Incontri coi popoli

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Serbia 2017

2.572 Km in 17 giorni, 71,20 ore di guida fra 4 Stati, 3 capitali.
rilevazioni effettuate con il navigatore cartografico GARMIN GPSMAP 60CS
(clicca sulla cartina per ingrandire)





SERBIA 2017

TRA LUCI ED OMBRE



Capita. Qualche volta succede che un progetto pianificato, accarezzato e sognato, non vada in porto. Che nonostante la lunga e meticolosa preparazione, lungo la strada che porta al compimento del progetto, appaiano piccoli segnali che mettano sull’avviso che quel progetto, forse, è meglio accantonarlo, in attesa di tempi migliori. Sulla carta, l’impresa era ambiziosa, molto. I giorni, come sempre, pochini (17), i chilometri da macinare tanti (8.000), la meta entusiasmante (Mar Caspio!). Per rimanere nell’orbita di quei 17 giorni e riuscire a portare a compimento l’ardua impresa, giocoforza avremmo dovuto viaggiare  su una specie di linea retta, andata e ritorno, per riuscire ad incastrare tutto quanto avremmo voluto visitare, assieme alle preventivate file alle dogane, imprevisti vari, piccoli contrattempi perditempo. Già gli imprevisti capitano da soli, figurarsi andarseli a cercare… Ma a due mesi dalla partenza, ecco apparire quei segnali che ci stavano mettendo sull’avviso che questo viaggio… non s’ha da fare. Noi, imperterriti, continuiamo nella pianificazione del raid. Ma evidentemente, il destino, il karma, Saturno contro, un chakra messo di traverso, chiamatelo come volete, insomma qualcosa si è messo in mezzo ed ha ben pensato di mandarci un segnale più potente degli altri: una mattina, ad un mese dalla partenza, la nostra auto ci pianta in asso, nel bel mezzo della strada, fortunatamente vicino a casa. E lì, finalmente, ci rendiamo conto che… (sfiga a parte), dobbiamo arrenderci al destino, alzare le braccia e dire: “ok, ok, abbiamo capito”. Intanto che il Nissan è dall’elettrauto, (sostituzione dell’alternatore), ci ritroviamo davanti alla solita carta geografica appesa in corridoio, ad osservare l’itinerario calcolato al centimetro ed al minuto, riflettendo su che cosa, nell’aria, è andato storto. Riflettiamo e rimuginiamo. E poi, Max ha un’intuizione! I nostri viaggi sono sempre stati concepiti “ad anello”, una sorta di circuito chiuso; partenza e ritorno sempre da casa, ma seguendo un itinerario grosso modo circolare; questo, invece, per risparmiare il più possibile sul tempo, è stato concepito come una linea, più o meno retta. Una bella riga a tagliare in due l’Europa centro-orientale, da Trieste al Caspio. Una riga, appunto; senza inizio e senza fine ma solo un andare da “A” a “B” in linea retta e ritorno. Un taglio, una ferita, nel cuore d’Europa, come se ce ne fosse bisogno attualmente di aggiungerne altre, di ferite, in queste zone. E, davanti ad un’Europa segata da un tratto di pennarello, realizziamo che forse, il viaggio, ce lo siamo sabotato da soli. La vita è circolare, non è una riga tracciata così, solo per andare da qua a là. Pertanto… ci siamo arresi. Anche e soprattutto per non transitare in determinate zone non propriamente tranquille e per non pagare costosi visti dalla durata ridicola. Insistere, a nostro avviso, sarebbe stato da stupidi, o da sprovveduti, o da incoscienti. Ci si può credere o meno nel destino, nel fato… Forse, anche per scaramanzia, abbiamo interpretato segnali e sensazioni che ci suggerivano di lasciar perdere, per il momento, in questo senso. E come se non bastasse, non abbiamo fatto i conti con un altro aspetto: non avevamo un piano “B”! A dire il vero, non lo abbiamo mai avuto, perché non ci è mai servito un piano “B”. Ad un mese dalla partenza, con la testa già in modalità dogane, confini, modulistica, alfabeti diversi, tempistica da rispettare rigorosamente… ci siamo ritrovati a guardarci negli occhi e chiederci: “E adesso?”. Non è la prima volta che un viaggio ci “salta” (vedi 2010), però almeno il tempo per rimediare c’era. Ma stavolta, non solo la vacanza salta a trenta giorni dalla partenza, ma tutto il meticoloso lavoro a monte per recuperare preziose informazioni su un fatto storico, vero motivo del nostro viaggio, nonché la programmazione al minuto delle tappe giornaliere, va a finire nel cosiddetto “archivio rotondo” (cioè il cestino). Lo scoramento è notevole, soprattutto per l’immane lavoro “storiografico” compiuto da Max. E così, ritornando nuovamente davanti alla carta geografica, facciamo un pò il punto della situazione. Dove potremmo andare? Bè… dovevamo calpestare nuovamente una terra ortodossa… dove la scrittura è cirillica… ed ecco che la Serbia ci balza agli occhi, paese da noi solamente attraversato 4 anni fa per raggiungere la Bulgaria. Serbia come meta del viaggio? Perché no? E Serbia fu.

CALDO CONTINENTAL

Il nostro viaggio di ripiego inizia venerdì 2 giugno; procediamo spediti verso est, ed il caldo, tipico delle pianure continentali, comincia a farsi afoso già in prossimità del confine serbo; la piana alluvionale che abbraccia la regione della Vojvodina ci regala un’afa epica; tra campi di girasoli, grano quasi maturo e pozzi di gas, ci destreggiamo tra le confluenze dei fiumi Sava, Drava e, più in là, il Danubio. Sospettavamo di trovare già il caldo, ma non così soffocante! Al confine Croazia-Serbia impieghiamo 40 minuti in fila per il controllo dei passaporti; la dogana croata scannerizza nuovamente i documenti di tutti, però nessuno ci controlla il bagagliaio. Arrivato il nostro turno, il simpatico doganiere serbo, ammirando il nostro mezzo, ci domanda dove siamo diretti; “Fruška Gora!” rispondo, mostrandogli sulla cartina la meta della giornata (con somma delizia dei tizi dietro a noi, in fila sotto al sole cocente); il doganiere risponde che lui è nato proprio là, che la zona è stupenda e ci congeda con un “sretan put” (buon viaggio). Ripartiamo alla volta di quello che è l’unico contrafforte montano della Vojvodina, la cui altezza massima si colloca attorno ai 500 metri. Meglio di niente! Il sacro monte della Fruška Gora, chiamato così perché ospita parecchi antichi monasteri, si staglia verdissimo e boscoso alla nostra sinistra. Puntiamo in quella direzione, nella speranza di trovare un po’ di refrigerio. Alle 17.00, complice la fame, ci fermiamo al ristorante “Aleksandar”, in aperta campagna; hanno l’aria condizionata, ma perché rinchiuderci tra quattro mura proprio il primo giorno di vacanza estiva? Il solertissimo cameriere arriva pronto a portarci birra in bottiglia per accompagnare i saporiti piatti della cucina serba: razniči (spiedini di carne di maiale), pljeskavica (mega hamburger di carne mista con cipolla trita), ajvar domači (specie di salsa di peperoni, questa fatta in casa, leggerissima), il tutto strepitosamente buono, la carne ha un sapore che appartiene a ricordi lontani nel tempo. Sarebbe stato un pranzo da ricordare esclusivamente per la bontà delle pietanze, se non fosse che, purtroppo, assieme a noialtri sono giunte milioni di mosche, entusiaste di condividere con noi le prelibatezze locali. Ci arrangiamo come possiamo: bottiglie tappate, salviette sui bicchieri, pane soffocato dal tovagliolo, mentre il cameriere solertissimo le scaccia dal nostro tavolo sventolando lesto il menù, per poi tornare a fine pranzo con l’aspira briciole elettrico. Su tutto, un olezzo di concime che fa tanto campagna “old style”. Satolli, ce ne andiamo a cercare un posto dove dormire, direzione “montagna”. I paesini che attraversiamo hanno la caratteristica di avere le casette con una passerella in cemento a scavalcare quella che noi immaginiamo sia una roggia. Di olezzo in olezzo, sempre più invadente, ci accorgiamo che quelle non sono “rogge” ma semplicemente canali fognari a cielo aperto… E sì che in questa zona l’acqua non manca di certo! Quello che mancano, sono le fognature vere e proprie. Scappando dai miasmi tremendi, ci arrampichiamo sul sacro monte e troviamo il Motel Zmajevac, un rifugio “montano” sorto alla fine degli anni ’40, immerso in una fitta foresta cedua ripiena di uccellini cinguettanti. Il Motel si presenta bene all’esterno, con tanti tavoli sotto le fresche frasche, un po’ meno all’interno: per raggiungere la camera (nel sottotetto) ci dobbiamo arrangiare con le nostre torce perché la luce nel lunghissimo corridoio a budello non funziona… e di finestre, neanche a parlarne. Nel sottotetto fa caldo, ma lasciando aperto l’abbaino ed il ventilatore al massimo, la temperatura si mantiene accettabile. Peccato che la pulizia del bagno lasci alquanto a desiderare; trattasi di un vero cesso, e ci chiediamo che cosa (e con che cosa) abbia pulito l’addetta poco prima… Dato il prezzo modico, non possiamo pretendere di più. Ma almeno sulla pulizia… La notte passa nella pace più totale, visto che siamo in mezzo ad un bosco, e soltanto i gufi si fanno sentire.

 IL MIRAGGIO DI NOVI SAD

Il risveglio è allietato dal canto del cuculo, che fa da solista assieme a milioni di uccellini vocianti di tutte le specie, e da un calabrone curioso. La colazione è in veranda, su tavoli e sedili in legno originali jugoslavi di fine anni ’40, dove le comodità borghesi non trovavano posto nella spartanità comunista. Ci rifocilliamo con tè alle erbe, frittatona, pomodori, cetrioli, cipolla… che volete che sia addentare una cipolla o un cetriolo alle 09.30 del mattino, quando sei mesi fa, alla stessa ora, ci rimpinzavamo di caviale rosso e tranci di salmone fresco? Sazi ma leggeri, ce ne andiamo alla volta della città di Novi Sad, capoluogo della Vojvodina, anche per cercare un cambia valute. Giunti in prossimità del centro, ci troviamo imbottigliati in un traffico mostruoso, tanto che, col Danubio color cappuccino da una parte e l’immane groviglio di automobili dall’altra, ci sembrava piuttosto di stare a Calcutta all’ora di punta. Il Danubio, che sarà pure bello ma qui di blu ha solo il nome, si inoltra sinuoso, percorso da numerose chiatte trasportanti di tutto. La città, per chi riesce a visitarla senza diventare idrofobo causa traffico inumano, è molto caratteristica, per i suoi splendidi edifici art-nouveau, dai fregi mai visti, palazzine signorili dalle facciate singolarmente decorate, ma purtroppo in pieno degrado; è tutto rotto. La crisi sta martellando la Serbia, e il denaro per rimettere a posto gli edifici, evidentemente, scarseggia, ed un tanto probabilmente è anche dovuto alla sconfitta ed ai conseguenti pesanti pagamenti per i crimini di guerra di 18 anni fa. Un vero peccato. La città ospita, su di un colle, anche una bella ed imponente fortezza dai contrafforti murari notevoli (simili a quelli di Palmanova), contrafforti murari in mattoni che seguono anche il lungo fiume; peccato che la fortezza sia irraggiungibile, stante l’impossibilità di trovare un solo buco per metterci l’auto, da qualsiasi parte! Non ci resta che pranzare sotto a questo castello fortificato, sul lungo Danubio; intanto che attendiamo quanto ordinato, osserviamo il traffico soffocante che serpeggia a qualche decina di metri da noi, un serpentone di veicoli che procede a passo d’uomo con ormai 30°C costanti… Ci consoliamo con un altro pranzo tipico: razniči ripieni (cioè fette di maiale avvoltolate su formaggio e ciccioli di pancetta affumicata), patatine, insalatina con pomodori strepitosi, birra alla spina ed il famoso kajmak, cioè una sorta di grassissima crema di formaggio, servita in forma di palline di gelato, ma talmente sostanziosa che ne basta una per far pranzo! Troppo caldo e troppo traffico, abbandoniamo l’idea di visitare la fortezza e torniamo verso i “monti”, a visitare il primo dei monasteri che questa regione offre. Il monastero Ravanica di Vrdnik, sorto attorno al 1566, ci accoglie con un’imponente struttura di mura bianche a calce, tigli altissimi e, ovviamente, pace e tranquillità, nonostante sia l’unico monastero della Fruška Gora edificato in un luogo popolato, precisamente nella cittadina di Vrdnik, frequentatissima località termale. Monaci e monache condividono le sacre mura, assieme alle galline, alle caprette, ai piccioni ornamentali, ai gatti e alle tortorelle in cova. Per lungo tempo in questo monastero furono custodite le reliquie del principe Lazar, oggetto di culto.  I religiosi ortodossi, di qualsiasi Stato, seguono tutti i medesimi dettami in fatto di abbigliamento: perciò anche qua i monaci vestono una lunga veste nera oppure una casacca ed un paio di calzoni, barbone che non viene tagliato mai, i capelli lunghi raccolti in un chignon, mentre le monache sono completamente racchiuse nella loro lunga veste nera dalla quale spuntano solamente le mani e l’ovale del viso, i capelli e le orecchie ben celati dal velo, mentre i religiosi d’ambo i sessi calzano un cappello a mò di mezzo cilindro. Però hanno tutti lo smartphone… Entriamo nella bellissima chiesa affrescata, godendoci un po’ di refrigerio. Come da tradizione, io mi copro la testa… e mi accorgo di essere l’unica a farlo, le altre signore, pur serbe, sono tutte a capo scoperto. Ci stupiamo un po’, anche perché nella chiesa serbo-ortodossa di S. Nicolò, a Trieste, le donne hanno sempre un fazzoletto in testa… come in Ucraina e in Russia. Io mantengo il mio foulard addosso; quando ci avviciniamo alla vetusta suorina per acquistare le candele, l’anziana religiosa mi guarda e mi sorride con benevolenza, come a dire: “beh, almeno una che se ne ricorda!”.
A pomeriggio inoltrato, torniamo “in montagna”, dove ci aspetta un imprevisto. La strada che porta al rifugio è transennata, perché vogliono farci pagare un pedaggio. Pedaggio di che? chiediamo. Ci fanno capire che tutte le strade che attraversano il sacro monte Fruška Gora, parco nazionale, al week-end sono soggette al pagamento di una sorta di tassa ecologica per il gitante che viene fin quassù a farsi la grigliata. Protestiamo: noi siamo solo di transito, dato che dobbiamo andare al nostro motel. Sono irremovibili. Non ci perdiamo d’animo: tiro fuori le chiavi della camera, specificando che siamo “goste motela!” (ospiti del motel) e quindi vogliamo ben vedere se ogni volta che ci spostiamo dobbiamo pagare il pedaggio! Lo stratagemma funziona, la nostra auto non passa di sicuro inosservata e con ciò speriamo di non dover far questioni anche domani…

MANASTIR TOUR

E’ domenica per tutti… ma per le torme di volatili che albergano in questa foresta, sembra un giorno lavorativo qualsiasi. E, dato che siamo in Serbia, i simpatici uccellini si prodigano per farci sentire una sorta di festival Guča in salsa ornitologica. Alle 04.30, ancora col buio, attaccano le allodole, verso le 05.30 cambio turno, cambio specie e cambio di repertorio con usignoli, cinciallegre, tordi ecc ecc, poi alle 06.00 arriva una specie di bullo locale proprio sotto al nostro abbaino, cinguettando come un forsennato per sovrastare tutti gli altri, facendo il solista e urlando di brutto. Non bastassero i cinguettii, poco dopo le 06.00 arriva in camera anche il ronzante calabrone, dalla stazza spropositata e rumoroso come un elicottero, che dà un’occhiata alla situazione, si accerta da vicino che siamo sempre vivi e sparisce. Facciamo la solita abbondante colazione (oggi wurstel tipo Vienna, uova sode, cipollotti, tè di erbe); alle 11.00, quando ci congediamo per andare in gita, gli uccellini del turno di mattina smettono tutti di colpo, per lasciare lo spazio ai pomeridiani, che cantano fino alle 20.00, quando lasciano il posto a quelli del turno di notte… E poi si ricomincia. Calabrone compreso. Oggi la giornata prevede la visita di altri due monasteri molto significativi, Novo e Stari Hopovo (nuovo e vecchio Hopovo); il “nuovo” è del 1576, le origini del “vecchio” risalgono attorno al 1545.

I MONASTERI DI NOVO E STARI HOPOVO

Sono due monasteri ortodossi di epoca rinascimentale, il “nuovo” (Novo) ed il “vecchio” (Stari) Hopovo. Novo Hopovo, dentro alle sue mura barocche, racchiude un complesso monastico edificato in pietra tagliata e mattoni, decorato internamente con degli affreschi splendidi della scuola bizantina serba, tra i più importanti di tutti i Balcani, nonché preziose icone dipinte dai monaci del monte Athos. Ma, la cosa che ci sorprende di più, entrando nella chiesa, è che il pavimento è cosparso di fieno fresco, appena tagliato; il contrasto tra il profumo pungente del fieno, quello delle candele in cera d’api che brucia, e quello dolciastro dell’incenso è sbalorditivo. Osserviamo il rituale messo in atto dai fedeli: ognuno si inginocchia a raccogliere una manciata di fieno, con la quale intreccia delle coroncine da portar via oppure da usarsi come una sorta di “ex voto” da appoggiare sulle icone. Il simbolismo è chiaro: il fieno sul pavimento ricorda il fieno posto nella mangiatoia alla nascita di Gesù. I monaci, giovani, in palandrana e barbone, vivono tra queste mura, e dei cartelli bilingui avvertono i fedeli sui luoghi nei quali non possono accedere: si tratta delle celle e degli appartamenti privati dei religiosi, che giustamente devono essere preservati dal viavai della gente, per consentire privacy e meditazione. La giornata è splendida, fa caldo ma all’ombra di queste sacre mura è sopportabile. Il giardino è curato ed ombroso, circondato dalle rose fiorite che profumano dolcemente l’aria. Ne approfittiamo per riempire una bottiglia con dell’acqua “benedetta”; l’acqua di fonte è freschissima ed è un vero piacere dissetarsi in questo luogo di pace e meditazione. I religiosi si sostentano con la vendita dei loro prodotti: miele, rakija (liquore superalcolico, generalmente di frutta), sljivovica (superalcolico di prugne, frutto nazionale serbo), il brinjavec (superalcolico di bacche di ginepro), il classico gorki (amaro d’erbe), oltre, ovviamente, i liquori al miele. Ne approfittiamo per amici e parenti; in chiesa, al banchetto che vende candele, icone e rosari, ci si rifornisce di sacchetti di nylon, poi si va allo spaccio situato all’ingresso (self-service) e si ritorna in chiesa a pagare. Un sistema un po’ sui generis, però funzionale. Il monastero custodisce anche le spoglie del santo guerriero Teodor Tiron, morto in battaglia, venerato sia nel mondo cattolico che ortodosso. Usciamo, prendiamo l’auto e ci dirigiamo alla volta di Staro Hopovo, cioè il monastero più vecchio, dichiarato monumento culturale di eccezionale importanza nel 1990 dal governo jugoslavo. La chiesa attuale, purtroppo, non è quella risalente al 1545 ma un suo rifacimento del 1751. Piccolissimo, ma immerso in una zona incantevole; i monaci lavorano la terra, allevano le galline e le api, in un ambiente verdissimo ed incontaminato. Entriamo nella chiesetta del monastero, ed è talmente raccolta su sé stessa che a malapena riusciamo ad incastrarci su un lato della struttura, attorniati da altre 5-6 persone intente ad intrecciare le coroncine di fieno, pregare devotamente, baciare l’icona della Vergine. Gli affreschi, di recente fattura, sono stati restaurati da poco, dando l’effetto di essere stati appena dipinti, per tanto vivaci sono i colori. Non me la sento di fotografare per non disturbare la concentrazione e la meditazione delle persone di varie età riunite in preghiera: la cappella è talmente minuscola che sarebbe come voler far fotografie in un ripostiglio, pertanto ce ne stiamo seduti ad osservare e catturare tutto con lo sguardo. Finalmente, tra i santi che ci osservano severi dalle pareti, spunta anche un bruno, barbutissimo e capellone San Massimo, con una città in una mano, il che un po’ ci sorprende, dato che l’iconografia classica di San Massimo, di solito, lo ritrae calvo e col barbone canuto... anche i santi sono stati giovani! Il lampadario rotondo, che ci sovrasta gigantesco, ha appese delle uova di struzzo, legate con un filo rosso terminante in una nappina. Stupendo! Attendiamo che il nostro “gruppo di preghiera” termini la liturgia, per poi uscire tutti assieme, sì da lasciar posto ad altri pellegrini. A fianco della chiesetta, sorge una torretta che ospita le candele votive mentre, al piano superiore, è alloggiata una biblioteca e, sopra la biblioteca… le campane! Alberi di noce, querce, betulle, aceri, fanno da splendida cornice a questo luogo di pace e serenità, un vero, piccolo, paradiso. Purtroppo il caldo è intenso e parecchio afoso. Ora di pranzo, ce ne torniamo al ristorante Aleksandar, ma stavolta ci facciamo furbi e pranziamo all’interno, aria condizionata e niente mosche… Domani si riparte alla volta di un’altra zona montuosa.

DESTINAZIONE RAŠKA GORA

Lasciamo il piattume della Vojvodina per raggiungere la zona collinare della Raška Gora, regione che confina con il Kosovo ed il Montenegro, nella Serbia più profonda. Oltrepassiamo la Sava sorprendendoci per la vastità del suo corso, e addirittura intravediamo delle case su palafitte! Purtroppo, le vediamo solamente quando stiamo a metà del ponte e non c’è un buco per fermarsi, per cui niente foto. La destinazione è la cittadina di Vrnjačka Banja, zona termale conosciuta fin dal 1800, quando divenne il “buen retiro” di parte dell’elite centro-europea. Caldo, giornata spettacolare, aria pulita… ci viene fame, perciò decidiamo di fermarci per un boccone in un rustico ma eccellente locale caratteristico, proprio all’imbocco del paese. Ci serve un bello e robustissimo giovane, capelli biondi a spazzola e occhio ceruleo incantevole, che ci porta ottima carne alla griglia e pivo alla spina: ci basta poco per essere felici! Il nostro Nissan, parcheggiato nei pressi, attira l’attenzione di un automobilista, che scende assieme ad un ragazzo, fa il giro del nostro mezzo, osserva con occhio clinico ruote, ammortizzatori, paraurti, verricello, l’altezza da terra, l’interno, l’esterno, il sopra, il sotto… poi scambiano due chiacchiere col nostro oste e se ne vanno. Noi terminiamo il pranzo e andiamo a cercare un posto dove passare i rimanenti giorni di ferie. Dato che ormai siamo in piena modalità relax, concentriamo le nostre ricerche su un luogo fornito di servizi wellness e, soprattutto, di piscina, magari all’aperto! In paese, parcheggiamo vicino al parco verdissimo e ci dirigiamo verso un’imponente costruzione, l’hotel Fontana, dove purtroppo ci comunicano, spiacenti, che non sono forniti di piscina. Allora ripieghiamo sul Merkur. Trattasi di hotel-sanatorio, offre tanti servizi wellness e la piscina, purtroppo per stanotte sono pieni, perciò possono riservarci la camera da domani, ma niente letto matrimoniale. Ok, diciamo noi, ci accordiamo per 6 giorni. Ci guardiamo attorno: la struttura promette bene e, anche se gli ospiti sono quasi tutti oltre la sessantina, a noi va bene così: almeno non avremo il sonno disturbato da bambini piagnucolosi e schiamazzanti per i corridoi, oppure gente che torna ubriaca alle 02.00 del mattino (stile Austria, Germania o Scandinavia)… Perciò, usciamo a cercare un posto per stanotte. Proviamo in una deliziosa palazzina primi del ‘900, restaurata, con bellissima piscina profonda ma… vuota. Alla reception, ci accoglie un ragazzo… e ci rendiamo conto che trattasi dello stesso ragazzo che, col padre, aveva adocchiato il Nissan poco prima! Ed ecco arrivare il babbo, si chiama Milan ed è il presidente del locale jeep club! Ecco spiegato l’occhio clinico! Ci chiede da dove veniamo, dice che lui è stato a Trieste nel 1991, poco prima dello scoppio della guerra, che ha un bel ricordo… Intanto ci mostra orgoglioso la sua collezione di veicoli d’epoca: due jeep Willys originali americane risalenti allo sbarco in Normandia nella Seconda guerra mondiale (dice lui), una specie di jeep Toyota rimaneggiato, una Lotus Elan (auto degli anni ’80, rossa fiammante). Ci fa poi vedere la camera: stupenda! Enorme come un salone, le finestre sui tre lati con soffitto altissimo, divano in pelle nera, arredamento in legno scuro minimalista, bel bagno piccolo ma funzionale e, sorpresa, gli asciugamani messi l’uno accanto all’altro, sul letto, sono arrotolati a forma di cigno! Ancora non ci era capitato di trovare degli asciugamani sistemati così! L’albergo, Vila Devedžić, è decisamente delizioso, a gestione familiare, ma peccato per la piscina, vuota. Dice Milan che, finchè non si sistema il tempo, non gli conviene riempirla. Un vero peccato sul serio, non tanto per la lunghezza, quanto per la notevole profondità! Già immaginavamo tuffi a raffica… Pazienza, magari sarà per un’altra volta. Milan non perde l’occasione per comunicarci che fra qualche giorno ci sarà il primo raduno fuoristradistico  con moto da enduro, quad e jeep della zona, organizzato dal suo club, invitandoci entusiasta e rassicurandoci sul fatto che è “soft” e che col nostro mezzo (quest’anno non preparato con i pneumatici per percorsi in fuoristrada impegnativi) non ci saranno problemi. Con 10 euro (“akcija!” dice, cioè offerta!) abbiamo una colazione, un pranzo, il giro off-road sulle montagne attorno e, alla sera, grigliatona e birra a nastro in paese! E vuoi rifiutare? Certo che no! Pertanto ci accomodiamo in camera, attendiamo che sfoghi il temporale, ceniamo in paese ed il giorno dopo siamo pronti a trasferirci al Merkur.

RISERVATO AI NOSTALGICI

Dopo una gustosa colazione, salutiamo Milan e sua moglie e ci trasferiamo al Merkur, col caldo già soffocante. Arriviamo in camera e, purtroppo, il nostro entusiasmo iniziale si è già dimezzato. Se la reception e le sale comuni davano l’impressione di essere ad un buon livello d’accoglienza, moderno ed attuale, la camera, purtroppo, si rivela una delusione; qui la vecchia accoglienza jugoslava non è mai tramontata, perciò ci ritroviamo in una stanza piccolissima, vecchissima e con una vista sull’ingresso principale. Il mobilio del bagno è marcio, una sola lampadina da 20 watt ad illuminare il lavabo mentre la doccia è al buio, muri di carta velina cosicchè sentiamo tutte le chiacchiere dei vicini (e, in quanto anziani, tutti sordi), ci hanno assegnato la camera che confina con l’ascensore, perciò sentiamo il continuo viavai di gente e chiasso di ferraglia, non c’è un frigo e nemmeno una bottiglia d’acqua… Questo non deve esser mai stato considerato un vero albergo, sembra piuttosto un sanatorio, o, meglio ancora, una casa di riposo per anziani autosufficienti (o quasi…). Dato il caldo, ci stravacchiamo sui letti in attesa di andarcene a cena; non ci è di conforto nemmeno il romanzo trovato nel comodino, che già dal titolo (“Rekvijem za Vuka Malivuka”) ed una copertina che rimanda ad agghiaccianti sculture evocative di guerreschi massacri, non ci risolleva di certo il morale, mentre ci chiediamo perplessi se abbiamo fatto bene a prenotare per tanti giorni consecutivi…
La mattina dopo, scendiamo in ascensore a far colazione, ad ogni piano entra qualcuno, e ci sembra vagamente di stare ad un congresso a latere del Cominform: tutto un “dober dan”, “dobri den’”, “dien dobre”, “zdrastvujtse”… La sala ristorante è grande e luminosa, ma la colazione è un’altra spiacevole sorpresa. Possiamo giurare che nemmeno quando c’era ancora la Jugoslavia in piedi, le colazioni erano al livello di questa, cioè pessime. In tanti anni di viaggi, possiamo affermare con assoluta certezza che non abbiamo MAI mangiato così male come in questo albergo: il prosciutto è terribile, i wurstel immangiabili (plastica pura) e non è un modo di dire: non sono avvolti nel classico budello di maiale logicamente digeribile, ma in un suo surrogato di plastica ad imitazione del solito budello: Max si sacrifica per l’esperimento, ma dopo averlo masticato per qualche minuto, si rende conto che non si scioglie normalmente, anzi, si ritrova la bocca piena di questa pellicola di “polietilene”, non sapendo se e come mangiarla… Schifato, ci rinuncia! Il succo d’arancia è imbevibile; si salva solo il tè, per fortuna. Ci alziamo affamati e sgomenti, in programma giretto a piedi della cittadina.

VRNJAČKA BANJA

La cittadina, che sembra una qualsiasi località turistica europea di fine Ottocento, molto tranquilla, abitata da circa 30.000 anime tra centro e periferia,  si presenta come una rinomata stazione termale (sfruttata già dai Romani, ovviamente) racchiusa dalle montagnole che sorgono tutto attorno a farle scudo dai rigori invernali; sono quattro le sorgenti che sgorgano in centro (Topla Voda, Jezero, Snežnik e Slatina), e offrono diverse qualità d’acqua, tutte contenenti sodio e idro carbonatiche; ne abbiamo provato tre: due sono di acqua squisita, con molto magnesio (tipo la Radenska slovena), la terza è terribile, perché con alta concentrazione di zolfo, indicata, dice la tabella sulla fonte, anche per i diabetici. Ci si può servire direttamente dalle fontane dello stabilimento, 10 dinari per un litro (0,084€/lt.); all’interno degli stabilimenti ci sono diverse panchine, dove il pubblico si siede, si fa una bevuta, e tra una chiacchiera e l’altra, un litro dopo l’altro scivola via. Il corso d’acqua (Vrnjačka) la attraversa longitudinalmente, e parecchi sono i piccoli ponti che sovrastano il torrentello di acqua torbidina, ma pulita, a giudicare dalle tante libellule multicolori che si librano sulla sua superficie. Tra i ponti, non poteva mancare il “Most ljubavi” (Ponte dell’amore), decorato da migliaia di lucchetti acquistabili per ogni dove, con i quali le coppiette innamorate incatenano il loro amore; una volta scritti i nomi sul lucchetto, gli innamorati gettano le chiavi nel ruscello; tutto ciò a ricordo di una struggente vicenda che narra della storia d’amore tra la bella maestrina Nada e l’ufficiale serbo Relja, sullo sfondo dei tragici eventi della Prima Guerra Mondiale… Tanti viali alberati e pedonali, un grandissimo e pulitissimo parco cittadino consentono di rilassarsi al relativo fresco e magari farsi un pieno di cultura nella graziosa biblioteca cittadina in legno intagliato, che ospita ben 40.000 volumi! Dalla parte opposta della zona pedonale, ben fornita di localini dove mangiare e bere all’aperto, si trova la città vecchia (in tutti i sensi), ospitante negozi meno “alla moda” ed il mercato ortofrutticolo. Peccato non aver pensato di cercare un appartamento con cucina, perché i banchi del mercato offrono quintali di funghi pazzeschi, verdure da lasciarci gli occhi, carne strepitosa, ciliegie di tutti i colori (il cartello che ne decanta le lodi dice: “fenomenomenalno!”), fragole profumatissime, albicocche come non se ne vedono più, quintali di lamponi e fragoline a prezzi irrisori (un quarto di kg di lamponi a circa 80 centesimi di euro…); con una cucina a disposizione mi sarei dedicata a sughi e marmellate con tutto questo ben di Dio! Tra la zona pedonale ed il vecchio mercato, sorge il laboratorio di Strugarević Slavko, abilissimo nonché gentilissimo artigiano del cuoio, che produce ancora interamente a mano le caratteristiche ciabattine con la punta all’insù chiamate Opanak e, meraviglia delle meraviglie, al piano sovrastante il laboratorio, ci mostra orgoglioso la Opanak più grande del mondo, pelle e cuoio mirabilmente lavorati ed intrecciati, grande come una barchetta! Tre settimane di duro lavoro, ma che spettacolo d’artigianato! Oltre ai residenti ed al notevole afflusso turistico, ci sono anche diverse famiglie di zingari con bambini ben addestrati alla questua, però tutti educati: “dober dan” innanzitutto, prima di tendere la mano. E verso le 17.00, gli zingarelli scendono nella zona pedonale muniti di fisarmonica per un po’ di spettacolo e raggranellare ancora qualche dinaro…

A TUTTO C’E’ UN LIMITE…

Nel nostro bighellonare, ragioniamo sul fatto che, forse, potremmo anche cercare qualcos’altro di più accettabile del Merkur. Al solo pensiero di ritornare in quel buco di camera e dover trangugiare un’altra colazione abominevole, ci si ribalta lo stomaco, pur avvezzo a – quasi – tutto… Dalla “promenada” alberata, ci inerpichiamo verso la parte vecchia della cittadina, dove sono in piedi ancora le antiche case in legno art-dèco, abitate anche dagli zingari. Sul colle, visitiamo la piccola chiesetta dedicata alla Natività della Vergine Maria del 1834, ma il caldo eccessivo ci convince a tornarcene tra i viali alberati. Scendendo, l’occhio ci cade su una stupenda piscina di un albergo. Il blu fiordaliso delle sue acque, ci fa fiondare direttamente alla reception. Trattasi di Vila Aleksandar, signorile palazzotto rosa salmone, pieno di alberi, rose, petunie, e con un bordo vasca che invitante è dir poco: ombrelloni e lettini in legno, discreti gazebo, prato adiacente che invita a camminare a piedi nudi… la gentilissima signora della reception ci illustra i prezzi: scegliamo la formula ½ pensione, che costa solamente due euro in più del B&B; i servizi wellness non sono inclusi, ma per 16 euro di massaggio, non andremo in fallimento… detto, fatto. Sono ormai le 15.00 passate, corriamo al Merkur, facciamo i bagagli, paghiamo comunque per 2 notti, motivando alla corrucciata receptionist che la camera non ci piace, è rumorosa e, sottinteso, fa schifo, perciò grazie e addio. Di norma, non ci lanciamo mai in critiche pesanti, ma stavolta ci sembra giusto mettere in guardia chi avesse la sventura di capitare al Merkur: se proprio ci tenete a gustarvi l’atmosfera che si respirava ai tempi di Tito, a farvi trattare con sgarbo e dover pagare per sopportare solamente disagi, accomodatevi; altrimenti, NON ANDATECI! Rifatti i bagagli, di corsa, ci fiondiamo a Vila Aleksandar, morti dal caldo e dall’afa, e col temporale in arrivo. Tempo  di disfare qualche borsa, cercare ciabatte e costume da bagno, e poco prima delle 18.00, sotto una pioggerellina calda, ci tuffiamo nella piscina, tutta per noi… sotto lo sguardo compiaciuto della bionda receptionist, che dalla sua finestra ci fa segno col pollice alzato. Così ci si gode la vita! Ah: ovviamente, la camera assegnataci è strepitosa, ed è l’unica del piano ad avere una bellissima vasca da bagno, così posso fare agevolmente il bucato… 

VILA ALEXANDAR

Due parole su questa struttura: trattasi di un villino dei primi del ‘900, ristrutturato e convertito ad hotel, il cui punto di forza è la splendida piscina esterna di 20 metri, circondata dagli alberi, da tanti lettini comodissimi, ombrelloni e tre simpatici gazebo che danno la possibilità di farsi una pennichella a bordo vasca ma in totale privacy; il prato curatissimo è invitante per gustarsi un aperitivo a piedi nudi. Servizi wellness ottimi, il tutto molto pulito e ben tenuto, personale simpatico e molto professionale. Il silenzio, alla sera, è totale, dopo le 23.00 volano solamente le lucciole! E la cucina è strepitosa; raramente abbiamo mangiato carne così gustosa e morbida come qua, evidentemente devono rifornirsi da una macelleria di fiducia, che propone loro i tagli migliori! La colazione può essere a buffet se gli ospiti sono tanti, oppure su ordinazione se si è pochissimi. Il breakfast è vario: salumi e formaggi buonissimi, pomodori da urlo, marmellata di fragole fatta in casa (da una delle inservienti!), uova all’occhio, burro che solamente all’est Europa è così grasso, frittate con verdure, tè, caffè e poi dei bocconcini tipo muffin. Guardandoli bene, sembrano fritti. Non sono muffin, sono tortini di patate tipo kiffeln… dopo la prima porzione, sono tornata a prenderne altri, sotto lo sguardo complice di una delle inservienti che non ha mancato di commentare (in serbo) una cosa del tipo: “ah-ah, buoni vero?” Vedendo il nostro apprezzamento per la cucina serba, siamo entrati subito nelle simpatie di tutto il personale… C’è però, in tutto questo idillio, una nota negativa: non hanno birra alla spina! Solo bottigliette da 0,33 cl.… ma, facendo uno sforzo, il cameriere di turno è riuscito a scavare bottiglie di un’altra marca da 0,4 cl., meglio di niente… Dalla prima sera in poi, probabilmente siamo stati classificati come quelli delle “bottiglie 0,4”.  Birra Lev oppure Jelen (Leone e Cervo), specialità serbe, buone anche se un po’ troppo dolci.

FERIE, QUESTE SCONOSCIUTE

Già, stavolta queste sono vere e proprie ferie. Cioè abbiamo, volenti o nolenti, staccato la spina. Da una parte ne abbiamo approfittato, soprattutto per Max, che ha avuto modo di riprendersi dalla fatica del raid artico di sei mesi prima. Avendo piantato le tende in questa tranquilla cittadina e nella splendida sistemazione di Vila Alexandar, ci siamo ritrovati davanti tutta la libertà che una vacanza dedicata al (quasi) dolce far niente è in grado di dispensare. Perciò, oltre ad impegnarci per dare corposo significato al verbo “spavati” (dormire), l’unico nostro pensiero era quello di riuscire ad incastrare un gita fuori porta con una seduta di sauna, una visita ad un monastero con la sessione di massaggio, una passeggiata in paese con il richiamo irresistibile dei tuffi in piscina; di dedicarci ad una colazione abbondante in modo da poterci godere la piscina fino all’ora di cena senza interruzioni digestive. Non dovendo rimetterci in macchina ogni giorno, alla sera potevamo oziare anche fino a tardi in giardino, sotto alle stelle, gustandoci un liquore, un dessert, coi piedi nudi nell’erba a contare le lucciole che lampeggiavano nella siepe attigua; senza il pensiero della sveglia all’alba e della preparazione dei bagagli (compito quest’ultimo che spetta a me), ho avuto il piacere (senza sensi di colpa per l’ora tarda) di osservare  Max gustarsi un paio di ottimi sigari fino all’ultima boccata, accompagnati da un buon brandy. In un paio di occasioni, ben riposati, abbiamo fatto qualche gita in macchina un po’ più impegnativa, e pure un fuori programma in offroad, senza l’assillo dell’orologio, della tappa da rispettare, del cercare un posto dove dormire…  Nella quiete e tranquillità di Vila Alexandar, sotto ai profumatissimi tigli, tra una bibita fresca ed un tuffo in piscina, la mente era libera di correre e disinnescarsi dagli affanni quotidiani anche se, purtroppo, il rimpianto per il viaggio mancato riaffiorava senza volerlo, soprattutto quanto ci chiedevamo, giusto per non perdere la cognizione del tempo, che giorno era: “Che giorno è oggi?” “Domenica.” “E dove dovevamo essere oggi?” “Mar Caspio.”. “Ah…” “Chissà che cosa c’è per cena…”.

SRBIJA OFF ROAD!

Come da programma, alle ore 08.00 di sabato 10 Giugno ci siamo portati a Vila Devedžić, dove l’amico Milan ci ha offerto tè e caffè domači, cioè fatto in casa con un dito di fondi, tipo alla turca. Poi, alle 09.00, ritrovo al ristorante in centro per il briefing e l’iscrizione al tour off-road, con consegna del “talòn” (anche qua!) per avere il diritto alla merenda, al pranzo e alla cena, con inclusa maglietta commemorativa. Credevamo di essere solo fuoristradisti, in realtà Milan ha sbagliato la descrizione sul programma dell’evento, mettendo solo “enduro” e dimenticandosi “jeep”, cosicchè di fuoristradisti eravamo in 5 lui compreso, mentre di motociclisti e quad saranno stati una ventina! Prima di partire, ci offrono la merenda, consistente in un buonissimo panino rotondo (di giornata!) con prosciutto cotto (ottimo!) e formaggio (ottimo, allora si può trovare roba buona, non come al Merkur!). Alle 10.00 partiamo per arrampicarci subito sulle montagnole adiacenti al paese, in una varietà di vegetazione impressionante: si passa dai noccioleti altissimi, alle pinete, alle abetaie miste con betulle e larici, alle faggete, al misto di tutto con aceri e querce, e strapieno di fiori: violette tricolori gialle, garofani in technicolor, rose canine di tutte le sfumature di rosa e fucsia, un vero paradiso botanico, il tutto in un percorso abbastanza accidentato. La giornata parte splendida per poi leggermente annuvolarsi a pranzo e successivamente ritrovare il sereno, con una gradevole temperatura (sui 16 gradi). Milan ci aveva assicurato: “nema problema, you ok!” riguardo alla difficoltà di percorso… ad un certo punto ci siamo trovati a far fuoristrada di media e in qualche punto, anche di intensa difficoltà ed in due occasioni siamo rimasti in bilico su tre ruote, con la ruota posteriore ben alzata… Alle 13.00, puntualissimi, ci fermiamo nei dintorni della cima del monte Guč per il “ručak” (pranzo), che consisteva in un piatto abbondante di minestrone con fagioli (“isti juha tradicionalna” ci dicono, cioè è la stessa minestra tradizionale che davano in caserma) e due grassissime salsicce a testa, con contorno di cavolo cappuccio in insalata, da bere acqua oppure succo di mela (bosniaco, 10% di succo, il resto acqua e additivi). Osserviamo le stoviglie: gli ottimisti vedrebbero, nei piatti di ceramica jugoslava e posate in acciaio, sistemati in cassoni porta munizioni, un ottimo esempio di rispetto dell’ambiente: niente piatti e posate in plastica antiecologiche, tutto si lava e si riusa. I realisti, invece, vedono che forse per loro piatti e posate in plastica costano troppo… e in quanto a rispetto dell’ambiente, qua va letteralmente a farsi friggere, perché dappertutto, tra i cespugli, trovi lattine e bottigliette d’acqua, gettate anche dai finestrini delle auto in corsa. Purtroppo, la torma di enduristi ci ha fregato tutti i posti a sedere sotto alla ampia tettoia in legno, per cui ci arrangiamo chiedendo ospitalità alla signora molto “gipsy style” che occupa una specie di attiguo container uso abitazione; la signora (una specie di Maga Magò in canottiera, ciabatte e pantaloni alla pescatora e mezza cicca penzoloni dalle labbra) molto gentilmente ci fa cenno che possiamo accomodarci tranquillamente su un mezzo tronco d’albero che funge da tavolo e portando anche due sedie pieghevoli per altri due enduristi, non prima di aver dato una ripulita al mezzo tronco, portato olio, aceto, sale e pepe ed aver tolto un proiettile che sostava nel mezzo del tronco a mo’ di “decorazione”. Mangiando, osserviamo la “casa”. Zingara sì, ma al decoro la signora ci tiene: perciò tendine alle “finestre” del container, vasi di fiori disposti artisticamente, semprevivi decorativi sistemati con gusto su altri tronchi, zerbino all’entrata… e di fronte alla “casa” c’è la stalla delle capre, mentre tutto attorno solo foresta. Alle 15.00 di nuovo tutti in sella per il ritorno verso casa, e nuovamente ci destreggiamo tra roveti inestricabili, foreste vergini, guadi, fangaie, di tutto e di più, in una varietà di paesaggi impressionante. Purtroppo corrono tutti e non riesco a scendere nemmeno per mezzo secondo a fare fotografie! In una delle due soste, vediamo un cartello nella foresta che recita “nemački lager”. Chiediamo lumi a Milan: un lager tedesco? Deportacija? Deportavano sì, risponde lui, ma non persone, bensì rocce e legname verso la Germania, da veri predoni. Alle 18.00 rientriamo alla base, cioè nel ristorante che al mattino fungeva da punto di partenza per il tour offroad. Alle 19.00 arriva la cena: da bere a volontà, e poi un abbondante piatto di salumi squisiti, poi un altro piatto enorme ripieno di pomodori, cavolo cappuccio in insalata e cetrioli, infine un altro piatto ancora più grande ripieno di tutto quanto può cuocere una griglia! Squisito tutto, peccato che le porzioni erano almeno per 6! Ah, ovviamente, tutti i piatti e le posate adoperati per il pranzo in montagna, sono stati trasportati qui e verranno prontamente lavati dalla lavastoviglie del ristorante… Verso le 22.00, quando ormai eravamo già morti di stanchezza in camera ma almeno contenti della bellissima gita e per non aver rotto o ammaccato nulla, è giunto il diluvio universale; diluvio che, se ci coglieva in una delle fangaie di stamane, è probabile che nessuno di noi sarebbe riuscito a venirne fuori se non l’indomani mattina…

IL CAPITALE UMANO

Il nostro giro in fuoristrada ci ha insegnato che esistono due varianti di uomo serbo: il citizen e l’outdoor. Il citizen, di norma, si trattiene: si veste più o meno come tutti i  serbi in città, mantiene un certo decoro, parla col tono di voce normale. Il serbo outdoor, invece, esprime al meglio la vera anima slava: non parla, ma urla comandi: hàjde! Ìdemo! (forza! Andiamo!), sputa ordini: hàla nazàd! (dai! indietro!) grida consigli: treći! (la terza!), come se i suoi interlocutori fossero sull’altra riva del Danubio e non a due metri di distanza. L’abbigliamento (enduristi a parte, logicamente) va dal mimetico stile guerriglia, al misto mimetico (maglietta con le foglie e pantaloni della tuta), al normalno ma con anfibi oppure in tuta e scarpe antiinfortunistiche; e, alla prima occasione di sosta, via la t-shirt e sfoggio della panza in variegate tonalità di pallore e circonferenza. Non mancano i sirenetti: ultra-cinquantenni che giocoforza hanno dovuto abbandonare il fuoristrada perché dietro al volante la panza non ci sta più, pertanto sono passati di categoria, abbracciando la moto da enduro e, alla prima occasione di sosta, si distendono sul legname accatastato stile orologi liquefatti di Dalì… Il fatto di essere gli unici stranieri presenti alla manifestazione, dava un tocco di internazionalità all’evento, il primo organizzato in loco e, visto il notevole successo e l’afflusso di partecipanti, dice Milan che l’anno prossimo l’organizzeranno meglio. Tutti gli adesivi delle nostre imprese incollati sul Patrol destano una certa curiosità fra i partecipanti; Milan ha detto a tutti che noi due siamo stati al Polo Nord russo (bè, non proprio, dai...); il nostro mezzo è stato oggetto di approfondita diagnosi da parte dei fuoristradisti; uno, meno riservato degli altri, si è pure avvicinato a Max chiedendogli (in inglese) se secondo lui i serbi sono gente cattiva… Max risponde che per il momento di cattivi non ne abbiamo trovato ancora nessuno… replica del tizio: “ma no, scherzavo, perché tutto il mondo dice che noi siamo cattivi!”. Ecco il risultato di decenni di graziosa propaganda occidentale… Per quanto ci riguarda, l’unico serbo poco simpatico è uno dei due camerieri del nostro albergo, un tipo segaligno che a malapena sorride e che davanti ai nostri sforzi per ordinare in serbo per far pratica, lui ostinatamente insiste con l’inglese ed a Max dà del “Sir”, al contrario dell’altro suo collega, Ivan, forse l’unico serbo mite di tutto lo Stato, che l’inglese lo sa ma con noi preferisce fare a metà (un po’ inglese, un po’ serbo, ogni tanto qualche parola italiana), quando ci vede molla qualsiasi cosa stia facendo per salutarci con la mano come se non ci vedesse da mesi e che ha capito subito che a noi due deve portare birre da 0,4, non da 0,33 cl….

IL MONASTERO DI STUDENICA

Cose che succedono: si è rotta la pompa di filtraggio della piscina del nostro albergo. Pertanto, dato che per oggi la vasca rimane vuota per lavori (ieri sera, nel dopo cena, ce lo ha prontamente comunicato il cameriere Ivan, giunto sul prato in punta di piedi, confidandoci contrito la notizia dell’intoppo quasi ne fosse il responsabile e conferendo all’informazione appena trasmessaci l’aura di un segreto di Stato), pertanto stamane decidiamo di approfittare del momentaneo disservizio per visitare la zona sud della Raška Gora e dirigerci al monastero di Studenica, il più grande ed antico della Serbia, dato che la fondazione risale al 1186, dove sono sepolte e conservate le sacre reliquie del primo re di Serbia, Stefan Nemanja, i suoi figli e sua mamma Anastasija, tutti ovviamente fatti santi. In circa due ore di strada, attraversiamo una porzione incantevole della Raška Gora, tutto un insieme di colline verticali che ricordano vagamente l’entroterra  del centro-Italia, dalle splendide rocce azzurro-verdastre, ricche di micascisti luccicanti e certi lastroni, al sole, sono addirittura abbacinanti come specchi! Le foreste di querce sono incredibili e suggestive come quelle viste in Bulgaria; la zona è ricchissima d’acqua (il fiume Ibar, color caffellatte, scorre impetuoso) ma purtroppo trasformata, dai locali, in una discarica a cielo aperto (un po’ come la zona del Pollino, in Calabria, qualche anno fa). Nel cercare il monastero, veniamo ingannati da dei cartelli indicatori non proprio chiarissimi, per cui ci inerpichiamo su uno sterrato che non c’entrava nulla con Studenica, ma in questo modo ne approfittiamo per fare ancora un po’ di offroad, scoprire delle suggestive stele in marmo a bordo carrettiera, scolpite con le preghiere in serbo antico, e facciamo pure conoscenza con una stupenda upupa che decide di farsi un bagno di polvere proprio davanti al nostro mezzo! Ritornando indietro, imbocchiamo finalmente la strada giusta e, finalmente, eccoci sotto alle mura del luogo santo. Tutto il complesso monasteriale è composto da 3 chiese racchiuse all’interno del complesso murario, di diverse misure, più i resti di una quarta, nonché le vestigia delle celle dei monaci risalenti al 12° secolo. La Chiesa della Vergine si presenta semplice ed essenziale al di fuori, addirittura di una modernità stupefacente nei suoi liscissimi lastroni in marmo quasi da architettura contemporanea, ma straordinariamente ricca di affreschi di scuola bizantina all’interno, tutti magnificamente conservati. Questa chiesa, alla quale fu addossata la chiesa dedicata a Re Radoslav del 13° secolo, è la più antica, e più grande, e risale al 1186; accanto sorge la piccola chiesetta dei santi Joachim ed Anna del 1314 e, defilata verso le mura di sud-est, la minuscola chiesa di S. Nicola, del 13° secolo. Gli affreschi sono strabilianti e stupende sono le rappresentazioni degli eremiti, col barbone ed i capelli bianchi lunghi fino a terra e, per ribadire il concetto di eremitaggio in posti freddissimi, i santi in questione sono ricoperti da una candida lanugine di peli su tutto il corpo, dando l’impressione di trovarci al cospetto di un qualche parente dello Yeti. Semplicemente strepitosi! Il complesso monastico, che fa parte di un “circuito” di monasteri cistercensi sparsi per l’Europa, si trova in una zona verdissima, incastonato tra colline fittamente boscose e, fortunatamente, senza negozi o bancarelle attorno (cosa che invece si vede in Bulgaria e, sinceramente, la troviamo un po’ antipatica e fastidiosa, essendo il monastero simbolo stesso di silenzio e ritiro spirituale). I monaci, seguaci di San Sava, seguono la regola dei benedettini, cioè quell’ “ora et labora” che tanto ha contribuito alla crescita culturale e spirituale europea. La giornata è splendida, e si preannuncia pure calda. Stavolta siamo fortunati: ci imbattiamo in una gita organizzata per un gruppo di turisti anglo-americani, incredibilmente vestiti seriamente come si richiede ad un posto sacro (quindi niente bermudone e ciabatte!). Ci accodiamo ai visitatori e così abbiamo modo di osservare l’interno di tutti e tre i monasteri, assieme ad una scolaresca rumorosa giunta poco dopo. Purtroppo, nel monastero principale non si possono fare fotografie; pazienza, ci accontentiamo degli altri due, ricavandone l’impressione di trovarci al cospetto di un’arte davvero sacra ed ispirata. Le due cappelle di San Nicola e dei santi Joachim ed Anna sono altamente suggestive, mentre il monastero principale, che ospita le reliquie, trasmette la sensazione di trovarsi in un luogo profondamente santo; via gli anglo-americani, arriva la scolaresca delle elementari, che osserva stupita la magia degli affreschi e la bellezza delle teche e dei sarcofaghi che custodiscono le spoglie di re Stefan e di sua madre Anastasija; la santità prevede anche l’incorruttibilità dei corpi, miracolosamente preservati. Tutti i bambini, una volta edotti sulla storia dei santi qui sepolti e dopo aver ascoltato tutte le spiegazioni sugli affreschi, prima di uscire non mancano di baciare la teca di santa Anastasija. Purtroppo, dobbiamo uscire dalla chiesa principale perché viene chiusa a chiave dalla guida, perciò ci attardiamo ancora nel bellissimo giardino. Tutto il complesso monastico, racchiuso dalle mura, visto dall’alto forma una specie di cerchio. Nel giardino crescono rigogliosi dei tigli centenari altissimi e spettacolari, poi delle conifere (asiatiche?) e tante, tantissime rose curatissime e dal profumo inebriante. Le celle dei monaci, di recente costruzione (1912) ed ospitate nelle logge sovrastanti il giardino, sono celate da lunghi tessuti color crema come i muri, a mò di tenda, a garantire il massimo della privacy. I monaci presenti, tutti uomini, sono di varie età: dai giovanissimi agli anziani, barba e capelli non vengono mai tagliati; i capelli arrotolati a chignon, il barbone che negli anziani arriva fino alla cintola! Che aria si respira in questi monasteri? A noi par di percepire una sorta di maggior “serietà” nell’affrontare la vocazione da parte dei seguaci dell’ortodossia. Confrontandoli coi religiosi cattolici odierni, la differenza salta subito all’occhio… Ma queste sono solamente nostre impressioni.

IL SANGIACCATO DI NOVI PAZAR

Nel crogiuolo di fedi e culture chiamato Balcani, esiste un territorio che affonda le proprie origini ai tempi delle conquiste ottomane di tutta la zona sud-orientale d’Europa: il Sangiaccato di Novi Pazar. Il nome stesso, “sangiaccato” deriva dalla parola turca “sangiāq” che significa “bandiera” ma designa anche il nome dell’unità amministrativa che ne adottava il vessillo; Novi Pazar invece significa “Nuovo Bazar”. Il Sangiaccato, detto “di Novi Pazar” è oggi un’entità amministrativa a maggioranza musulmana quasi equamente divisa fra Serbia, Montenegro e Kosovo. Da Vrnjačka Banja ci vogliono quasi due ore di strada per raggiungere Novi Pazar; che cosa ci spinge a portarci fin laggiù, in una cittadina che, già negli anni ’70, a Trieste, era famosa per essere il luogo d’origine di ladri e borseggiatori d’ogni risma che venivano fin da noi proprio per esercitare le loro “arti” e che negli anni ’90 divenne forse il primo centro in Europa di proselitismo della dottrina islamica wahabita, la più integralista, dando la stura a tutta una serie di sommovimenti autonomisti e di integralismi religiosi nei Balcani? Non dimentichiamoci che l’attentatore che nel novembre del 2011 ha sparato diversi colpi di kalašnikov contro l’ambasciata americana di Sarajevo veniva proprio da qua, assolutamente pronto anche a morire in azione pur di combattere la sua personale jihad, col solo risultato di beccarsi 18 anni di carcere per terrorismo… Che cosa ci spinge, appunto? Ci spinge la curiosità di viaggiatori che vogliono vedere coi loro occhi e rendersi conto personalmente di come stanno (più o meno) le cose e constatare se trattasi solamente di propaganda o c’è un fondo di verità… Partiamo al mattino presto, direzione sud-sud-est, attraversando una splendida e boscosa regione montano-collinare, che offre tanti scorci selvaggi che ricordano sia il Montenegro che l’Albania; nuovamente scavalchiamo il fiume Ibar, passiamo nelle vicinanze del paesino di Guča (noto per essere capitale del festival musicale degli ottoni) e, man mano che ci inoltriamo verso il Sangiaccato, intravvediamo diverse testimonianze storiche sulle due sanguinose guerre balcaniche del 1912-13, che posero definitivamente fine alla dominazione ottomana nei Balcani. Ora quei monumenti, sono solamente muti testimoni di un mondo che quaggiù è stato ancora una volta travolto da una guerra, altrettanto sanguinosa. E l’ortodossia cristiana ha nuovamente perduto i suoi bastioni. Man mano che procediamo lungo la solita strada malmessa, ci accorgiamo che la terra serba, ortodossa e cirillica, si diluisce fino a scomparire del tutto: la popolazione è composta per la maggioranza da bosgnacchi, i minareti sostituiscono le cupole bizantine, il cirillico viene soppiantato dai caratteri latini e le donne, anziane per lo più, vanno in giro vestite coi pantaloni “alla turca” e fazzoletto in testa, mentre gli uomini, stessa età, girano con la giacca e lo zucchetto bianco all’uncinetto, simboli di quell’Islam bosniaco (moderatamente laico, radicato nel sufismo e nelle confraternite mistiche) che vegetava ai tempi della Jugoslavia. Ma, appena giungiamo a Novi Pazar, quello che pareva un Islam all’acqua di rose, si rivela invece per quello che è: sunnita, marcatamente integralista ed intollerante verso lo stile di vita “all’occidentale”: un esempio del loro modo di concepire l’esistenza arrivò nel 2007, quando un gruppo di fanatici wahabiti, nell’intento di trasformare il sud della Serbia in un sobborgo di Riyadh, disperse con l’uso della forza degli spettatori che volevano semplicemente ascoltare il concerto di un gruppo rock… Veniamo accolti da incoraggianti scritte sui muri del tipo “Novi Pazar od smrt!” (Novi Pazar o morte!), o “Sandžak autonomija!”, un centro studi islamico che sembra tanto una replica di quelli sauditi, un rione-fortezza sulle cui mura sventola il vessillo verde dell’Islam, ragazzi dagli sguardi truci e barbe salafite, donne con vari gradi di vestiario addosso: dal semplice velo in testa (hijab) che accompagna t-shirt e jeans, a signore che di scoperto hanno solamente la faccia e le mani, coprendo tutto il resto con strati di abiti lunghi più o meno assortiti e colorati, il tutto in un vero bazar di altri tipi umani vestiti all’occidentale ed un traffico totalmente indisciplinato e privo di ogni regola stradale, peggio dell’Albania. Cercando un luogo dove parcheggiare, imbottigliati nel traffico, osserviamo gli anziani che sostano all’ombra degli alberi in piazza; attorno, un viavai di donne completamente velate e giovani integralisti che marciano fieri e spediti verso le moschee; gli anziani, in giacca e zucchetto, osservano, commentano, scuotono la testa appoggiati ai loro bastoni… basta questo a farci capire che nemmeno loro riconoscono più il mondo nel quale sono nati e cresciuti. Parcheggiamo l’auto in un parcheggio custodito proprio in centro al paese (cioè una piazzola in mezzo alle bancarelle delimitata con delle cancellate) e, tenendoci d’occhio reciprocamente, andiamo a farci un giro nel “Novipazarstan”, notando parecchie pattuglie di poliziotti di ronda. Giornata di mercato, perciò il centro è un vero bazar che offre di tutto: dai fagioli secchi alla ferramenta, dagli abiti da mercatino ai completi giacca e cravatta, con le automobili che passano indisturbate tra le file delle bancarelle; i minareti svettanti sorgono un po’ dappertutto; sappiamo anche esserci un antico hammam ormai quasi diroccato, che però, purtroppo, nella bolgia nella quale siamo immersi, non riusciamo a trovare. Tante gioiellerie che propongono patacche invero un tantino kitsch da Mille e una notte, gioielli per signore (coroncine, diademi, collari e pendenti da madonna del petrolio) che fanno riflettere sulla concezione della donna di una certa corrente islamica: in strada ti mando in giro coperta come un sacco di patate, però al chiuso, in casa, dove nessuno ti vede al di fuori di marito, amiche e parenti, ti agghindo come Sheherazade… Tra i gioielli destinati alla clientela maschile, furoreggiano i medaglioni coi gigli e le mezzelune (simboli della provincia musulmana di Bosnia). Le “boutique” per signora offrono caftani, chador, hijab, persino un niqab, come detta l’ultima moda araba, ed il negozio “Mecca” non lascia dubbi su questo, proponendo le ultime novità in fatto di moda giunte fresche fresche dall’Arabia. Tante le macellerie che propongono diversi tagli di carni e salumi invitanti, ma tutti, irrimediabilmente, affumicati; le panetterie offrono il classico pane tondo tipo “pita”. Facendo lo slalom tra rivoli acquosi di vario genere (anche qui, il sistema fognario… fa acqua da tutte le parti) ci arrampichiamo verso i muri della città vecchia, dove troviamo un parco ombreggiato e abbastanza ben tenuto; il caldo ormai comincia a diventare pesante, mentre qui si respira. Troviamo pure un cippo commemorativo delle forze alleate risalente alla 2^ Guerra Mondiale che recita in due epigrammi: “Per questo paese erano stati dei colossi, ideali brillanti che sapevano come difenderlo” e più sotto: “Ai soldati caduti nella guerra di liberazione nazionale ed alle vittime dell’occupazione fascista, che hanno dato la loro vita per la libertà ed il paese – Soldati Alleati della Guerra di Liberazione Nazionale di Novi Pazar – 7 luglio 1950”. Girare con questa temperatura mette sete, perciò scendiamo nuovamente nel traffico alla ricerca di una birra; di bar e localini ce ne sono parecchi e osserviamo che sono aperti, però stranamente sono vuoti e tutti hanno le sedie poggiate sui tavoli con le gambe all’insù… entriamo in un locale “etnico” (il “Sheherazade”, arredi in legno tagliati con l’accetta, pelli di pecora e piccoli kilim buttati sulle panche), al gentile gestore chiediamo se si può avere una “pivo” e lui, cortesissimo, in tedesco, ci risponde di no perché… siamo in ramadan! Argh! E’ vero! Ecco spiegati tutti i bar con le sedie rovesciate! E’ mezzogiorno passato, il sole picchia e… non si può mangiare né bere fino al tramonto! Non essendo ancora spiritualmente preparati e fisicamente allenati per tenerci la sete fino alle 21, non ci resta altro da fare che rimontare in auto e puntare nuovamente verso nord. Durante il tragitto, ci ricordiamo d’aver letto, circa una decina d’anni fa, una notizia curiosa sul Sangiaccato: una delle sue municipalità aveva lanciato una petizione in rete per cercare delle mogli, visto che la maggior parte della popolazione femminile era emigrata in cerca di lavoro, spesso come badante/colf e si rischiava lo spopolamento. Il Comune in questione, alle gentili signorine disposte a trasferirsi in queste contrade, offriva un ambiente incontaminato (verissimo, immondizia e sporcizia varia a parte), aria buona (confermiamo), campagna fertile (sì, altrochè!), pace e tranquillità (sigurno!), uomini gagliardi e pimpanti (non abbiamo dubbi), e, per ogni relazione sfociante in matrimonio, il Comune in questione offriva pure una casa e il contributo in denaro per l’arrivo del primo figlio, più altri vantaggi fiscali. Tutto un idillio? Non proprio: la regione in inverno si trasforma in una succursale della Lapponia, freddissima, con metri di neve, paesi isolati, spostamenti difficili… Ci chiediamo se l’appello, nel frattempo, sia andato a buon fine… Lasciamo così il Sangiaccato, col ricordo di una Novi Pazar incasinatissima, sporchetta e con un retrogusto fondamentalista (in terra serba) poco piacevole…

BANJA KOVILIAČA, TRA “HOSTEL” E “IL CUBO”…

Purtroppo, la nostra vacanza alla vila Alexandar deve terminare, perciò a malincuore ci stacchiamo da questo piccolo paradiso (e dalla tranquillità di Vrnjačka Banja) per approdare ad un’altra stazione termale serba, precisamente a Banja Koviljača, situata esattamente sulle rive della Drina, ad un tiro di schioppo dalla Bosnia (ogni riferimento a precedenti conflitti è puramente casuale). Purtroppo, dalle “stelle” si passa alle “stalle”, nel vero senso della parola. La cittadina è un buco dimenticato da Dio e dagli uomini poco saggi; tanto, tantissimo degrado, trascuratezza, sporcizia. Un esempio su tutti: l’automobile della polizia, parcheggiata davanti alla loro casermetta: una Fiat Punto scassatissima con l’intelaiatura in ferro del sedile che spunta senza pudore dall’imbottitura inesistente. Ci assale un senso di angoscia… Facciamo un giro fino al confine bosniaco per cercare un albergo decente: a Mali Zvornik, il ponte sulla Drina (munito di dogana) si può anche attraversare a piedi per raggiungere direttamente Zvornik, in territorio bosniaco. A 153 Km da qua, precisamente a Višegrad, si trova invece il “vero” ponte sulla Drina, cioè il protagonista principale del romanzo omonimo dello scrittore jugoslavo Ivo Andrić, testo fondamentale per chi vuole tentare di capire qualcosa della Jugoslavia di ieri e di quanto ne rimane oggi. La Drina fa da confine naturale tra il mondo ortodosso e quello musulmano, tra etnie, culture, lingue, alfabeti, religioni. Quello che invece accomuna benissimo i due popoli “ex-fratelli” è il degrado, pervasivo e onnipresente. L’unico albergo a Mali Zvornik non ci convince, perciò ce ne torniamo a Banja Koviljača nel solo albergo “termale” (Hotel Royal spa), che comunque lascia molto a desiderare: si paga in anticipo (da quando in qua? In un 4 stelle?), i corridoi sembrano una sorta di mix tra i film “Hostel” ed “Il Cubo”, bui, illuminati (si fa per dire) da faretti verde menta sistemati su ogni porta tanto da far sembrare l’intera struttura una sorta di gigantesca casa di tolleranza; camera minuscola e tristissima col soffitto che si abbassa in uno scalino fino alle finestrelle, con letti separati, lenzuola fresche di bucato ma, ad un attento esame, scopriamo che il lenzuolo di sotto ha una bella impronta di scarpa da ginnastica stampata all’altezza del cuscino, le ciabattine per gli ospiti sono dello stesso tenore della Punto della Polizia vista prima (dev’essere il folklore locale), la colazione è da dimenticare ed il succo d’arancia, a parere di Max, sembra “pipì di gatto”. Avremmo fatto meglio a rivolgerci agli appartamenti di privati, sicuramente saremmo stati trattati meglio… come dimostra l’ottimo trattamento del “Rostilj Park” (rosticceria al parco), locale a gestione famigliare che offre grigliate strepitose, birre alla spina ottime, piccole attenzioni per il cliente (come quando ci hanno chiesto se gradivamo il pane messo ad abbrustolire vicino alle pljeskavice sfrigolanti: altrochè!). L’unico luogo tenuto bene è il parco cittadino, per il resto, è da piangere. Non mancano solamente i soldi, manca la cultura del fare, del bello, del vivere nel pulito. A confronto, Vrnjačka Banja sembrava Cortina d’Ampezzo.

CONSIDERAZIONI FINALI, TRA LUCI ED OMBRE

SERBIA: LA VITA

Partiamo dalle strade? Le solite: tutte un bieco, un misto tra la vecchia, cara Jugoslavia di ieri e l’Ucraina di oggi (per le buche come voragini). Il parco auto è logicamente variegato: dai mastodontici Hummer alle mitiche Yugo Koral legate col fil di ferro, basta che funzionino… Cespugli di rovi dappertutto anche in città, però almeno non è la solita giungla che ci ricordavamo; rifiuti dappertutto a bordo strada, trovare una via senza una cartaccia è un’impresa (solamente a Novi Sad e Vrnjačka Banja abbiamo trovato pulizia come si deve). Il reddito medio non è dei più floridi, i salari sono tremendamente bassi e la vita non è proprio semplice: una ricerca di questi giorni (fonte: Eurostat) dice che sono proprio i Serbi, tra tutti i paesi dell’ex “Cortina di Ferro” a cavalcare la classifica di chi non può permettersi nemmeno una settimana di vacanza: ben il 68,5% non ha i mezzi necessari per “staccare” qualche giorno. Ma nonostante ciò, da nord a sud, non abbiamo fatto altro che vedere “piccioncini” dappertutto, di tutte le età. E quando c’è l’amore, c’è tutto, dicono! Un aspetto che manca da troppo tempo ormai nel nostro ricco “Occidente”. Come dimenticare il “ljubi most” (ponte dell’amore) a Vrnjačka Banja, completamente sommerso dai lucchetti appiccicati dagli innamorati come promessa d’amore eterno? Poveri, ma belli! E che romanticoni!
Lingua ed alfabeto: il cirillico serbo presenta dei dittonghi tutti suoi che non sono presenti né nel russo, né nell’ucraino, né nel bulgaro, per cui all’inizio ci si trova un po’ disorientati, ma il disorientamento lo si supera subito mediante la pratica. Quello che non abbiamo capito è come mai in qualche posto il pane lo chiamano “hleb” (come in russo) ed in altri lo chiamano “kruh” (serbo-croato)… misteri glottologici. In quasi tutte le località turistiche conoscono l’inglese; ma conoscendo comunque qualche parola di serbo-croato, ci si comprende senza troppe difficoltà, anzi, la gente apprezza tantissimo lo sforzo che si fa per leggere il cirillico e rivolgersi in serbo; e se qualche parola in inglese non sovviene ed il corrispettivo serbo ci è sconosciuto, ci si aiuta col croato, e l’interlocutore apprezza lo sforzo e ci corregge nella pronuncia, per poi attaccare un bottone infinito… Quasi dappertutto abbiamo trovato persone disponibili, pazienti e gentili.

LA GENTE

Abbiamo notato che in terra serba non è ancora arrivata la fisima del fisico bestiale a tutti i costi. Quindi un qualsiasi uomo adulto e maturo, se non ha un minimo di pancia, vien visto male. Idem dicasi per le donne: dopo la trentina-quarantina, è consentito lasciarsi andare giusto quel po’ (ma non troppo!). Perciò attorno a noi gravita un campionario umano omogeneamente variegato. Tantissimi bambini di tutte le età sciamano vocianti (ma con misura). I rappresentanti del genere maschile sono per la maggior parte degli armadi 4 stagioni e paiono pronti ad andare in guerra da un momento all’altro. Le signore, invece, quelle nate sotto la Jugoslavia (diciamo dai quarant’anni in su) sfoggiano imperterrite capigliature con la solita tintura al minio; qualcuna osa anche un più sobrio melanzana; occhi bistrati con l’eye-liner con la virgola all’insù, “cofane” in testa stile Moira Orfei, e non manca mai di incrociare per strada qualcuna con un bel bigodino per la frangia. Le ragazze, parecchie bellissime, sono decisamente più sobrie! Nel complesso, la popolazione finora incontrata è decisamente migliore di quella che si incontrava fino a circa 25 anni fa; tutti molto alti, ben piantati e generalmente bella gente; le dentature a rastrelliera sono solamente un pallido ricordo! Ma certe tradizioni sono dure a morire: per esempio, le cameriere “d’antan” indossano ancora quelle terribili (ma, ahinoi, comodissime) calzature in tela coi lacci che lasciano scoperto il tallone… Nota d’invidia: a parte un pensionato che leggeva il giornale ed un giovane endurista, qui nessuno porta gli occhiali da vista. Negozi di ottica ce ne sono, ma per lo più vendono occhiali da sole. Evidentemente, dev’essere per il fatto che per secoli hanno dovuto aguzzare lo sguardo per scorgere in tempo l’arrivo del feroce ottomano e quindi… Nota negativa: guidano tutti spericolatamente. Il serbo al volante è un pericolo costante; ormai non contiamo neppure più la serie infinita di sorpassi azzardatissimi, conversioni suicide, mancate precedenze, stop non rispettati…

FLORA, FAUNA & CEMENTO

La Serbia è un paradiso ornitologico e pure entomologico: libellule di tutti i tipi, cervi volanti, perfino le lucciole! Nel ruscello che scorre a Vrniačka Banja, alla sera i canti delle ranocchie innamorate sovrastano persino i rumori dei veicoli in transito! Tutto il nostro viaggio si è srotolato attraverso luoghi verdissimi e ricchissimi d’acqua. Alberi di tutti i tipi, anche essenze esotiche (querce americane, liquidambar, ecc), e immancabili i tigli in fiore, dal profumo estremamente intenso e diverso da quello che si percepisce da noi oppure in Slovenia. Tante, tantissime rose (passione nazionale, assieme alle cipolle) che profumano l’aria per ogni dove (come le cipolle), assieme ai gigli, agli iris selvatici bianchi e gialli. Gatti a vagonate, magri magri… randagismo canino sì, ma meno che in Grecia (piaga nazionale). Se il Paese non fosse così in crisi, sicuramente le varie municipalità riuscirebbero a valorizzare ogni singola collina: dappertutto ci sono dei cartelli che reclamano “cose interessantissime, importantissime, eccezionali!”, ma poi la storia finisce là, perché non ci sono i soldi per portare il turista a vedere queste peculiarità int-imp-ecc. Perfino i cartelli per i monasteri, vanto nonché monumenti nazionali, sono sbiaditi e mal tenuti, per non parlare delle erbacce invadenti a bordo strada che comunicano una sorta di abbandono del bene comune. Tante villette e villini pretenziosi, con lavori mai finiti, in stato di abbandono oppure col cartello “prodaja” (vendita); proprietà di comunità zingare oppure tirate su coi proventi del contrabbando? Città, paesi e periferie si contraddistinguono comunque per il classico stile balcanico, cioè un casino dappertutto e regole quasi a zero.

***
Per essere stata una destinazione da “piano B” dell’ultimo momento… bè, non è stata un’esperienza così negativa. Spiace molto per aver trovato tanto degrado e anche miseria dove non te l’aspetti (la Punto della polizia…), ed il mancato senso civico in parecchie occasioni (rifiuti disseminati dappertutto, gettati dalle auto in corsa, persino nei fontanili a bordo strada!). Il senso che se ne ricava è di un Paese che è stato bastonato dagli eventi storici degli ultimi trent’anni (come dimenticare le guerre fratricide culminate con il bombardamento NATO su Belgrado nel 1999?), in alcuni angoli perfino stravolto nel suo tessuto sociale e territoriale (Sangiaccato), annichilito da decenni di propaganda diffamatoria, malgoverno, classe dirigente litigiosa, e che ora si ritrova con una popolazione stanca, immiserita, che sulla scena internazionale deve lottare per scrollarsi di dosso la nomea di “popolo cattivo” ma che, nonostante ciò, ha ancora ben radicato il senso della famiglia (i “piccioncini”!) e della fede cristiana (davvero fortemente sentita). Le torme di bellissimi e sorridenti bambini che abbiamo visto dappertutto, il loro futuro, si meritano di più di tutto ciò. Siamo convinti che, con la buona volontà, i serbi possano farcela, come hanno dimostrato ampiamente i cugini russi. Basta volerlo.





4 commenti:

Ugo ha detto...

Alcuni luoghi sono un enigma. Altri una spiegazione. Sembra perfetta questa frase di Fabrizio Caramagna che mi è venuta in mente dopo aver "viaggiato con voi in Serbia". Meta insolita e non prevista, ha squadernato centinaia di dati per noi lettori, ancora all'oscuro sugli usi e costumi della nostra Europa. Perfetta l'opzione dell'alloggio improvvisato: trovi quello che il paese offre. Solo così puoi testare l'ospitalità turistica, l'imprenditorialità, la fantasia e la voglia di ricominciare di una terra difficile. Dal bel racconto di viaggio si può intuire la "piccola voglia di Occidente" di questo mondo balcanico, unitamente alla "grande voglia levantina" di restare avvolti in un eterno bozzolo guerriero, primitivo e affascinante che niente riuscirà a scalfire. Bravi! Ci avete ancora una volta fatto viaggiare ... senza muoverci da casa nostra.....

max ha detto...

Grazie Ugo per aver postato il tuo personale e sentito commento e per averci fatto conoscere gli aforismi di Fabrizio Caramagna, una vera sorpresa! L’alloggio improvvisato è dettato dalle necessità di viaggio, dalla stanchezza e, non ultimo, dal sottile piacere della sorpresa: prenotando in anticipo, ci toglieremmo una componente fondamentale del nostro stile di viaggio: l’incognita dell’alloggio! La Serbia, come tanti paesi balcanici, è in un eterno e precario equilibrio tra Oriente ed Occidente, in un continuo moto perpetuo, senza mai riuscire a prendere una posizione netta. Forse anche questo aspetto accentua il fascino dei Balcani. Nonostante lo scarso tempo a nostra disposizione, cerchiamo sempre di conoscere e far conoscere luoghi, paesi e rotte poco battute dal turismo classico, sì da invogliare chi ci legge a partire per queste mete ancora poco conosciute.

Majda ha detto...

you make me feel like a real traveller! But: what about mosquitos? Serbia seems very moisture....

max ha detto...

Thank you Majda, THIS is the mission of our blog: to make feel people like our travel friends! No mosquitos: it looks amazing, but maybe we were just lucky!