati e confini. In tutto 4.970 km nella pancia di un continente
che, forse, non ha ancora scoperto la sua vera identità. E che, probabilmente,
nemmeno la cerca.
2 commenti:
Pershendetje Massimo.
E lexova me kujdes pershkrimin qe ke bere rreth udhetimit ne Shqiperi. Ne radhe te pare te falenderoj per pershtypjet e mira qe ke thene per vendin tim, por s'jam dakort me ty ne disa gjera. E para nuk eshte e vertete qe nuk ka tabela per te te drejtuar tek "Syri i Kalter". Ai eshte vendi me i vizituar nga turistet dhe eshte nje perle e vertete prandaj per kete arsye ka tabela qe te cojne per atje, duhet te kishit qene me te vemendshem ;) ... E dyta nuk jemi sorridenti per arsye te "hashashit" sic e ke cituar ti, por jemi keshtu nga natyra, te qeshur, mikprites, te dashur me kedo qe vjen e na viziton. Per sa i perket te tjerave sdo hiqja asnje presje per sa ke thene nga ato qe ke pare. Shqiperia ka akoma shume vende te bukura per te vizituar ndaj mos e ler me kaq por kthehu perseri dhe shijoje te gjithen. :)
Faleminderit dhe mireardhshi perseri!
Buonasera bonita84,
grazie per aver letto e commentato il nostro viaggio nei Balcani del 2013. Come avrai capito, era la seconda volta che visitavamo il tuo Paese a distanza di pochi anni dal primo ingresso. Già allora, ci aveva particolarmente colpito la bellezza dei luoghi (allora visitammo unicamente la parte centro-nord del Paese, paesaggisticamente molto diversa da quello che abbiamo visto questa volta), ma questo è logicamente soggettivo.
Ci ha davvero sorpreso la totale, sincera e vera accoglienza dei suoi abitanti. Le parti del racconto dove accenno all’allegria e alla gentilezza a causa forse degli effluvi che si diffondono tutto attorno per colpa di certe piantine, erano decisamente delle battute di spirito, in quanto, provenendo dalla Grecia, paese gravemente depresso causa tragica crisi economica, dopo aver visto molta delusione rassegnazione nelle persone, era inevitabile non accorgersi di facce sorridenti e ben disposte verso i turisti. La mia frase era riferita unicamente a questo aspetto.
L’altra nota che sottolinei riguardo “l’Occhio Blu” purtroppo è una nostra grande delusione averlo mancato nei pochi chilometri che lo separano da Mesopotam, evidentemente forse non era particolarmente indicato 7 anni fa, oppure come dici tu, forse causa la mia disattenzione. Certo è, che sarà sempre un motivo di grande interesse ritornare in Albania per cercarlo e finalmente visitarlo, ma anche per rivedere ancora altre bellezze che sicuramente ci sono sfuggite. Colgo l’occasione di invitarti a leggere anche il racconto precedente, quello del 2011 per darmi ancora una volta un giudizio sul mio racconto e sperando di rileggere ancora tuoi prossimi interventi. Grazie!
Një përqafim i madh
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