Analisi di una passione
Si può descrivere una passione? Si può razionalmente
stenderla così, nero su bianco, come una lista della spesa, come un contratto,
un avviso di sfratto? Probabilmente sì, anzi, sicuramente sì, la letteratura è
piena di passioni redatte in Bodoni corpo 10, per non parlare della letteratura
di viaggio; innumerevoli resoconti non sono altro che pura e struggente
passione messa su carta; Chatwin, Kapuscinksy, Maraini, Terzani…
Allora,
umilmente, ci proviamo anche noi, nel nostro piccolo, anzi, piccolissimo, a
tentare di mettere “nero su bianco” quella che è la nostra personale passione
per la Russia, che già traspariva dai precedenti racconti di viaggio vergati
per questo blog.
Ancora,
razionalmente, cerchiamo di spiegare da dove
nasce questa passione, le cui origini si perdono nei primi anni ’70 (per Laura)
e dal 2007 (per Max). E, chissà, magari riusciremo a dare risposta a quelle
persone che, nel corso degli anni, ci hanno chiesto “Ma perché proprio la
Russia?”. Ecco, chissà, forse, ma solo
forse, mettendo queste righe “nero su bianco” riusciremo a rispondere anche a
noi stessi.
PER MAX, LA RUSSIA COME COLPO DI FULMINE
“Sono nato a
Trieste, in una famiglia operaia nella prima metà degli anni ’60, quando le
frontiere con la Jugoslavia cominciavano ad aprirsi al traffico frontaliero e
gli sguardi d’ambo le parti da arcigni si facevano più distesi; nel pieno del
boom economico e del benessere che portò la tv in bianco e nero davanti agli
occhi curiosi di un bambino biondo cenere che si entusiasmava al cospetto dei
western, dei caroselli, della Coca-Cola e di tutto ciò che veniva da oltre
Oceano; l’approdo nel mondo scolastico, le prime amicizie, le prime compagnie,
sempre nel solco della lingua, musica, cinema e tendenze anglo-statunitensi che
quotidianamente invadevano la vita di quegli anni; di URSS, di Russia, di
quell’altro mondo, semplicemente, non si parlava. Non esisteva. Nonostante
avessi dei parenti rimasti in Istria, il mondo istro-slavo era un universo
totalmente sconosciuto e, al di là della città di Pola… laggiù, all’orizzonte
orientale, quelle kraijne semplicemente erano … “hic sunt leones”. La maturità,
e dei lontani parenti emigrati nella canadese ed anglofona Vancouver, mi
portarono al mio primo viaggio in solitaria ed al mio primo volo transoceanico,
in quella che io consideravo “l’America”; 28 giorni nei quali mi sono
abbeverato di modernità, spazi immensi, profondissimo senso civico, e la
consapevolezza che, se ci avessi rimesso nuovamente piede, ci sarei rimasto
definitivamente a vivere. Poi, nemmeno due mesi dopo dal mio ritorno a Trieste,
l’incontro con quella che sarebbe diventata la donna della mia vita. Avevo
ancora negli occhi la bellezza dei giardini e della natura della British
Columbia, e con le fotografie ed i ricordi di quel paradiso cercai di
impressionare quella ragazza, segretamente sperando in un futuro assieme, speso
a guardare le orche solcare le fredde acque del Pacifico canadese. Però, mentre
io sognavo le Giubbe Rosse, nei suo occhi vedevo invece… le Guardie Rosse. I
primi viaggi assieme, oltre confine, quando la Jugoslavia stava drammaticamente
implodendo, e poi in quello che era stato il glorioso impero austroungarico,
lentamente diluirono la mia infatuazione per “l’America”; fu come ridestarsi da
un limbo, quando cominciai a prendere coscienza che c’è anche un altro mondo,
ad Est, tutto da scoprire. Coscienza che pian piano si è costruita fino a quel
fatidico gennaio 2007.”
PER LAURA, LA RUSSIA COME DESTINO
“Sono nata nei
primi anni ’70, famiglia operaia, in una Trieste affacciata sul mosaico
jugoslavo mentre, migliaia di km più ad Est, incombeva un impero, immobile
nella sua “stagnazione brežneviana”; in famiglia, lo sguardo spaziava sia ad
Ovest sia, e forse soprattutto, ad Est, verso quel “Sol dell’avvenire”; in
questo clima, tra un concerto di Rimsky-Korsakov, un coro dell’Armata Rossa e
una Dori Ghezzi che cantava ad ugola spiegata “Kazačok”, sono arrivata io. “La
voce del sangue”, la chiamano: evidentemente, migliaia di geni di individui e
genti diverse che si sono avvicendate in queste marche di frontiera, devono
aver lasciato il segno anche nel profondo sentire di una bambinetta che a fine
anni ’70 si affacciava alle scuole elementari: e sebbene avessi tre sorelle
maggiori rapite dall’anglofilia e per tutto ciò che era occidentale, io, da
bastian contrario, crescevo con la curiosità per quello che stava “dall’altra
parte”; nonostante il profondo ostracismo verso l’URSS e l’Est Europa in genere
che balzava dai libri scolastici e dall’informazione nazionale, io sentivo di
essere in qualche maniera attratta dall’orso russo, e non mi perdevo una
sillaba di quello che ci raccontavano da Mosca i corrispondenti RAI Volčič e
Canciani; con l’arrivo di Gorbačëv, l’interesse si stava tramutando in
crescente curiosità; dopo la caduta del Muro, la crescente curiosità in
consapevolezza e la decisione di iscrivermi ad un corso di lingua russa; ma
l’arrivo quasi in contemporanea del lavoro a tempo indeterminato prima, e
l’incontro con l’uomo della mia vita poi, mi fecero accantonare il corso di
russo per dedicarmi alla costruzione di un futuro insieme. Fino a quel fatale
gennaio 2007.”
GENNAIO 2007
E’ cominciato
tutto da qua: un buio e pigro pomeriggio di gennaio, mese dedicato alla
pianificazione delle usuali ferie estive; il gatto ronfante in giro, io a
leggere sul divano, Max assorto davanti al computer, in cerca di possibili
nuoti itinerari e poi, tutto ad un tratto, la sua sparata: “E se andassimo in
Russia?”. Confesso, dopo l’usuale alzata di sopracciglio e la soppressione
forzata di numerosi punti interrogativi campeggianti sulla mia testa, di non
aver capito, sul momento, le reali intenzioni del consorte-pilota. “In
macchina?!?” replicai incredula. “Ovvio…” fu l’ovvia risposta. Il mio attimo di
smarrimento lo superai in un istante perché nei suoi occhi lessi una
determinazione inequivocabile, alla quale non si poteva altro che rispondere
“Allora andiamo!”. La Russia, che fino a questo momento era un’entità che
“stava là”, ora d’un tratto si materializza e smette d’essere solamente una
macchia colorata che dilaga sulla doppia pagina di un atlante, ma prende corpo
e sostanza.
Si dice che il
viaggio inizia al momento della sua pianificazione. Ebbene, il nostro primo
viaggio in Russia è durato un anno e mezzo… Un anno e mezzo di metodica
organizzazione, di colloqui con chi c’era già stato, di week-end spesi su
internet alla ricerca di notizie ed informazioni, di gratificanti incontri di
persona (Adalberto) e via web (Italo), la messa a punto del nostro glorioso
Opel Frontera (rivoltato come un calzino), fotocopie di alfabeto cirillico
sparse in punti strategici della casa per essere sempre sotto gli occhi, e poi
la ricerca di compagni di viaggio per far numero… e darsi coraggio in caso di
necessità; la pubblicazione del nostro itinerario sul forum fuoristrada e sulla
rivista “Tutto Fuoristrada” luglio-agosto 2008, l’incontro con la coppia di
uomini (Luca e Toni) che avrebbe partecipato a questa avventura, tutto ciò ci
faceva crescere l’entusiasmo.
Non avremmo mai
creduto, noi così mitteleuropei, poco inclini a romanticismi e passioni
mediterranee, razionali (Max), teutonici (Laura), precisi… di trovarci rapiti,
anima, corpo e cuore da un Paese, il più grande del mondo, sempre in bilico tra
un passato travagliato ed un futuro precariamente stabile, ostaggio di mille
contraddizioni, dove regole e puntualità non sembravano essere di casa; mai
avremmo pensato, nonostante quello che ci è capitato in finale d’avventura, che
non ce lo saremmo più tolti dalla testa e dal cuore. Abbiamo contratto il mal
di Russia, e preghiamo che nessuno trovi mai un vaccino per questo.
Da dove
cominciare, dunque, per dare un senso compiuto a questa nostra bruciante
passione? Potremmo iniziare con la mera trascrizione delle impressioni e di piccoli
ricordi, quasi degli spot, in presa
diretta, sparsi, senza nessun continuum narrativo, volti solamente ad
illustrare cose, persone, paesaggi, immagini, tutto ciò che i nostri occhi
hanno visto e tutto quanto il nostro cuore ha percepito.
Per esempio:
“La prima cosa che ci colpisce appena
approdati in terra russa: gli odori di strada (gasolio, catrame, olio bruciato
.... ); le lapidi ai lati delle strade,
con le croci ortodosse ornate: chi di un volante, chi di una corona, chi delle
foto delle vittime della strada, o un cerchione, e comunque sempre piene di
fiori e qualcuna col lumino a batteria; le pubblicità per strada, con le donne
more invece che bionde; i piccoli bus privati, chiamati maršrutki (che non sono
altro che mini furgoni); i monumenti giganteschi, sia dei nomi delle città che
relativi alla 2^ Guerra mondiale (qui chiamata Grande Guerra Patriottica); le
facce delle persone, sempre col sorriso; se l’URSS non esiste più come entità
geopolitica, sopravvive tutt’ora nella varietà delle fisionomie incontrate,
dagli Europei ai Caucasici agli Asiatici, tutti accomunati dalla medesima
lingua; la pulizia in generale delle città e delle strade, anche (quasi…) nelle
piazzole di sosta dei camion; le izbe con le finestre decorate ad intaglio, i
tetti in legno delle casette delle periferie rurali; le cupole a cipolla delle
chiese, in legno o metallo; le targhe dei camion o dei furgoni, scritte anche
in grande sui portelloni dietro, così da essere visibili anche quando la targa
è completamente insudiciata da fanghiglia o neve; i posti di blocco della
polizia, posti fissi ad ogni ingresso ed uscita dalle città, spesso deserti, ma
in qualche caso con pattuglie di diversa consistenza; la sbalorditiva vastità
dei fiumi e dei bacini fluviali; tantissima gente giovane, non siamo abituati a
tanta gioventù scorrazzante! Le babuške ai lati delle strade, ogni izba ha la
sua nonnina con fazzoletto in testa d’ordinanza che vende i prodotti dell'orto;
la gente grosso modo tranquilla, non invadente, che non sembra divorata dalla
fretta di vivere; in genere la gente è alta, uomini grossi come armadi oppure
magri come acciughe; taluni dall’aspetto dimesso di un mužik, altri enigmatici
e sfuggenti come spie in disarmo, oppure ragazzoni bellissimi stile Ivan Drago;
donne alte, belle e flessuose come betulle, per lo più pallide e bionde, ma
capaci di tramutarsi trasversalmente, dopo un paio di figli, da miss Universo a
miss Trattorista… E più si prosegue verso Sud, si passa dalle valkirie alle
bamboline… Gli sguardi della gente in generale, sinceri e diretti, interessati
al prossimo. Il modo singolare di far benzina (si paga prima di far
carburante), certe pompe assurde, veri reliquati staliniani, numerose qualità
di benzina da noi sconosciute e dal costo quasi irrisorio; la maniera tutta
particolare della polizia di trattare la multa… e poi si risolve tutto in
grandi sorrisi e pacche sulle spalle, e magari qualche “souvenir” (additivo per
benzina) da elargire… La guida "creativa" diffusa in tutto il paese,
nonostante controlli severi; i tram, guidati dalle donne e che si fermano a dar
precedenza alle auto! La gente che si stupisce quando scopre che non abbiamo
l'antifurto sull'auto; quelli che ci danno per matti per essere venuti in auto
fino a là; le strade, sempre dritte, mai una galleria, quasi mai una curva;
sugli Urali il nastro d’asfalto segue dolcemente tutti i declivi per chilometri
in un saliscendi continuo, come tante onde di terra; l'asfalto percorso da
"canaloni" creati dai mezzi pesanti, causa la scarsa qualità del fondo
stradale; i baracchini per camionisti e viaggiatori che offrono šašlik (spiedi
di carne), pesce affumicato, rami di betulle per la banja (sauna), funghi,
frutti di bosco... La diffusa curiosità e pazienza nel trattare con gli
stranieri, i russi sono pronti al dialogo senza spazientirsi se il forestiero
in questione non capisce quasi nulla dei loro discorsi; l'assoluta mancanza
della fretta nel loro gestire quotidiano (ah, che meraviglia! Voglio vivere
cosììì…..!). Posti di ristoro nel nulla della Siberia, aperti 24 su 24 gestiti
da donne, senza alcun timore di rimanere da sole nel raggio di chilometri; la
carne sempre buona e gustosa, il grande uso di smetana (panna acida) e salse di
yogurt con aneto. Gli alberghi, con categorie che vanno dall’ “assurdo totale”
al “tugurio fuori, lusso dentro” al “ce la mettiamo tutta per essere come in
Occidente”, e le stelle sono un’optional assegnato a caso; i motel “vecchio
soviet” categoria “ce la mettiamo tutta per non farci dimenticare” con tutte le
aggravanti del caso (porte rattoppate, cessi in comune senza acqua corrente, ad
esempio); le “dežurnaja”, cioè le signore responsabili del piano, con tanto di
scrivania con telefono in corridoio, addette alla fornitura di asciugamani e
carta igienica, modo soft per mascherare le ex spione di Stato; i talloncini
per la colazione: senza il “talòn” niente colaziòn… Il clima estivo con
parecchi sbalzi, il caldo torrido della steppa, ma di norma fresco e abbastanza
secco, tranne a Mosca, preda di una tramontana polare, pioggia e 9 gradi di
massima. I taxi pronti a portarti in giro per due soldi. Zanzare: mai viste; qualche barbone,
sopravvissuto al generale ripulisti voluto dal governo; i giovani che vanno in
giro a fare shopping con la bottiglia di birra in mano: ipertecnologici, hanno
tutto l'hi-tech ma vivono nei “blocchi” fatiscenti. La gente è curata, ben
vestita, "normale". Gli estenuanti controlli alle dogane e la pila di
documenti da compilare. L'apparente senso di generale benessere, le donne
sempre coi tacchi, anche le poliziotte, e sempre tutte curate, attente
all’estetica. Tanti cani e
bastardi di lupo investiti lasciati ai margini delle strade a decomporsi, dei quali nessuno sembra curarsi. I
macchinari agricoli, enormi, adeguati alle dimensioni dei campi, che si
estendono fino all'orizzonte; i macchinoni lussuosi, ovunque pubblicità del
tipo "Serve una limousine? Tel al n ... " I baracchini di souvenir
sugli Urali: dall'artigianato alla mercanzia cinese, ai materassini gonfiabili
e canotti, e viene da sorridere per l’apparente incongruenza: materassini e
canotti a 5.000 km dal mare più vicino, dimenticando che la Siberia è terra
d’acqua! Baracchini che offrono anche armi ad aria compressa (davanti) e
sicuramente armi vere (dietro agli espositori). La cura dei giardini e dei
monumenti in genere, mentre i monumenti della Seconda guerra sono sempre tirati
a lucido e perennemente adornati di
fiori e garofani lasciati dalle babuške, e usati dagli sposi come sfondi per
l'album di nozze; i monumenti del passato regime, imponenti e suggestivi;
l’autentica meraviglia architettonica dei cremlini di Kazan, Nižnij Novgorod e
Mosca; il significativo monumento a
ricordo dei martiri delle purghe staliniane, vicino a Ekaterinburg, impensabile
fino a qualche anno fa; oltre gli Urali, fare attenzione al pietrisco ovunque
lungo le strade, perché c’è il rischio costante che faccia saltare un
parabrezza (sperimentato di persona!). Le "signorine" lungo la
strada, per lo più giovani o giovanissime, ma anche più mature (ne ricordiamo
un paio, rotondette come matrjoske, bionde, gioviali e svolazzanti nei loro abiti
a fiori, correrci incontro e poi salire dal camionista fermo a bordo strada...
). Diversi ubriachi di tutte le età, persi nel nulla delle interminabili
statali. Tutti col cellulare munito di fotocamera, e persino i bambini per
strada ci fotografano con compatte digitali ultra sottili... Giovani senza
piercing e tatuaggi, qualche sparuto punk, gli unici tatuati sono i marinai e i
militari. I negozi di bibite e liquori aperti 24 su 24, i supermercati moderni
e forniti oramai come i nostri. Mega centri commerciali in continua
costruzione. I pozzi di estrazione del gas sparsi nella steppa e vicino alle
case. Dopo la steppa, noiosa e sempre uguale, ecco apparire i pini e i sorbi
carichi di frutti rossi, poi abeti, pini e betulle, ed infine, sovrane e altissime, solo le
betulle, un muro bianco di tronchi ai lati delle strade, per chilometri e
chilometri, a mo’ di linea di demarcazione tra diversi habitat, di là la
steppa, qua le betulle e più su l’immensa taigà. Le paludi, onnipresenti dagli
Urali e a perdita d'occhio man mano che si va verso Est. Improvvisate
bancarelle che vendono coloratissime spugne e brusche per lavarsi la schiena...
Le anomali dimensioni dei funghi venduti dai ragazzini a bordo strada, porcini
e ovoli dalle dimensioni di un cavolo.
Il profondo e, da noi ormai un po’ sottotono, senso di spiritualità che
pervade ogni chiesa, la grande suggestione dell’iconostasi, le messe
interminabili e cantate dalle donne, i foulard per coprirsi il capo posti
all'ingresso delle chiese; i pop’, tutti col barbone e tutti giovani.
Nonostante i colori dominanti del paesaggio russo siano il verde ed il blu, le
izbe, le cupole delle chiese e le cornici delle finestre sono verdi e blu.
Parecchie dacie e izbe sono curatissime e rimesse a nuovo, col loro giardinetto
pieno di fiori (davanti), l'orto (dietro) e l'immancabile staccionata col cane.
Tante foto di Putin e Medvedev in vendita nelle vetrine e nei negozi dei
fotografi e dipinti sulle matrjoske. E, imperturbabile, Lenin che campeggia
indisturbato un po’ dappertutto. Brutti ceffi soltanto a Mosca, piazza Rossa e
dintorni. Fare molta attenzione ai borseggiatori e ai delinquenti che seguono i
turisti come un'ombra. Importante! Non abbiamo mai visto una fontanella
pubblica lungo le statali né un rubinetto nelle stazioni di servizio. L'acqua
non scarseggia, però ricordarsi di avere sempre una tanica con dell'acqua in
auto. I semafori col timer anche per i pedoni, e un cartello con disegnato un
paio di occhiali come a dire: “occhio!” al passaggio pedonale; tante auto col
CB.”
Oppure con la
trasposizione in forma scritta dell’impatto, quasi “fisico” che un viaggio
simile ha avuto su noi due, ancora ignari del profondo sconvolgimento emotivo
al quale saremmo andati incontro quasi in finale d’avventura…
“Ferragosto: si
parte carichi di entusiasmo in questa che sarà una grandissima avventura ma
anche un salto verso l’ignoto. Viaggiamo in immense pianure e steppe, dalla
puszta ungherese vocata ai girasoli poi, col primo cambio di fuso orario,
scolliniamo i verdissimi e rinfrescanti Carpazi, prima barriera naturale che ci
sorprende e ci rimane nel cuore, alla steppa cerealicola ucraina, per metà
abbandonata (fronte occidentale) l’altra metà in piena attività agricola;
l’immenso Paese che fu granaio d’Europa rivela già profonde faglie nel suo
tessuto economico e sociale. La strada dal precario asfalto si srotola veloce
sotto alle nostre ruote, ci lasciamo genti, paesi, etnie diverse alle nostre
spalle e tutto ciò fa cumulo di ricordi ed esperienze, quasi a preparare il sedime
sul quale poi edificare le fondamenta della “nostra” Russia, alla quale andiamo
incontro fiduciosi e carichi di aspettative e, perché no, di timori.
Avviciniamo la dogana: teorie di camion e tir, bisarche strapiene di residuati
di carrozzerie dal design anni ’70 ma nuove fiammanti nel loro blu acceso di
Lada modello Fiat 124, l’acquisto della polizza assicurativa per girare in
Russia, e poi l’approccio, noi sorridenti e calmi, con i doganieri e funzionari
russi. Il timore di fare qualcosa di sbagliato si stempera presto quando si
sceglie di approcciarsi alla frontiera occidentale di questo Stato-Continente
con pazienza, umiltà, curiosità insieme alla calma condita da sorrisi e facce
ben disposte, (che poi sarà il migliore passe-partout) per vivere al meglio
questa che, chilometro dopo chilometro, si rivelerà essere una terra
ricchissima di emozioni e sensazioni da gustarsi metro per metro. Ci siamo
solamente affacciati al margine del tuo cuore, Matuška Rossija, e ci hai già
rapiti dentro. In 2 ore e mezza risolviamo le incombenze burocratiche, e già
siamo al secondo cambio del fuso orario. La sconfinata terra russa, rimane
tutt’ora lo Stato più grande del mondo, un universo “geocratico” suddiviso in
11 fusi orari (e che tra Regioni, Circoscrizioni, Repubbliche autonome,
Territori e Città Federali, è composto da ben 83 soggetti amministrativi
distinti e raggruppati in 8 distretti), ci accoglie con il suo traffico non
caotico, le sue campagne curate, le dacie e le izbe da fiaba inframmezzate da
vere e proprie catapecchie da villaggio zarista. Est, sempre verso est, 37° di
temperatura esterna e asfalto liquido che inzacchera tutto; i primi alberghi,
puliti ma senza acqua calda (manutenzione); la terra dei campi diventa nera, il
famoso černozëm, suolo grasso ideale per gli sterminati campi di grano già
arati. Declivi, pianure, pianure, declivi, tutto un rincorrersi nella
fertilissima piana del Don che si estende con le sue placide anse a perdita
d’occhio, ed il rimando corre inevitabile ai disastri della Seconda Guerra
Mondiale, alla tragica ritirata dell’Armir… ci chiediamo come può un paesaggio
così dolce e sacro all’Ortodossia aver permesso che i suoi fertili suoli venissero
annegati dal sangue di una comune fede cristiana. Il caldo della steppa non
perdona, il sole implacabile, l’aria è secca ma i 38° si fanno sentire. E’ un
altro viaggiare in queste distanze che paiono infinite, un universo cirillico
dove sui cartelloni pubblicitari ammiccano belle donne more, vera rarità nella
patria delle bionde, femmine alte e slanciate come le betulle che
fiancheggiano, vere muraglie, i bordi delle strade che si perdono
all’orizzonte; Russia patria dei più grandi fiumi d’Europa, traghettatori di
popoli e civiltà e l’incontro notturno con un ramo del Volga, a Samara, rende
ancora più suggestivo leggerne il nome sui tabelloni posti ad inizio dei ponti;
nell’oblast’ di Samara cambiamo il terzo fuso orario; e poi il Volga, enorme,
infinito, che tutto abbraccia, matuška appunto, quale madre generatrice di
tutti i fiumi, l’emozione di trovarsi sulle sue sponde è grande quanto il suo
sterminato bacino; camminare come indigeni qualsiasi sulle sue sabbie tiepide e
dorate, immergere le gambe nelle sue acque fresche ed incredibilmente
trasparenti; sentirsi come sul set di “Oci ciornie” nel Volga Hotel tutto
specchi, marmi, tappeti, kenzie e cristalli. Ci addentriamo ancora ad est,
modernità che convive col passato più o meno recente; vestigia della patria del
“Sol dell’Avvenire” fuse con internet point, Uaz scassatissime condividono
l’asfalto con improbabili Hummer. Assieme ai chilometri maciniamo Regioni
autonome, Repubbliche autonome, alla sorpresa dei luoghi sconosciuti si
aggiunge la fascinazione dell’esotico, come il Baškortostan, il regno dei
Baskiri, che ci accoglie con la sua trafficata capitale (Ufa), un alfabeto
proprio (che per noi è ufo), una popolazione musulmana di etnia turca e
bellissimi bimbi dai tratti anatolici, con gli occhi di brace e zucchetti
lavorati ad uncinetto come copricapo, in divisa da studenti della madrasa, che
ci salutano e ci fotografano felici dai semafori. Di emozione in emozione, si
arriva all’estremo margine orientale di quel continente che di nome fa Europa e
davanti a noi, superati i dolci pendii degli Urali meridionali, si spalanca a
perdita d’occhio la distesa infinita di quel pianeta misterioso, sconosciuto ed
epico chiamato Asia. Essere arrivati fin qua ed aver cambiato continente via
terra ci riempie di gioia e di orgoglio, e farci una fotografia sotto al
monumento che “certifica” il confine tra due continenti, un piede di qua e uno
di là, è la nostra medaglia al valore. La ricchezza di queste terre si annuncia
sulle bancarelle di souvenir, sotto forma di minerali colorati e luccicanti,
gli Urali sono un paradiso per i geologi ed una festa per gli occhi di
viaggiatori curiosi. Tra le tante chincaglierie più o meno “naturali”, l’occhio
mi cade su di un anello bluastro, di smalto e metallo, luccicante di polvere micacea,
recante un’iscrizione in cirillico che, sul momento, non comprendiamo alla
lettera ma si intuisce essere una frase di buon augurio. Lo acquistiamo,
ripromettendoci di tradurlo più tardi, e, al momento di infilarmelo alla mano
destra, mi sembra di sposarmi con la Siberia… Ricordatevi, di questo anello.
Perché è molto più prezioso di quello che vale…
Eccoci a noi, Asia: leggendario
continente che ci accoglie con la più mitica e terribili delle terre emerse,
quella “terra addormentata” chiamata Siberia, in essa ci immergiamo con
discrezione; “Sibir”, ci accogli coi tuoi laghetti e specchi d’acqua che
sembrano tanti occhi blu che ci osservano, ci scrutano, ci interrogano, e
parimenti noi ci chiediamo se ne saremo degni di attraversarla, di capirla, di amarla.
Ma quanti chilometri abbiamo percorso da quando siamo partiti da casa? Un
rapido conteggio ne indica 4.100. E i fusi orari attraversati sono già 4! Sazi?
Ma nemmeno per sogno. Stanchi? Macchè! La verità è che siamo inebriati, anzi,
ubriachi di chilometri, che sembrano non bastarci mai e dalle alture di questa
modesta barriera geografica denominata Urali meridionali, volgiamo lo sguardo
sognante ad est, consci che, avendone la possibilità, solo il Mare di Ohotsk e
l’Oceano Pacifico potranno troncare definitivamente la navigazione via terra...
Un altro dei nostri sogni ad occhi aperti! Nel nostro peregrinare verso là dove
nasce il sole, ci fermiamo a Čeljabinsk, capoluogo della Regione omonima e
patria dei carri armati, e tanto per ribadire il concetto che “siamo in Asia”
il simbolo della città è, giustamente, un cammello. Abbiamo già da parecchio
scavalcato il quarto fuso orario! Ancora in viaggio, ci addentriamo nel
Bassopiano siberiano occidentale, regno incontrastato delle betulle, viaggiamo,
vediamo, respiriamo muraglie di betulle e sorbi carichi di frutti a perdita
d’occhio, il traffico comincia a farsi scarso e realizziamo quanto lontani siamo
da casa perché, camionisti a parte, siamo gli unici occidentali a passare per
di qua… Respiriamo un’aria diversa, incontriamo tipi umani differenti: le facce
sono europee, poi caucasiche; i lineamenti iniziano a farsi orientali; pelli
candide ma anche leggermente olivastre; fisici robusti, enormi, imponenti sia
uomini che donne, si vede che il freddo ingigantisce tutti, uomini ed animali.
E poi c’è un qualcosa di particolare, di inspiegabile, di inafferrabile, ne
percepiamo la presenza ma non sappiamo dargli un nome: qualcosa di mistico, di
sovrannaturale, di spirituale, accentuato dai toponimi, come la città di Kurgan
(i “kurgan” sono piccole montagnole di pietre simili a tumuli votivi, o tombe
antiche), oppure accennato dai nastri multicolori appesi ai rami degli alberi
come omaggio agli spiriti della foresta, dei laghi, dei fiumi, dei defunti,
della Natura qui immensa e sovrana e di uno sciamanesimo che già si preannuncia
in sordina; c’è qualcosa, qui, che galleggia sugli stagni assieme ai cigni selvatici,
e la terra siberiana ce lo sta sussurrando dolcemente, come la brezza
frusciante tra le betulle, in una lingua che per noi è ancora sconosciuta, ma
che ci arriva dritto al cuore. Ormai siamo preda dell’incantesimo, e vorremmo
non fermarci più. Le distanze da un luogo abitato all’altro sembrano infinite,
e, stregati da tanta sterminata bellezza (la semplice bellezza del nulla,
verrebbe da dire) proseguiamo ancora, la strada ci chiama, e non siamo
solamente ubriachi di chilometri, ma di tutto quanto vediamo, respiriamo,
assaporiamo coi 5 sensi e, ormai in preda a delirio da viaggio, ci spingiamo
fino al confine col Kazakhstan (patria dei valorosi cosacchi) e tocchiamo il
confine di Petuhovo. Nella splendida luce radente di fine estate, in un
languido pomeriggio sibir-čekoviano, intravvediamo le prime teorie di TIR fermi
alla dogana, e ci spunta una lacrimuccia; è la fine del viaggio d’andata, non
ci resta che fare dietrofront per lasciarci l’immenso Est alle spalle;
direzione Ovest, si torna verso Occidente, ma ancora, ancora, ancora, nella
splendida e magica terra russa che ci sta stregando ogni ora di più e della
quale sentiamo, umilmente, di farne già parte. Le città, dai nomi più o meno
conosciuti e più o meno importanti nella storia, si susseguono, nastrate
d’asfalto: Perm ed i suoi Gu.lag, Ekaterinburg (già Sverdlovsk) dove furono
fucilati l’ultimo zar e la sua famiglia, poi la singolare Kungur, città
mineraria annunciata da un palo con in cima un omino con gli attrezzi del
minatore tra le mani, ed ancora Iževsk, capitale della Repubblica Autonoma
degli Udmurti, di ceppo linguistico ugrofinnico, famosa più che altro per aver
dato i natali ad un tal signor Kalašnikov, fino alla musulmana Kazan, magnifica
capitale da 1000 e una notte di quel Tatarstan dove vegeta un Islam sunnita
all’acqua di rose, e poi Nižnij Novgorod (ex Gor’kij) ed ancora più ad
Occidente fino ad arrivare a Mosca, città che solo a nominarla evoca terrore e
grandezza, struggimento e meraviglia, potenza e paura. Capitale di cemento ma pulitissima,
funzionale, dalle strade immense e trafficatissime, con un “centro storico” da
ombelico del mondo, e l’emozione di calpestare il pavè della Piazza Rossa
facendo una giravolta a braccia spiegate è immensa, totalmente gratificante. Ed
il coronamento di tutti i nostri sforzi si chiama San Basilio, che sembra
davvero, come scrisse qualcuno, un cammello adagiato in terra con tutte le
masserizie ancora sulle gobbe… Est ed Ovest si incontrano e si abbracciano a
Mosca, Oriente ed Occidente fuse in questa Terra di Mezzo che fa un unicum a sé
nell’universo mondo. Unicum che dal soprasuolo si trasborda nel sottosuolo,
dove la metropolitana più bella del mondo ci stordisce con le sue stazioni
monumentali, i lampadari in cristallo, le statue sovietiche, le sculture ed i
bassorilievi, i soffitti affrescati ed i mosaici, la pulizia immacolata,
l’efficienza e la puntualità dei convogli. Sono le 20 e tutto va bene, siamo
felicissimi e ci godiamo l’aria frizzante che arriva da Nord, prime avvisaglie
di un autunno che qui scalpita per farsi annunciare.
E poi, il buio.
Ore
22, in un self-service sulla pedonale via Arbat’. Per una tragica
disattenzione, nel ristorante ci fregano uno zainetto. Che contiene il mio
passaporto, cellulare, carte di credito, macchina fotografica con oltre 700
scatti del nostro viaggio… tutto, insomma.
Non descriverò lo shock del momento, nè
della polizia poco collaborativa, né del trattamento al limite dello sprezzante
ricevuto nella nostra ambasciata per il rilascio di un foglio di viaggio sostitutivo.
Non menzionerò, sulla strada del ritorno verso casa, delle angoscianti otto ore
perse in “terra di nessuno” tra Russia e Ucraina nel tentativo di convincere i
doganieri ucraini della validità del mio foglio di viaggio, né del dramma del
respingimento perché il foglio di viaggio (forse per vizio di traduzione) non
viene accettato per il transito in auto, ma solo in aereo… Non accennerò
dell’inesistente assistenza degli uffici della Farnesina, contattati via
telefono, il cui risultato della nostra richiesta di aiuto è “arrangiatevi”.
Non parlerò dell’estenuante trattativa coi doganieri russi e dell’espediente
trovato da un funzionario all’altro capo del telefono della dogana che mi
ordina di rientrare a Kursk in un taxi chiamato dal doganiere Mikhail. Non mi
dilungherò sul lungo, penoso, abbraccio e l’incognita negli sguardi che Max ed
io ci siamo scambiati prima di lasciarci e di infilarmi in quello che non era
un taxi ma l’auto di sconosciuti. Non racconterò del mio viaggio di ritorno in
solitaria per 100 km dal confine ucraino fino a Kursk nell’auto privata di
amici del doganiere russo – Marina e Dmitri – col timore costante che potesse
capitarmi qualcosa e finire la mia avventura su “Chi l’ha visto?”; non
descriverò il tragitto via treno (Kursk-Mosca), via aereo (Mosca-Milano, mai
volato in vita mia!), nuovamente via treno (Milano-Trieste) mentre Max e gli
altri proseguivano regolarmente via terra; del viaggiare di Max per migliaia di
km verso casa con un’angoscia costante e con pochissimi spiccioli in tasca. Non
dirò della scarsa, per non dire nulla, assistenza in una Malpensa notturna
completamente deserta, della polizia ciondolante che si rifiuta di darmi una
mano per aiutarmi a rintracciare degli sconosciuti amici del nostro compagno di
viaggio che mi stavano ad aspettare allo sbarco, ma da tutt’un’altra parte; dei
telefoni pubblici che funzionano solo a scheda telefonica e non la trovi in
vendita da nessuna parte perché dopo mezzanotte è tutto chiuso; della sporcizia
ed il degrado ovunque in stazione centrale a Milano; dell’impossibilità di
ricaricare il cellulare gratuitamente in stazione, solo a pagamento (mi sono
rimaste quattro lire contate, dopo aver speso una botta di biglietto aereo
Alitalia, coi musi lunghi a bordo perché stavano fallendo); dell’impossibilità
di ricaricare il cellulare sul treno FS perché non ci sono le prese (sui treni
russi sì, si può, ed è gratuito), dei treni sporchi (quelli russi, pur
residuati sovietici, sono pulitissimi, anche se ho viaggiato in platskartny
vagon, cioè terza classe); del fatto che in Italia non funziona niente; della
voglia irresistibile di fare dietrofront, saltare sul primo aereo per Mosca e
rimanere a vivere là.”
Non lo
racconterò perché, anche se fa parte del viaggio, non sarà questa
spiacevolissima disavventura fortunatamente finita bene a farci scemare la
voglia di tornare in Russia, ancora, ancora e ancora. Come non aggiungeremo il
trascurabilissimo fatto che, già dal nostro ingresso in Ucraina, e per tutta la
Russia, il Frontera ha cominciato a dar problemi (condizionatore subito fuori
uso, problema alla bobina con conseguente funzionamento a tre candele su
quattro, sfilamento del tubo della mandata della benzina alla pompa, rottura di
un manicotto del radiatore, scheggiatura del parabrezza e, giusto per non farci
mancare nulla, causa vibrazioni continue della strada, perdita della plastica
di un faro) e ci siamo trovati a proseguire per tutto il viaggio con un’auto
zoppicante ma che eroicamente ha resistito oltre 10.500 km andata e ritorno…
***
Questi di cui sopra, da noi fedelmente riportati, sono
brevi flash che fotografano la realtà di un Paese che per 70 anni si è
sottratto al resto del mondo per edificare una società alternativa
all’Occidente, e che ora si sta riappropriando delle proprie profonde radici
per ricostruirsi una personalissima sfera di civiltà; potranno essere ricordi
positivi o negativi, magari truci, o minimi, o apparentemente di scarsa
importanza, o drammatici ed angoscianti; magari sono proprio questi ricordi a
farci amare, nel bene come nel male,
questa splendida, eterna, sconfinata terra che si distende dal Baltico
al Pacifico; sicuramente è la fascinazione per un luogo che non è Oriente né
Occidente ma una sostanziosa fetta di pianeta che coniuga gli aspetti dell’una
e dell’altra parte, fondendoli assieme per darne una propria, assolutamente
originale interpretazione, e tutto questo è riassumibile in una sola parola:
Russia. L’incantesimo ha avuto origine così, e un seducente maleficio ci ha
riportati tra le sue braccia nel 2012, a San Pietroburgo: d’inverno, poi, il
più duro da oltre vent’anni; e, per la terza volta, nel 2016, ancora d’inverno.
Vorrà pur dir qualcosa…
Ah, stavamo per dimenticarcene: l’anello degli Urali,
fedele e da quella volta ormai inseparabile compagno di tutti i nostri viaggi.
La scritta in cirillico diceva: спаси и сохрани мя (spasi i sohrani mja):
“Salvami e proteggimi”. Mai souvenir fu più azzeccato…
Salvaci e proteggici, ljubimoij matuška Rossija, che
hai scrutato nei nostri cuori di liberi viaggiatori e qualcosa ci devi pur aver
trovato dentro se, dal 2008, noi, ormai, siamo tuoi…
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