Incontri coi popoli

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Russia 2008 - 2016: Analisi di una passione



Russia 2008-2016
Analisi di una passione


   Si può descrivere una passione? Si può razionalmente stenderla così, nero su bianco, come una lista della spesa, come un contratto, un avviso di sfratto? Probabilmente sì, anzi, sicuramente sì, la letteratura è piena di passioni redatte in Bodoni corpo 10, per non parlare della letteratura di viaggio; innumerevoli resoconti non sono altro che pura e struggente passione messa su carta; Chatwin, Kapuscinksy, Maraini, Terzani…
  Allora, umilmente, ci proviamo anche noi, nel nostro piccolo, anzi, piccolissimo, a tentare di mettere “nero su bianco” quella che è la nostra personale passione per la Russia, che già traspariva dai precedenti racconti di viaggio vergati per questo blog.
  Ancora, razionalmente, cerchiamo di spiegare da dove nasce questa passione, le cui origini si perdono nei primi anni ’70 (per Laura) e dal 2007 (per Max). E, chissà, magari riusciremo a dare risposta a quelle persone che, nel corso degli anni, ci hanno chiesto “Ma perché proprio la Russia?”. Ecco, chissà, forse, ma solo forse, mettendo queste righe “nero su bianco” riusciremo a rispondere anche a noi stessi.


PER MAX, LA RUSSIA COME COLPO DI FULMINE
 
  “Sono nato a Trieste, in una famiglia operaia nella prima metà degli anni ’60, quando le frontiere con la Jugoslavia cominciavano ad aprirsi al traffico frontaliero e gli sguardi d’ambo le parti da arcigni si facevano più distesi; nel pieno del boom economico e del benessere che portò la tv in bianco e nero davanti agli occhi curiosi di un bambino biondo cenere che si entusiasmava al cospetto dei western, dei caroselli, della Coca-Cola e di tutto ciò che veniva da oltre Oceano; l’approdo nel mondo scolastico, le prime amicizie, le prime compagnie, sempre nel solco della lingua, musica, cinema e tendenze anglo-statunitensi che quotidianamente invadevano la vita di quegli anni; di URSS, di Russia, di quell’altro mondo, semplicemente, non si parlava. Non esisteva. Nonostante avessi dei parenti rimasti in Istria, il mondo istro-slavo era un universo totalmente sconosciuto e, al di là della città di Pola… laggiù, all’orizzonte orientale, quelle kraijne semplicemente erano … “hic sunt leones”. La maturità, e dei lontani parenti emigrati nella canadese ed anglofona Vancouver, mi portarono al mio primo viaggio in solitaria ed al mio primo volo transoceanico, in quella che io consideravo “l’America”; 28 giorni nei quali mi sono abbeverato di modernità, spazi immensi, profondissimo senso civico, e la consapevolezza che, se ci avessi rimesso nuovamente piede, ci sarei rimasto definitivamente a vivere. Poi, nemmeno due mesi dopo dal mio ritorno a Trieste, l’incontro con quella che sarebbe diventata la donna della mia vita. Avevo ancora negli occhi la bellezza dei giardini e della natura della British Columbia, e con le fotografie ed i ricordi di quel paradiso cercai di impressionare quella ragazza, segretamente sperando in un futuro assieme, speso a guardare le orche solcare le fredde acque del Pacifico canadese. Però, mentre io sognavo le Giubbe Rosse, nei suo occhi vedevo invece… le Guardie Rosse. I primi viaggi assieme, oltre confine, quando la Jugoslavia stava drammaticamente implodendo, e poi in quello che era stato il glorioso impero austroungarico, lentamente diluirono la mia infatuazione per “l’America”; fu come ridestarsi da un limbo, quando cominciai a prendere coscienza che c’è anche un altro mondo, ad Est, tutto da scoprire. Coscienza che pian piano si è costruita fino a quel fatidico gennaio 2007.”

PER LAURA, LA RUSSIA COME DESTINO

  “Sono nata nei primi anni ’70, famiglia operaia, in una Trieste affacciata sul mosaico jugoslavo mentre, migliaia di km più ad Est, incombeva un impero, immobile nella sua “stagnazione brežneviana”; in famiglia, lo sguardo spaziava sia ad Ovest sia, e forse soprattutto, ad Est, verso quel “Sol dell’avvenire”; in questo clima, tra un concerto di Rimsky-Korsakov, un coro dell’Armata Rossa e una Dori Ghezzi che cantava ad ugola spiegata “Kazačok”, sono arrivata io. “La voce del sangue”, la chiamano: evidentemente, migliaia di geni di individui e genti diverse che si sono avvicendate in queste marche di frontiera, devono aver lasciato il segno anche nel profondo sentire di una bambinetta che a fine anni ’70 si affacciava alle scuole elementari: e sebbene avessi tre sorelle maggiori rapite dall’anglofilia e per tutto ciò che era occidentale, io, da bastian contrario, crescevo con la curiosità per quello che stava “dall’altra parte”; nonostante il profondo ostracismo verso l’URSS e l’Est Europa in genere che balzava dai libri scolastici e dall’informazione nazionale, io sentivo di essere in qualche maniera attratta dall’orso russo, e non mi perdevo una sillaba di quello che ci raccontavano da Mosca i corrispondenti RAI Volčič e Canciani; con l’arrivo di Gorbačëv, l’interesse si stava tramutando in crescente curiosità; dopo la caduta del Muro, la crescente curiosità in consapevolezza e la decisione di iscrivermi ad un corso di lingua russa; ma l’arrivo quasi in contemporanea del lavoro a tempo indeterminato prima, e l’incontro con l’uomo della mia vita poi, mi fecero accantonare il corso di russo per dedicarmi alla costruzione di un futuro insieme. Fino a quel fatale gennaio 2007.”

GENNAIO 2007

  E’ cominciato tutto da qua: un buio e pigro pomeriggio di gennaio, mese dedicato alla pianificazione delle usuali ferie estive; il gatto ronfante in giro, io a leggere sul divano, Max assorto davanti al computer, in cerca di possibili nuoti itinerari e poi, tutto ad un tratto, la sua sparata: “E se andassimo in Russia?”. Confesso, dopo l’usuale alzata di sopracciglio e la soppressione forzata di numerosi punti interrogativi campeggianti sulla mia testa, di non aver capito, sul momento, le reali intenzioni del consorte-pilota. “In macchina?!?” replicai incredula. “Ovvio…” fu l’ovvia risposta. Il mio attimo di smarrimento lo superai in un istante perché nei suoi occhi lessi una determinazione inequivocabile, alla quale non si poteva altro che rispondere “Allora andiamo!”. La Russia, che fino a questo momento era un’entità che “stava là”, ora d’un tratto si materializza e smette d’essere solamente una macchia colorata che dilaga sulla doppia pagina di un atlante, ma prende corpo e sostanza.
  Si dice che il viaggio inizia al momento della sua pianificazione. Ebbene, il nostro primo viaggio in Russia è durato un anno e mezzo… Un anno e mezzo di metodica organizzazione, di colloqui con chi c’era già stato, di week-end spesi su internet alla ricerca di notizie ed informazioni, di gratificanti incontri di persona (Adalberto) e via web (Italo), la messa a punto del nostro glorioso Opel Frontera (rivoltato come un calzino), fotocopie di alfabeto cirillico sparse in punti strategici della casa per essere sempre sotto gli occhi, e poi la ricerca di compagni di viaggio per far numero… e darsi coraggio in caso di necessità; la pubblicazione del nostro itinerario sul forum fuoristrada e sulla rivista “Tutto Fuoristrada” luglio-agosto 2008, l’incontro con la coppia di uomini (Luca e Toni) che avrebbe partecipato a questa avventura, tutto ciò ci faceva crescere l’entusiasmo.
  Non avremmo mai creduto, noi così mitteleuropei, poco inclini a romanticismi e passioni mediterranee, razionali (Max), teutonici (Laura), precisi… di trovarci rapiti, anima, corpo e cuore da un Paese, il più grande del mondo, sempre in bilico tra un passato travagliato ed un futuro precariamente stabile, ostaggio di mille contraddizioni, dove regole e puntualità non sembravano essere di casa; mai avremmo pensato, nonostante quello che ci è capitato in finale d’avventura, che non ce lo saremmo più tolti dalla testa e dal cuore. Abbiamo contratto il mal di Russia, e preghiamo che nessuno trovi mai un vaccino per questo.
  Da dove cominciare, dunque, per dare un senso compiuto a questa nostra bruciante passione? Potremmo iniziare con la mera trascrizione delle impressioni e di piccoli ricordi, quasi degli spot, in presa diretta, sparsi, senza nessun continuum narrativo, volti solamente ad illustrare cose, persone, paesaggi, immagini, tutto ciò che i nostri occhi hanno visto e tutto quanto il nostro cuore ha percepito.

Per esempio:

“La prima cosa che ci colpisce appena approdati in terra russa: gli odori di strada (gasolio, catrame, olio bruciato .... ); le lapidi  ai lati delle strade, con le croci ortodosse ornate: chi di un volante, chi di una corona, chi delle foto delle vittime della strada, o un cerchione, e comunque sempre piene di fiori e qualcuna col lumino a batteria; le pubblicità per strada, con le donne more invece che bionde; i piccoli bus privati, chiamati maršrutki (che non sono altro che mini furgoni); i monumenti giganteschi, sia dei nomi delle città che relativi alla 2^ Guerra mondiale (qui chiamata Grande Guerra Patriottica); le facce delle persone, sempre col sorriso; se l’URSS non esiste più come entità geopolitica, sopravvive tutt’ora nella varietà delle fisionomie incontrate, dagli Europei ai Caucasici agli Asiatici, tutti accomunati dalla medesima lingua; la pulizia in generale delle città e delle strade, anche (quasi…) nelle piazzole di sosta dei camion; le izbe con le finestre decorate ad intaglio, i tetti in legno delle casette delle periferie rurali; le cupole a cipolla delle chiese, in legno o metallo; le targhe dei camion o dei furgoni, scritte anche in grande sui portelloni dietro, così da essere visibili anche quando la targa è completamente insudiciata da fanghiglia o neve; i posti di blocco della polizia, posti fissi ad ogni ingresso ed uscita dalle città, spesso deserti, ma in qualche caso con pattuglie di diversa consistenza; la sbalorditiva vastità dei fiumi e dei bacini fluviali; tantissima gente giovane, non siamo abituati a tanta gioventù scorrazzante! Le babuške ai lati delle strade, ogni izba ha la sua nonnina con fazzoletto in testa d’ordinanza che vende i prodotti dell'orto; la gente grosso modo tranquilla, non invadente, che non sembra divorata dalla fretta di vivere; in genere la gente è alta, uomini grossi come armadi oppure magri come acciughe; taluni dall’aspetto dimesso di un mužik, altri enigmatici e sfuggenti come spie in disarmo, oppure ragazzoni bellissimi stile Ivan Drago; donne alte, belle e flessuose come betulle, per lo più pallide e bionde, ma capaci di tramutarsi trasversalmente, dopo un paio di figli, da miss Universo a miss Trattorista… E più si prosegue verso Sud, si passa dalle valkirie alle bamboline… Gli sguardi della gente in generale, sinceri e diretti, interessati al prossimo. Il modo singolare di far benzina (si paga prima di far carburante), certe pompe assurde, veri reliquati staliniani, numerose qualità di benzina da noi sconosciute e dal costo quasi irrisorio; la maniera tutta particolare della polizia di trattare la multa… e poi si risolve tutto in grandi sorrisi e pacche sulle spalle, e magari qualche “souvenir” (additivo per benzina) da elargire… La guida "creativa" diffusa in tutto il paese, nonostante controlli severi; i tram, guidati dalle donne e che si fermano a dar precedenza alle auto! La gente che si stupisce quando scopre che non abbiamo l'antifurto sull'auto; quelli che ci danno per matti per essere venuti in auto fino a là; le strade, sempre dritte, mai una galleria, quasi mai una curva; sugli Urali il nastro d’asfalto segue dolcemente tutti i declivi per chilometri in un saliscendi continuo, come tante onde di terra; l'asfalto percorso da "canaloni" creati dai mezzi pesanti, causa la scarsa qualità del fondo stradale; i baracchini per camionisti e viaggiatori che offrono šašlik (spiedi di carne), pesce affumicato, rami di betulle per la banja (sauna), funghi, frutti di bosco... La diffusa curiosità e pazienza nel trattare con gli stranieri, i russi sono pronti al dialogo senza spazientirsi se il forestiero in questione non capisce quasi nulla dei loro discorsi; l'assoluta mancanza della fretta nel loro gestire quotidiano (ah, che meraviglia! Voglio vivere cosììì…..!). Posti di ristoro nel nulla della Siberia, aperti 24 su 24 gestiti da donne, senza alcun timore di rimanere da sole nel raggio di chilometri; la carne sempre buona e gustosa, il grande uso di smetana (panna acida) e salse di yogurt con aneto. Gli alberghi, con categorie che vanno dall’ “assurdo totale” al “tugurio fuori, lusso dentro” al “ce la mettiamo tutta per essere come in Occidente”, e le stelle sono un’optional assegnato a caso; i motel “vecchio soviet” categoria “ce la mettiamo tutta per non farci dimenticare” con tutte le aggravanti del caso (porte rattoppate, cessi in comune senza acqua corrente, ad esempio); le “dežurnaja”, cioè le signore responsabili del piano, con tanto di scrivania con telefono in corridoio, addette alla fornitura di asciugamani e carta igienica, modo soft per mascherare le ex spione di Stato; i talloncini per la colazione: senza il “talòn” niente colaziòn… Il clima estivo con parecchi sbalzi, il caldo torrido della steppa, ma di norma fresco e abbastanza secco, tranne a Mosca, preda di una tramontana polare, pioggia e 9 gradi di massima. I taxi pronti a portarti in giro per due soldi.  Zanzare: mai viste; qualche barbone, sopravvissuto al generale ripulisti voluto dal governo; i giovani che vanno in giro a fare shopping con la bottiglia di birra in mano: ipertecnologici, hanno tutto l'hi-tech ma vivono nei “blocchi” fatiscenti. La gente è curata, ben vestita, "normale". Gli estenuanti controlli alle dogane e la pila di documenti da compilare. L'apparente senso di generale benessere, le donne sempre coi tacchi, anche le poliziotte, e sempre tutte curate, attente all’estetica. Tanti cani e bastardi di lupo investiti lasciati ai margini delle strade a decomporsi,  dei quali nessuno sembra curarsi. I macchinari agricoli, enormi, adeguati alle dimensioni dei campi, che si estendono fino all'orizzonte; i macchinoni lussuosi, ovunque pubblicità del tipo "Serve una limousine? Tel al n ... " I baracchini di souvenir sugli Urali: dall'artigianato alla mercanzia cinese, ai materassini gonfiabili e canotti, e viene da sorridere per l’apparente incongruenza: materassini e canotti a 5.000 km dal mare più vicino, dimenticando che la Siberia è terra d’acqua! Baracchini che offrono anche armi ad aria compressa (davanti) e sicuramente armi vere (dietro agli espositori). La cura dei giardini e dei monumenti in genere, mentre i monumenti della Seconda guerra sono sempre tirati a lucido e perennemente  adornati di fiori e garofani lasciati dalle babuške, e usati dagli sposi come sfondi per l'album di nozze; i monumenti del passato regime, imponenti e suggestivi; l’autentica meraviglia architettonica dei cremlini di Kazan, Nižnij Novgorod e Mosca;  il significativo monumento a ricordo dei martiri delle purghe staliniane, vicino a Ekaterinburg, impensabile fino a qualche anno fa; oltre gli Urali, fare attenzione al pietrisco ovunque lungo le strade, perché c’è il rischio costante che faccia saltare un parabrezza (sperimentato di persona!). Le "signorine" lungo la strada, per lo più giovani o giovanissime, ma anche più mature (ne ricordiamo un paio, rotondette come matrjoske, bionde, gioviali e svolazzanti nei loro abiti a fiori, correrci incontro e poi salire dal camionista fermo a bordo strada... ). Diversi ubriachi di tutte le età, persi nel nulla delle interminabili statali. Tutti col cellulare munito di fotocamera, e persino i bambini per strada ci fotografano con compatte digitali ultra sottili... Giovani senza piercing e tatuaggi, qualche sparuto punk, gli unici tatuati sono i marinai e i militari. I negozi di bibite e liquori aperti 24 su 24, i supermercati moderni e forniti oramai come i nostri. Mega centri commerciali in continua costruzione. I pozzi di estrazione del gas sparsi nella steppa e vicino alle case. Dopo la steppa, noiosa e sempre uguale, ecco apparire i pini e i sorbi carichi di frutti rossi, poi abeti, pini e betulle,  ed infine, sovrane e altissime, solo le betulle, un muro bianco di tronchi ai lati delle strade, per chilometri e chilometri, a mo’ di linea di demarcazione tra diversi habitat, di là la steppa, qua le betulle e più su l’immensa taigà. Le paludi, onnipresenti dagli Urali e a perdita d'occhio man mano che si va verso Est. Improvvisate bancarelle che vendono coloratissime spugne e brusche per lavarsi la schiena... Le anomali dimensioni dei funghi venduti dai ragazzini a bordo strada, porcini e ovoli dalle dimensioni di un cavolo.  Il profondo e, da noi ormai un po’ sottotono, senso di spiritualità che pervade ogni chiesa, la grande suggestione dell’iconostasi, le messe interminabili e cantate dalle donne, i foulard per coprirsi il capo posti all'ingresso delle chiese; i pop’, tutti col barbone e tutti giovani. Nonostante i colori dominanti del paesaggio russo siano il verde ed il blu, le izbe, le cupole delle chiese e le cornici delle finestre sono verdi e blu. Parecchie dacie e izbe sono curatissime e rimesse a nuovo, col loro giardinetto pieno di fiori (davanti), l'orto (dietro) e l'immancabile staccionata col cane. Tante foto di Putin e Medvedev in vendita nelle vetrine e nei negozi dei fotografi e dipinti sulle matrjoske. E, imperturbabile, Lenin che campeggia indisturbato un po’ dappertutto. Brutti ceffi soltanto a Mosca, piazza Rossa e dintorni. Fare molta attenzione ai borseggiatori e ai delinquenti che seguono i turisti come un'ombra. Importante! Non abbiamo mai visto una fontanella pubblica lungo le statali né un rubinetto nelle stazioni di servizio. L'acqua non scarseggia, però ricordarsi di avere sempre una tanica con dell'acqua in auto. I semafori col timer anche per i pedoni, e un cartello con disegnato un paio di occhiali come a dire: “occhio!” al passaggio pedonale; tante auto col CB.

  Oppure con la trasposizione in forma scritta dell’impatto, quasi “fisico” che un viaggio simile ha avuto su noi due, ancora ignari del profondo sconvolgimento emotivo al quale saremmo andati incontro quasi in finale d’avventura…

Ferragosto: si parte carichi di entusiasmo in questa che sarà una grandissima avventura ma anche un salto verso l’ignoto. Viaggiamo in immense pianure e steppe, dalla puszta ungherese vocata ai girasoli poi, col primo cambio di fuso orario, scolliniamo i verdissimi e rinfrescanti Carpazi, prima barriera naturale che ci sorprende e ci rimane nel cuore, alla steppa cerealicola ucraina, per metà abbandonata (fronte occidentale) l’altra metà in piena attività agricola; l’immenso Paese che fu granaio d’Europa rivela già profonde faglie nel suo tessuto economico e sociale. La strada dal precario asfalto si srotola veloce sotto alle nostre ruote, ci lasciamo genti, paesi, etnie diverse alle nostre spalle e tutto ciò fa cumulo di ricordi ed esperienze, quasi a preparare il sedime sul quale poi edificare le fondamenta della “nostra” Russia, alla quale andiamo incontro fiduciosi e carichi di aspettative e, perché no, di timori. Avviciniamo la dogana: teorie di camion e tir, bisarche strapiene di residuati di carrozzerie dal design anni ’70 ma nuove fiammanti nel loro blu acceso di Lada modello Fiat 124, l’acquisto della polizza assicurativa per girare in Russia, e poi l’approccio, noi sorridenti e calmi, con i doganieri e funzionari russi. Il timore di fare qualcosa di sbagliato si stempera presto quando si sceglie di approcciarsi alla frontiera occidentale di questo Stato-Continente con pazienza, umiltà, curiosità insieme alla calma condita da sorrisi e facce ben disposte, (che poi sarà il migliore passe-partout) per vivere al meglio questa che, chilometro dopo chilometro, si rivelerà essere una terra ricchissima di emozioni e sensazioni da gustarsi metro per metro. Ci siamo solamente affacciati al margine del tuo cuore, Matuška Rossija, e ci hai già rapiti dentro. In 2 ore e mezza risolviamo le incombenze burocratiche, e già siamo al secondo cambio del fuso orario. La sconfinata terra russa, rimane tutt’ora lo Stato più grande del mondo, un universo “geocratico” suddiviso in 11 fusi orari (e che tra Regioni, Circoscrizioni, Repubbliche autonome, Territori e Città Federali, è composto da ben 83 soggetti amministrativi distinti e raggruppati in 8 distretti), ci accoglie con il suo traffico non caotico, le sue campagne curate, le dacie e le izbe da fiaba inframmezzate da vere e proprie catapecchie da villaggio zarista. Est, sempre verso est, 37° di temperatura esterna e asfalto liquido che inzacchera tutto; i primi alberghi, puliti ma senza acqua calda (manutenzione); la terra dei campi diventa nera, il famoso černozëm, suolo grasso ideale per gli sterminati campi di grano già arati. Declivi, pianure, pianure, declivi, tutto un rincorrersi nella fertilissima piana del Don che si estende con le sue placide anse a perdita d’occhio, ed il rimando corre inevitabile ai disastri della Seconda Guerra Mondiale, alla tragica ritirata dell’Armir… ci chiediamo come può un paesaggio così dolce e sacro all’Ortodossia aver permesso che i suoi fertili suoli venissero annegati dal sangue di una comune fede cristiana. Il caldo della steppa non perdona, il sole implacabile, l’aria è secca ma i 38° si fanno sentire. E’ un altro viaggiare in queste distanze che paiono infinite, un universo cirillico dove sui cartelloni pubblicitari ammiccano belle donne more, vera rarità nella patria delle bionde, femmine alte e slanciate come le betulle che fiancheggiano, vere muraglie, i bordi delle strade che si perdono all’orizzonte; Russia patria dei più grandi fiumi d’Europa, traghettatori di popoli e civiltà e l’incontro notturno con un ramo del Volga, a Samara, rende ancora più suggestivo leggerne il nome sui tabelloni posti ad inizio dei ponti; nell’oblast’ di Samara cambiamo il terzo fuso orario; e poi il Volga, enorme, infinito, che tutto abbraccia, matuška appunto, quale madre generatrice di tutti i fiumi, l’emozione di trovarsi sulle sue sponde è grande quanto il suo sterminato bacino; camminare come indigeni qualsiasi sulle sue sabbie tiepide e dorate, immergere le gambe nelle sue acque fresche ed incredibilmente trasparenti; sentirsi come sul set di “Oci ciornie” nel Volga Hotel tutto specchi, marmi, tappeti, kenzie e cristalli. Ci addentriamo ancora ad est, modernità che convive col passato più o meno recente; vestigia della patria del “Sol dell’Avvenire” fuse con internet point, Uaz scassatissime condividono l’asfalto con improbabili Hummer. Assieme ai chilometri maciniamo Regioni autonome, Repubbliche autonome, alla sorpresa dei luoghi sconosciuti si aggiunge la fascinazione dell’esotico, come il Baškortostan, il regno dei Baskiri, che ci accoglie con la sua trafficata capitale (Ufa), un alfabeto proprio (che per noi è ufo), una popolazione musulmana di etnia turca e bellissimi bimbi dai tratti anatolici, con gli occhi di brace e zucchetti lavorati ad uncinetto come copricapo, in divisa da studenti della madrasa, che ci salutano e ci fotografano felici dai semafori. Di emozione in emozione, si arriva all’estremo margine orientale di quel continente che di nome fa Europa e davanti a noi, superati i dolci pendii degli Urali meridionali, si spalanca a perdita d’occhio la distesa infinita di quel pianeta misterioso, sconosciuto ed epico chiamato Asia. Essere arrivati fin qua ed aver cambiato continente via terra ci riempie di gioia e di orgoglio, e farci una fotografia sotto al monumento che “certifica” il confine tra due continenti, un piede di qua e uno di là, è la nostra medaglia al valore. La ricchezza di queste terre si annuncia sulle bancarelle di souvenir, sotto forma di minerali colorati e luccicanti, gli Urali sono un paradiso per i geologi ed una festa per gli occhi di viaggiatori curiosi. Tra le tante chincaglierie più o meno “naturali”, l’occhio mi cade su di un anello bluastro, di smalto e metallo, luccicante di polvere micacea, recante un’iscrizione in cirillico che, sul momento, non comprendiamo alla lettera ma si intuisce essere una frase di buon augurio. Lo acquistiamo, ripromettendoci di tradurlo più tardi, e, al momento di infilarmelo alla mano destra, mi sembra di sposarmi con la Siberia… Ricordatevi, di questo anello. Perché è molto più prezioso di quello che vale…
Eccoci a noi, Asia: leggendario continente che ci accoglie con la più mitica e terribili delle terre emerse, quella “terra addormentata” chiamata Siberia, in essa ci immergiamo con discrezione; “Sibir”, ci accogli coi tuoi laghetti e specchi d’acqua che sembrano tanti occhi blu che ci osservano, ci scrutano, ci interrogano, e parimenti noi ci chiediamo se ne saremo degni di attraversarla, di capirla, di amarla. Ma quanti chilometri abbiamo percorso da quando siamo partiti da casa? Un rapido conteggio ne indica 4.100. E i fusi orari attraversati sono già 4! Sazi? Ma nemmeno per sogno. Stanchi? Macchè! La verità è che siamo inebriati, anzi, ubriachi di chilometri, che sembrano non bastarci mai e dalle alture di questa modesta barriera geografica denominata Urali meridionali, volgiamo lo sguardo sognante ad est, consci che, avendone la possibilità, solo il Mare di Ohotsk e l’Oceano Pacifico potranno troncare definitivamente la navigazione via terra... Un altro dei nostri sogni ad occhi aperti! Nel nostro peregrinare verso là dove nasce il sole, ci fermiamo a Čeljabinsk, capoluogo della Regione omonima e patria dei carri armati, e tanto per ribadire il concetto che “siamo in Asia” il simbolo della città è, giustamente, un cammello. Abbiamo già da parecchio scavalcato il quarto fuso orario! Ancora in viaggio, ci addentriamo nel Bassopiano siberiano occidentale, regno incontrastato delle betulle, viaggiamo, vediamo, respiriamo muraglie di betulle e sorbi carichi di frutti a perdita d’occhio, il traffico comincia a farsi scarso e realizziamo quanto lontani siamo da casa perché, camionisti a parte, siamo gli unici occidentali a passare per di qua… Respiriamo un’aria diversa, incontriamo tipi umani differenti: le facce sono europee, poi caucasiche; i lineamenti iniziano a farsi orientali; pelli candide ma anche leggermente olivastre; fisici robusti, enormi, imponenti sia uomini che donne, si vede che il freddo ingigantisce tutti, uomini ed animali. E poi c’è un qualcosa di particolare, di inspiegabile, di inafferrabile, ne percepiamo la presenza ma non sappiamo dargli un nome: qualcosa di mistico, di sovrannaturale, di spirituale, accentuato dai toponimi, come la città di Kurgan (i “kurgan” sono piccole montagnole di pietre simili a tumuli votivi, o tombe antiche), oppure accennato dai nastri multicolori appesi ai rami degli alberi come omaggio agli spiriti della foresta, dei laghi, dei fiumi, dei defunti, della Natura qui immensa e sovrana e di uno sciamanesimo che già si preannuncia in sordina; c’è qualcosa, qui, che galleggia sugli stagni assieme ai cigni selvatici, e la terra siberiana ce lo sta sussurrando dolcemente, come la brezza frusciante tra le betulle, in una lingua che per noi è ancora sconosciuta, ma che ci arriva dritto al cuore. Ormai siamo preda dell’incantesimo, e vorremmo non fermarci più. Le distanze da un luogo abitato all’altro sembrano infinite, e, stregati da tanta sterminata bellezza (la semplice bellezza del nulla, verrebbe da dire) proseguiamo ancora, la strada ci chiama, e non siamo solamente ubriachi di chilometri, ma di tutto quanto vediamo, respiriamo, assaporiamo coi 5 sensi e, ormai in preda a delirio da viaggio, ci spingiamo fino al confine col Kazakhstan (patria dei valorosi cosacchi) e tocchiamo il confine di Petuhovo. Nella splendida luce radente di fine estate, in un languido pomeriggio sibir-čekoviano, intravvediamo le prime teorie di TIR fermi alla dogana, e ci spunta una lacrimuccia; è la fine del viaggio d’andata, non ci resta che fare dietrofront per lasciarci l’immenso Est alle spalle; direzione Ovest, si torna verso Occidente, ma ancora, ancora, ancora, nella splendida e magica terra russa che ci sta stregando ogni ora di più e della quale sentiamo, umilmente, di farne già parte. Le città, dai nomi più o meno conosciuti e più o meno importanti nella storia, si susseguono, nastrate d’asfalto: Perm ed i suoi Gu.lag, Ekaterinburg (già Sverdlovsk) dove furono fucilati l’ultimo zar e la sua famiglia, poi la singolare Kungur, città mineraria annunciata da un palo con in cima un omino con gli attrezzi del minatore tra le mani, ed ancora Iževsk, capitale della Repubblica Autonoma degli Udmurti, di ceppo linguistico ugrofinnico, famosa più che altro per aver dato i natali ad un tal signor Kalašnikov, fino alla musulmana Kazan, magnifica capitale da 1000 e una notte di quel Tatarstan dove vegeta un Islam sunnita all’acqua di rose, e poi Nižnij Novgorod (ex Gor’kij) ed ancora più ad Occidente fino ad arrivare a Mosca, città che solo a nominarla evoca terrore e grandezza, struggimento e meraviglia, potenza e paura. Capitale di cemento ma pulitissima, funzionale, dalle strade immense e trafficatissime, con un “centro storico” da ombelico del mondo, e l’emozione di calpestare il pavè della Piazza Rossa facendo una giravolta a braccia spiegate è immensa, totalmente gratificante. Ed il coronamento di tutti i nostri sforzi si chiama San Basilio, che sembra davvero, come scrisse qualcuno, un cammello adagiato in terra con tutte le masserizie ancora sulle gobbe… Est ed Ovest si incontrano e si abbracciano a Mosca, Oriente ed Occidente fuse in questa Terra di Mezzo che fa un unicum a sé nell’universo mondo. Unicum che dal soprasuolo si trasborda nel sottosuolo, dove la metropolitana più bella del mondo ci stordisce con le sue stazioni monumentali, i lampadari in cristallo, le statue sovietiche, le sculture ed i bassorilievi, i soffitti affrescati ed i mosaici, la pulizia immacolata, l’efficienza e la puntualità dei convogli. Sono le 20 e tutto va bene, siamo felicissimi e ci godiamo l’aria frizzante che arriva da Nord, prime avvisaglie di un autunno che qui scalpita per farsi annunciare. 
E poi, il buio.
  Ore 22, in un self-service sulla pedonale via Arbat’. Per una tragica disattenzione, nel ristorante ci fregano uno zainetto. Che contiene il mio passaporto, cellulare, carte di credito, macchina fotografica con oltre 700 scatti del nostro viaggio… tutto, insomma.
Non descriverò lo shock del momento, nè della polizia poco collaborativa, né del trattamento al limite dello sprezzante ricevuto nella nostra ambasciata per il rilascio di un foglio di viaggio sostitutivo. Non menzionerò, sulla strada del ritorno verso casa, delle angoscianti otto ore perse in “terra di nessuno” tra Russia e Ucraina nel tentativo di convincere i doganieri ucraini della validità del mio foglio di viaggio, né del dramma del respingimento perché il foglio di viaggio (forse per vizio di traduzione) non viene accettato per il transito in auto, ma solo in aereo… Non accennerò dell’inesistente assistenza degli uffici della Farnesina, contattati via telefono, il cui risultato della nostra richiesta di aiuto è “arrangiatevi”. Non parlerò dell’estenuante trattativa coi doganieri russi e dell’espediente trovato da un funzionario all’altro capo del telefono della dogana che mi ordina di rientrare a Kursk in un taxi chiamato dal doganiere Mikhail. Non mi dilungherò sul lungo, penoso, abbraccio e l’incognita negli sguardi che Max ed io ci siamo scambiati prima di lasciarci e di infilarmi in quello che non era un taxi ma l’auto di sconosciuti. Non racconterò del mio viaggio di ritorno in solitaria per 100 km dal confine ucraino fino a Kursk nell’auto privata di amici del doganiere russo – Marina e Dmitri – col timore costante che potesse capitarmi qualcosa e finire la mia avventura su “Chi l’ha visto?”; non descriverò il tragitto via treno (Kursk-Mosca), via aereo (Mosca-Milano, mai volato in vita mia!), nuovamente via treno (Milano-Trieste) mentre Max e gli altri proseguivano regolarmente via terra; del viaggiare di Max per migliaia di km verso casa con un’angoscia costante e con pochissimi spiccioli in tasca. Non dirò della scarsa, per non dire nulla, assistenza in una Malpensa notturna completamente deserta, della polizia ciondolante che si rifiuta di darmi una mano per aiutarmi a rintracciare degli sconosciuti amici del nostro compagno di viaggio che mi stavano ad aspettare allo sbarco, ma da tutt’un’altra parte; dei telefoni pubblici che funzionano solo a scheda telefonica e non la trovi in vendita da nessuna parte perché dopo mezzanotte è tutto chiuso; della sporcizia ed il degrado ovunque in stazione centrale a Milano; dell’impossibilità di ricaricare il cellulare gratuitamente in stazione, solo a pagamento (mi sono rimaste quattro lire contate, dopo aver speso una botta di biglietto aereo Alitalia, coi musi lunghi a bordo perché stavano fallendo); dell’impossibilità di ricaricare il cellulare sul treno FS perché non ci sono le prese (sui treni russi sì, si può, ed è gratuito), dei treni sporchi (quelli russi, pur residuati sovietici, sono pulitissimi, anche se ho viaggiato in platskartny vagon, cioè terza classe); del fatto che in Italia non funziona niente; della voglia irresistibile di fare dietrofront, saltare sul primo aereo per Mosca e rimanere a vivere là.

  Non lo racconterò perché, anche se fa parte del viaggio, non sarà questa spiacevolissima disavventura fortunatamente finita bene a farci scemare la voglia di tornare in Russia, ancora, ancora e ancora. Come non aggiungeremo il trascurabilissimo fatto che, già dal nostro ingresso in Ucraina, e per tutta la Russia, il Frontera ha cominciato a dar problemi (condizionatore subito fuori uso, problema alla bobina con conseguente funzionamento a tre candele su quattro, sfilamento del tubo della mandata della benzina alla pompa, rottura di un manicotto del radiatore, scheggiatura del parabrezza e, giusto per non farci mancare nulla, causa vibrazioni continue della strada, perdita della plastica di un faro) e ci siamo trovati a proseguire per tutto il viaggio con un’auto zoppicante ma che eroicamente ha resistito oltre 10.500 km andata e ritorno…

***

Questi di cui sopra, da noi fedelmente riportati, sono brevi flash che fotografano la realtà di un Paese che per 70 anni si è sottratto al resto del mondo per edificare una società alternativa all’Occidente, e che ora si sta riappropriando delle proprie profonde radici per ricostruirsi una personalissima sfera di civiltà; potranno essere ricordi positivi o negativi, magari truci, o minimi, o apparentemente di scarsa importanza, o drammatici ed angoscianti; magari sono proprio questi ricordi a farci amare, nel bene come nel male,  questa splendida, eterna, sconfinata terra che si distende dal Baltico al Pacifico; sicuramente è la fascinazione per un luogo che non è Oriente né Occidente ma una sostanziosa fetta di pianeta che coniuga gli aspetti dell’una e dell’altra parte, fondendoli assieme per darne una propria, assolutamente originale interpretazione, e tutto questo è riassumibile in una sola parola: Russia. L’incantesimo ha avuto origine così, e un seducente maleficio ci ha riportati tra le sue braccia nel 2012, a San Pietroburgo: d’inverno, poi, il più duro da oltre vent’anni; e, per la terza volta, nel 2016, ancora d’inverno. Vorrà pur dir qualcosa…
Ah, stavamo per dimenticarcene: l’anello degli Urali, fedele e da quella volta ormai inseparabile compagno di tutti i nostri viaggi. La scritta in cirillico diceva: спаси и сохрани мя (spasi i sohrani mja): “Salvami e proteggimi”. Mai souvenir fu più azzeccato…

Salvaci e proteggici, ljubimoij matuška Rossija, che hai scrutato nei nostri cuori di liberi viaggiatori e qualcosa ci devi pur aver trovato dentro se, dal 2008, noi, ormai, siamo tuoi…

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