8.575 Km in 18 giorni, 135 ore di guida fra 6 Stati, 3 capitali, Circolo Polare Artico, Capo Nord, 1 fuso orario, e la residenza di Babbo Natale!!
(clicca sulla cartina per ingrandire)
Capo Nord in foto (clicca qui)
NELLA TERRA DEI TROLL
Nordkapp 2014
Viaggio a Capo Nord. Sshhh….
Sussuriamolo così: Caaaapo Nooord… solo a pensarlo mette addosso il brivido
dell’avventura! Come gli esploratori dell’Ottocento, ci mettiamo a sognare
epiche avventure in desolate terre scandinave!
Perché Capo Nord? In
fin dei conti, è quell’”Occidente” che a noi poco attira. Infatti, quest’anno
dovevamo approdare a ben altri e più ambiziosi lidi. Come l’Oceano Pacifico, ad
esempio… e goderci l’alba di Vladivostok. E l’avvenimento dei 50 anni di Max - traguardo simbolico ma significativo per un uomo
con la strada nel sangue e l’avventura nel cuore - era anche l’occasione per far riposare un po’
il pilota. Più precisamente, volevamo festeggiarli concedendoci un’avventura
“ferroviaria” (e chi vuol intendere… intenda!).
Ma dopo oltre 4 mesi di
farraginose trattative con l’agenzia, abbiamo gettato la spugna: sembra che per
raggiungere Mosca in aereo (a settembre) e anche per limare un po’ il
preventivo, si debba per forza fare il giro degli aeroscali di mezz’Europa,
idem dicasi per il rientro da Vladivostok. Sconfortati, ma non vinti, ci siamo
messi, come da tradizione, a guardare la solita carta d’Europa appesa in
corridoio… I cinquant’anni sono un traguardo, una linea di confine che
attraversa l’orizzonte della vita, dalla quale ripartire con frizzante slancio per
un nuovo inizio. E quindi, sfumato l’orizzonte asiatico, non ci rimaneva che il
“limes” europeo. Portogallo, Lisbona, l’Atlantico? Naaahh, troppo Occidente,
non fa per noi! Lampedusa? Troppo a sud (e troppo facile…). Urali? Già
attraversati, gente! E allora? Allora l’estremo confine nord dell’Europa, che
diamine! Capo Nord!
Ed ecco che, a fine
giugno, l’idea prende corpo. Ed è una sfida, perché i giorni di ferie sono,
come al solito, pochini (18), e quindi sappiamo già che sarà una lunga ed
ininterrotta maratona stradale per percorrere i 3.985 Km che ci separano dalla
meta (e non dimentichiamoci il ritorno!).
Raccogliamo in giro
informazioni circa i costi. Tutti ci confermano che la Scandinavia, in sé, è
una meta piuttosto cara (e la palma dello Stato più esoso sembra che se la
contendano Svezia e Norvegia, tallonate da Finlandia e Danimarca). Molti ci consigliano caldamente
l’ipotesi camper almeno per risparmiare sugli alloggi, tutti ci esortano a fare il pieno di scatolette e generi alimentari
pronto-uso per evitare che la vacanza si trasformi in un salasso finanziario.
E così, dopo aver
ultimato l’itinerario a puntino per ottimizzare giorni/chilometri, ci facciamo
un’idea del camper. Il noleggiatore dei caravan al quale ci rivolgiamo, gentilissima
persona, si prodiga ad illustrarci le
meraviglie della vita “en plein air”, della totale libertà che un simile mezzo
ci regala, senza considerare il fatto che in tutta la Scandinavia esiste la
possibilità di sostare praticamente dappertutto senza divieti di sorta (o
quasi), ed evitare di diventare matti per cercare un campeggio o comunque un
posto attrezzato…. Il camper che vediamo è veramente molto bello, adatto per due/quattro
persone, nuovissimo, perfetto, un delizioso appartamentino su ruote. Quelli che
non ci convincono sono i numerosissimi (e, a dirla tutta, sacrosanti) paletti
che il gestore applica al cliente, inclusa la perfetta pulizia con tanto di
aspirapolvere prima della ri-consegna (e ciò vuol dire sacrificare almeno una
mezza giornata di vacanza per restituire il mezzo lustro e lindo), nonché le
forti penali per ogni mancanza. Avendo
più giorni a disposizione, non avremmo battuto ciglio, ma con i giorni contati…
Decidiamo di lasciar perdere. Tanto, ci
diciamo per autoconvincerci, partiamo a fine estate, la bella stagione è ancora
favorevole, non avremo difficoltà a trovare magari un campeggio con bungalow
lungo le strade della Scandinavia, no? Le ultime parole famose….
L’ANDATA
SABATO
DEUTSCHLAND über alles…?
Con il bagagliaio pieno
di cibo in scatola, il primo sabato di tarda estate salpiamo alla volta
dell’Austria e della Germania, dove concluderemo la prima tappa. Il viaggio
procede tranquillo lungo tutto l’asse autostradale regionale, valichiamo le
Alpi e siamo in Austria, con una leggera pioviggine. Piccola sosta per
l’acquisto della vignetta e proseguiamo alla volta di Salisburgo. Non ci è
chiaro perché dobbiamo pagare un ulteriore pedaggio nel tratto di autostrada
che attraversa i Tauri (11,00 €), quando già abbiamo versato 8,50 € per la
vignetta settimanale… Superata Salisburgo, incrociamo un cartello che indica il
paesotto di Braunau… Inevitabile il mentale rimando al villaggio natìo di un
certo Hitler Adolf, fu Alois. Scolliniamo e siamo già in Germania; vediamo le
indicazioni che portano a Berchtesgaden, il Nido d’Aquila… nonostante il
paesaggio da cartolina, questi nomi riportano alla mente sinistre memorie
storiche. Entriamo così nel Land più grande di tutta la Germania, la verdissima
Baviera (Bayern). Per Max (scali aerei di due anni fa a parte) è la prima
volta, per me è la seconda, a distanza di 25 anni; era novembre, molta nebbia e
buio, il paesaggio non così gaio e vivido. Ora, con la luce del sole
pomeridiano, ci appare splendida. Incantevoli paesini incastonati tra i monti,
campagne curate, attenzione per il paesaggio, e la lingua tedesca che, se per Max è poco più familiare dell’ostrogoto,
per me evoca reminiscenze di una vita precedente. E, über alles, quella Gemütlichkeit,
ostico termine che… spiegherò al ritorno!
L’autostrada germanica
si snoda, quasi a perdita d’occhio, tra filari e filari di coltivazioni di
luppolo maturo, ingrediente
indispensabile per la produzione della rinomata birra, luppolo così pregiato
che viene esportato ai quattro angoli del mondo. I campi sono attigui
all’autostrada ed abbiamo modo di osservarli con attenzione, a velocità di crociera,
anzi, quasi a passo d’uomo… Com’è noto, le autostrade in Germania sono gratuite
e non ci sono limiti di velocità. Ma, con la bella stagione, le autobahn diventano un immenso cantiere.
Dal confine austriaco, almeno fino a Norimberga, un traffico pazzesco ci
obbliga a continui rallentamenti, salti di corsia, deviazioni, scavalcamenti di
cantieri aperti per ogni dove, lavori in corso che sembrano infiniti e che
obbligano a mantenere velocità improponibili (anche 40 km/h in certi punti)
esasperando gli automobilisti, che infatti corrono nonostante i divieti e
sembrano tutti schegge impazzite. E’proprio vero che per guidare qui ci
vogliono nervi d’acciaio. E, giocoforza, ci sono anche degli incidenti, uno dei
quali con esito fatale, a giudicare dal groviglio di vetture (ne ho contate
tre, fuse assieme) e dalle autoambulanze e camion di pompieri. Da Norimberga in
poi i cantieri diminuiscono e si può viaggiare senza limiti. Uno strazio,
comunque, anche per il caldo, un tantino fastidioso. Un lato positivo di queste
autostrade, però, è la totale assenza di antiestetici cartelloni pubblicitari,
eccettuati quelli turistici (tutti uguali, crema/marroni) relativi alle città
d’arte o ai parchi naturali. In tal modo si percorrono km su km e lo sguardo
spazia attraverso il paesaggio riposante, senza inopportune interferenze
pubblicitarie. Si avvicina l’ora di cena, e dobbiamo cercare un posto dove
dormire. L’impresa si fa ardua, non perché manchi l’offerta, tutt’altro, ma
perché sembra che qui si risparmi sull’illuminazione pubblica e i cartelli che
indicano alberghetti o gasthof sono
molto piccoli e tutti di color marrone; nella fioca luce dell’imbrunire,
individuarli dall’auto in movimento è una bella sfida. Finalmente ne troviamo
uno a Bayreuth, un piccolo centro antico dell’alta Baviera, cittadina un po’
smunta e scura, coi nomi delle vie scritti in gotico, famosa perché in estate
si tiene il festival wagneriano. L’hotel “Goldener Hirsch” (al Cervo d’Oro) è
un simpatico hotel a gestione familiare fin dal 1920. La receptionist è una
simpatica e pacioccona signora stampo frau Merkel, in costume tradizionale bavarese
guarnito da micidiali sandali tipo Birkenstock coi calzini bianchi… eh, sì,
siamo proprio in Germania! Con prima colazione e parcheggio, la camera ci costa
115,00 €, che sembrerebbero un’esosità, ma considerando che la camera è in
effetti un appartamentino con angolo cottura, con tutti i comfort e modernità (abat-jour
azionati dal soft-touch…). Ceniamo poco distante, al gasthof “Grüner Baum”
(all’Albero Verde), severa costruzione ottocentesca ingentilita da un enorme
tiglio in giardino. Ovviamente, essendo un centro “wagneriano” anche i piatti
proposti dal locale sono tutti ispirati alle opere di Wagner… e quindi vai col
piatto “Parsifal”, cioè salsicce chiare pepate, crauti col ginepro, pane di
segale, senape, patatine e, ovviamente, ottime birre locali. Avendo fatto tutta
una tirata da stamattina, la fame si è fatta sentire! Nonostante la movida del
sabato sera proprio sotto alle nostre finestre, riusciamo ugualmente a prender
sonno, cullati dai piumini in un letto che sembra una piazza d’armi.
Domenica
Approfittiamo
dell’abbondante buffet per una colazione con tutti i crismi. Destinazione
Rostok, sul Baltico, dove passeremo la notte per poi prendere il traghetto per
la Danimarca. Lasciamo la Baviera e le sue dolci colline per attraversare le
pianure della Turingia (Thüringen), ex Germania Est. Si nota che siamo nella ex
DDR solo perché le industrie lasciano il posto ad una comunità più agricola che
industriale. Residui della “Cortina di Ferro” appaiono ancora a sprazzi nella
campagna, sotto forma di brandelli di reticolati e filo spinato.
Anche qui campi a
perdita d’occhio e selve di pannelli fotovoltaici e pale eoliche, roba che noi
ce la sogniamo. I Länder (Turingia, Sassonia e Bassa Sassonia, Brandeburgo,
Meclenburgo-Pomerania) si susseguono tutti e, nonostante sia domenica, tentiamo
di destreggiarci fra il traffico impossibile e la guida sregolata dei tedeschi
(e non solo), esasperati dai continui cantieri. Il paesaggio da collinare si fa
piattissimo, mentre appena verso il Brandeburgo si intravvedono timide colline
moreniche, relitti dell’ultima glaciazione. Qua e là il solito cartello
turistico crema/marron che decanta le particolarità del luogo (la casa natale della
moglie di Dürer, la patria di Lutero, i parchi nazionali, ecc) che invitano a
deviare per una rilassante sosta. Di tempo per fermarci proprio non ne abbiamo,
però, in questi lunghi km di autostrada, si coglie quello spirito del pellegrino
che invita a fermarsi un attimo e riprendere fiato. Numerosissimi sono i
circuiti ciclo-pedonali e parecchi sono i gitanti e i ciclo-turisti che
affrontano i sentieri che si srotolano in questo paesaggio verdissimo e
tranquillo, attiguo eppur lontano dal traffico autostradale e dallo stress in
genere. Se il tedesco, sulle locali autobahn
corre come un matto, sulle ciclo-pedonali ha modo di rilassarsi e riprendersi
dallo stress della guida. Sembra veramente un territorio a misura d’uomo,
sicuramente a misura di anziano e bambino. Ho deciso: quando saremo vecchi e
non avremo più voglia di macinare km in auto, verremo qui e, mentre Max si
godrà le terme e si farà fare i massaggi da qualche florida fräulein, io assaporerò finalmente la
Germania come piace a me: a piedi! (Max dissente… J).
Nei pressi di Berlino
tentiamo di prendere il ring esterno, ma causa continui lavori e deviazioni
fuori rotta, finiamo per forza in centro città e ci mettiamo oltre un’ora per
uscirne. Di primo pomeriggio attraversiamo l’ultimo Land dell’andata, cioè il
Mecklenburg-Vorpommern (Meclenburgo-Pomerania, l’antica Prussia) e verso le 18.00
siamo a Rostock, sul mar Baltico. In teoria dovremmo passare una notte qui, ma
visto che è presto per cercare un albergo, ne approfittiamo per una capatina al
porto ad informarci sugli orari dei traghetti per la Danimarca. Uno è appena
partito, ma il prossimo parte alle 20.00. Decidiamo di avvantaggiarci sulla
tappa di domani, perciò alle 19.00 sbrighiamo il check-in (112 € sola andata)
e, col biglietto in mano, attendiamo il nostro turno direttamente sul molo. Ci
guardiamo attorno, pioviggina a tratti ma non fa freddo. Alle 19.45 il Prins
Joachim della Scandlines si avvicina alla banchina per l’attracco. Osserviamo
chi si imbarcherà con noi; parecchie facce zingare, poi polacchi, tedeschi,
danesi, qualche svedese, cicloturisti inglesi, e osserviamo chi sbarca: grosso
modo le stesse nazionalità, diversi camper e roulotte, molti turisti a piedi o
in bicicletta. E’ il nostro turno, il traghetto della compagnia danese sembra
la balena di Pinocchio e, molto celermente, ci inghiotte tutti. Ci accomodiamo
nella sala di uno dei ponti con vista mare; ormai sono le 20.00 passate, e si
fa buio. Con qualche fischio di sirena, ci stacchiamo dal molo e diciamo
arrivederci alla patria dei teutoni per fare rotta nella patria dei vichinghi.
Il natante è strapieno di gente, sono le 21.00 e ci viene fame. Vado
perciò a cercare un boccone, ma sembra
che invece di passeggeri, la nave sia piena di cavallette fameliche: quando arrivo
ai self-servis, non c’è rimasto nulla! Non mi resta che ripiegare su una specie
di bar (già con la serranda quasi abbassata) che offre hot dog e birre in
lattina; e così, con due striminziti würstel scaldati al microonde e Carlsberg
da 0,33, consumiamo la nostra prima cena danese, cullati dal lieve rombare dei
motori della sala macchine.
DANIMARCA, la grande piattezza.
Alle 22.00 sbarchiamo
sull’arcipelago danese, precisamente a Gedser, sull’isola di Falster. Anche se
è buio, la piattezza del territorio la si intuisce ugualmente. I nostri fari
abbaglianti illuminano con facilità anche i cartelli stradali più distanti,
tanto non ci sono curve o dossi a mascherarne l’esistenza. Attraversiamo la
campagna bagnata dal mare, ma dimenticarsi l’odore di salsedine; il Baltico
offre aromi freschi di umido, piante,
menta, alghe, sabbia bagnata. Piove, fa ancora piuttosto caldo (18°), ma le
previsioni viste sul tabellone luminoso a Rostock davano tempo in miglioramento.
A Nykøping, sempre isola di Falster, troviamo alloggio all’hotel… Falster
(quando si dice la fantasia danese), per 650 corone (circa 85,00 €).
Lunedì
Alloggio niente male,
colazione nella saletta ricavata da un container; quello che ricorderemo a
lungo, saranno i formaggi danesi: tra i tanti, segnaliamo un cubo di latticino
a metà strada tra il taleggio e il fontina, meravigliosamente gustoso e
iper-calorico, da tagliare a fettine a mezzo di una specie di filo d’acciaio sistemato
su un perno a vite (tipo una girolle)
che si fa scorrere al di sopra del cubo; ogni giro, una fetta… Ad un certo
punto, ci siamo fermati perché sembrava che non avessimo mai visto un formaggio
in vista nostra…!
Satolli, ci mettiamo in
marcia alla volta della Svezia, via Copenhagen; campagna verdissima e “grassa”,
cioè si intuisce che le terre sono molto fertili; le casette sono
caratteristiche, quasi tutte ad un solo piano, di vari colori, e sembrano
uscite tutte da una scatola di Lego; ogni tanto spunta un mulino a vento, e tra
mucche e pecore, pascolano perfino i caprioli! Superiamo la capitale danese per
imboccare il ponte sull’Øresund che ci porterà fino a Malmö, in Svezia. Che
meraviglia! La prima parte del ponte la si percorre… sott’acqua! Dopo pochi km di
galleria subacquea sbuchiamo all’aperto e siamo ormai sul braccio di mare che
separa l’arcipelago danese dal sud della penisola scandinava; il sole alto crea
fantastici riflessi sul mare e gioca con le strutture metalliche del ponte;
dappertutto, file di impianti eolici “off-shore”, e ci chiediamo quanto, alla
fin fine, tra manutenzione e trasporto di elettricità, facciano risparmiare
sulla bolletta elettrica. Sicuramente, danno un tocco di “movimento” in questo
nulla fatto di mare e cielo che si fondono in un orizzonte infinito. Un’ultima
infilata di cavi d’acciaio, e sbarchiamo in Svezia, dopo aver pagato il
pedaggio (64,00 €).
SVEZIA, l’educata in estinzione.
Piccola sosta in una
piazzola autostradale (anche qui, autostrade gratis, ma decisamente più
scorrevoli) e proseguiamo in terra scandinava, nella regione di Skåne (la più
nota Scania). Speravamo di trovare un cambia valute, o almeno una banca appena
oltre confine, invece nulla di nulla.
Ci lasciamo alle spalle
il mare, ora a far da quinta ci sono continui filari di abeti, betulle, pini, aceri,
ancora abeti, betulle, pini e via così all’infinito. Ci entusiasmiamo per il
traffico scorrevole, per i tanti laghetti e corsi d’acqua che punteggiano la
campagna verdissima, le caratteristiche casette di legno rosse dagli infissi
bianchi… Sono tanto carine, trasmettono l’idea di una vita semplice, frugale,
ma al tempo stesso sembrano accoglienti… Campi da golf ovunque, un’infinità di
cavalli al pascolo, anche atleti, protetti dall’umidità con eleganti gualdrappe
e trattati con tutti i riguardi.
Ma, mentre scorrono
veloci e rilassanti centinaia di km, ci rendiamo conto di incontrare sempre la
medesima campagna, le stesse foreste, gli stessi fiumi e laghi, idem per il
paesaggio urbano e rurale, le stesse identiche casette rosse… 2.000 e passa km
di Svezia, e ti accorgi che di queste casette, vista una, viste tutte. Inevitabile
il rimando a casa nostra: ti basta percorrere un centinaio di km in Italia e
torni a casa stordito da troppa roba vista (…e mangiata!). La creatività
architettonica rurale svedese forse non è proprio il loro forte.
All’ora di pranzo
cerchiamo un posto dove fermarci per un boccone. Usciamo dall’autostrada e ci
dirigiamo verso un paesino che sembra uscito dai racconti di Astrid Lindgren;
tutto lindo, pulitissimo, ordinato; vediamo un ragazzo, con giubbino fluo e
cuffiette, intento a raccogliere le cartacce con un bastone a pinza; a ritmo di
musica, passa la sua giornata a raccogliere rarissimi rifiuti; sicuramente non
avanzerà pretese di indennizzo per “mestiere usurante”…. Parcheggiamo in uno
spiazzo davanti ad una piscina vuota di un centro estivo ormai chiuso. Per
cercare il nostro “pranzo” dobbiamo ribaltare mezzo bagagliaio, e per far ciò bisogna
scaricare parte dei bagagli in strada. Primo contatto con il popolo svedese; un
ragazzo che passa di lì ci saluta educatamente, e non si fa minimamente un
problema di questi due stranieri che hanno scaricato bagagli e scatoloni e si
apprestano a pranzare in piedi con delle scatolette; come appureremo in
seguito, gli scandinavi sono un popolo molto educato, riservato, e che si fa,
educatamente, i fatti propri. Riempito (si fa per dire) lo stomaco, ne
approfittiamo per cercare una banca dove cambiare gli euro. Dopo un paio di
giri per il paesino lindo&pinto, troviamo la banca. Ma, sorpresa, alla
porta è attaccato un foglio che recita in inglese “non si cambia valuta straniera”.
Simpaticoni! Perplessi, ci rimettiamo in marcia verso nord. Tentiamo di fare il
pieno di gasolio. Tentiamo, appunto. Qui la vita gira a ritmo di carta di
credito. E tutte le pompe funzionano solamente se inserisci una qualsiasi tessera
bancaria. Ma attenzione: certe pompe accettano solamente carte munite di chip;
e quindi: no chip, no fuel! Ed hai voglia a perder tempo per cercarne una che
accetti carta senza chip…
Sempre più perplessi,
cerchiamo un camping per la serata (ne abbiamo visti parecchi lungo la strada).
Ma, ennesima sorpresa! Chiudono tutti molto presto. Nonostante il sole non sia
ancora tramontato, con notevole disappunto ci accorgiamo che i campeggi
chiudono tutti tra le 17.00 e le 18.00 nei feriali. In quello che offre anche i
bungalow ci arriviamo alle 18.40. Troppo tardi. Cominciamo ad intuire perché i
turisti vengono fin quassù in camper…
Preda di una
perplessità senza fine, ci dirigiamo verso la cittadina di Mariestad, e
troviamo alloggio all’hotel Vänerport, con vista lago (enorme). Visto da fuori
sembra una delle tante abitazioni in doghe di legno chiaro, sobrie e dignitose
ma, appena messo piede all’interno, ci appare evidente che si tratta di un “hôtel
de charme” e che forse il prezzo non sarà altrettanto sobrio e dignitoso…. Lo
stile gustaviano si annuncia già dalle scale in legno color panna e dagli
arredi austeri e signorili, sempre in legno chiaro. Ci si fa incontro la
receptionist, bella signora dai tratti solidi, che ci illustra il prezzo (1.250
corone, circa 136,00 €) e gli orari per la prima colazione… che vuoi farci?
Ormai siamo qui, siamo stanchi e non ci resta che dirle di sì… Considerando che
siamo senza valuta locale e considerando altresì che un collega di Max, poche
settimane prima, a Stoccolma per una pizza e due birre aveva speso la bellezza
di 70,00 €, decidiamo che faremo una bella cenetta romantica in camera! Sì, ma
vuoi mettere… che camera? Sempre stile gustaviano, ma reinterpretato in chiave
moderna, tutto sui toni dall’avorio al caffè, con tappeto marron di pelliccia
(sintetica), plaid di pelliccia (ecologica), tappezzeria beige a striscioni e, coup de théâtre, splendidi abat-jour di tela
rivestita da piume di germano reale… Il tutto in un trionfo di stucchi dorati,
poltrone pompose, lampadari a goccia… In questo scenario teatral-kitsch, la
nostra cena a sgombro e Manzotin ci appare proprio… très chic!
Ultima nota di colore
locale: ceniamo guardando i programmi offerti dalla tv svedese. Vuoi imparare
la lingua guardando la TV? Impossibile: la maggior parte dei canali nazionali
offre programmi in lingua inglese (con sottotitoli) o norvegese (idem). E
persino le soap opera svedesi hanno i colori smorti che vediamo attorno a noi.
Ci assale un senso di inquietudine…
Martedì
Dalle nostre finestre
vediamo il lago che emerge dalle brume mattutine. Prepariamo i bagagli e
scendiamo per la colazione, i nostri passi attutiti da morbidi tappeti sparsi
dappertutto. Quella che ci si para davanti non è una sala da colazione, è il
rifugio segreto di Pantagruel. Sui tavoli agghindati con belle tovaglie bianche,
troneggiano un’infilata di alzate e alzatine che offrono trionfalmente ogni
tipo di frutta esistente al mondo; bè, passi la frutta, è bella da vedere e
sana per la colazione. Ma, abbiate pazienza, il buffet che questo “charme
hotel” offre vale davvero la pena di essere raccontato. Si parte con: le
classiche polpettine svedesi (calde, ovvio) e würstel mignon (caldi), mezze
uova sode condite con aneto fresco, due tipi diversi di salmone affumicato, due
tipi di prosciutto cotto, uno di prosciutto crudo e uno di salame, tre tipi di
formaggio compreso una specie di brie da tagliarsi a volontà, 4 tipi di pane fresco
diversi, 5 varietà di tè, latte caldo e freddo, caffè all’americana, succo
d’arancia, di mela, di frutti rossi, brocca d’acqua col lime, macedonia, miele,
marmellate, burro, margarina, 3 salse diverse per il cibo salato, 5 varietà di
cereali, jogurt bianco e alla frutta, pomodori, cetrioli, cestini con innumerevoli
tipi di crackers ai cereali, e non possono mancare i vassoi con i dolci, tanti….
Mancava soltanto l’arrosto con le patate, e poi la colazione era al completo.
Quasi quasi al posto del tè pensiamo di prenderci una birra… sì, c’è anche
quella, nel frigo apposito… Non ci resta che accomodarci su gustaviane poltrone
e approfittarne: una pantagruelica colazione fa in modo che a pranzo si possa
solo fare un micro spuntino, in modo da non perdere tempo e ore preziose di
luce, e rimandando la fatidica scatoletta alla cena…
Sazi e felici,
rotoliamo in auto e, seguendo la bussola che indica il grande Nord, siamo
pronti a macinare altri km su strade e statali. Prima di imboccare l’autostrada
(semideserta), attraversiamo diverse cittadine, ed osserviamo il viavai di
gente; ci chiediamo dove siano finiti gli svedesi: l’autista dell’autobus è
eritreo, gli operai stradali zingari, il pizzaiolo mediorientale, il benzinaio sudamericano…
in giro si vedono perlopiù persone basse e scure… Diversi sono i nuclei
familiari provenienti chiaramente dal Corno d’Africa, e negli sguardi di queste
genti, in abiti tradizionali, si coglie lo spaesamento. Tanti, forse troppi
stranieri totalmente avulsi da ciò che li circonda, e si intuisce che non c’è
integrazione, sistemati là da logiche governative che sfuggono alla nostra
comprensione, ma certamente molto chiare a chi tira i fili della politica…. Solvy
Stubing, dove sei?
Proseguiamo, direzione
Jokkmokk (Circolo Polare Artico!) e Gällivare; man mano che si sale verso nord
il traffico diminuisce, fino a quasi scomparire del tutto e con esso, pare,
l’umanità.
On
the road, noi e la strada, e la foresta boreale a far
da spettatrice. Se da un lato l’essere da soli per km ci entusiasma (niente
stress da traffico, aria pura, foreste infinite), dall’altro incute un senso di
straniamento; anche qui, tante le analogie con la Siberia da noi esplorata anni
fa: migliaia di km in un nulla fatto solo di asfalto e foresta e, ogni tanto,
giusto per ricordarci che siamo sul pianeta Terra e non su Saturno,
un’automobile o un camion. Le lunghe, tranquille ore trascorse sull’asfalto ci
consentono di riflettere meglio e di farci un’idea di questo Stato: l’impressione
è quella di un Paese asettico, dove tutto è fin troppo pulito, ordinato, silenzioso,
e nessuno si sporca le mani con i soldi perché gira tutto a credit card. E se qualcuno proprio si
ostina a voler usare il contante (tipo lo straniero dal benzinaio), il resto
non te lo dà in mano il cassiere, ma ti arriva automaticamente attraverso una
cassettiera posta sotto al banco cassa. Qui si macinano chilometri, ma luoghi
di ristoro pochi (sospettiamo che i camionisti si portino il cibo da casa).
Posti per dormire, un’impresa trovarli. Gli unici esercizi sempre aperti dove ci
si può fermare per un boccone sono i McDonald, i McDrive addirittura i McHotel.
Altrimenti, Burger’s King. Lo stile di vita statunitense va per la maggiore. Ma
non esiste nulla di svedese, qui? In questo solitario universo molto yankee e
poco swedish, credevamo almeno di trovare qualche spiritosaggine “vichinga”:
per esempio, un’insegna col drakkar, oppure l’elmo con corna o trecce, tanto
per dire “Ehi, siamo scandinavi!”. Nulla di tutto ciò.
Volendo fare un
paragone con la Russia: in Siberia il paesaggio è identico, le distanze pure;
però in Russia non solo puoi pagare anche in contanti dappertutto, ma non c’è
pericolo di morire di fame o di sete per strada (e sì che, verso est, ci sono centinaia di km da un posto abitato
all’altro!) né di rimanere senza gasolio o di non trovare da dormire; magari un
buco, ma un tetto si trova ovunque, ed aperto 24 su 24! E le banche non si
fanno problemi a “change money”.
Qui, dopo ore ed ore di
strada deserta e di foresta, ti viene il dubbio di non sapere dove sei.
Il “nulla” nel quale ci
immergiamo, tuttavia, ci dà modo di riflettere sul significato del muovere
verso Nord; dalla luce violenta del Mezzogiorno si passa alle atmosfere
crepuscolari del Settentrione, ed è come una metafora della vita; dalla solare
estroversione giovanile, alla più cupa introspezione della maturità.
Complice anche il
silenzio, davvero “boreale”, mano a mano che ci lasciamo il Sud alle nostre
spalle, così mano a mano ci sembra di spogliarci da tutto ciò che è vanesio e
superfluo; mondati dalle distrazioni, è più facile approdare alla
contemplazione e alla riflessione su quello che, forse, significa il viaggio:
andare incontro a noi stessi.
Nonostante la
pantagruelica colazione, all’ora di pranzo le nostre elucubrazioni bergmanniane
vengono messe da parte causa un brontolio allo stomaco; decidiamo di fare una piccola
pausa su un pontile galleggiante, che si specchia in uno degli innumerevoli
laghetti della regione dello Jämtland, in compagnia di tre anatre ciarliere.
Siamo sempre soli, immersi in un silenzio quasi irreale. Traffico praticamente
nullo. Respiriamo aria purissima a pieni polmoni, e non solo l’olfatto si
affina (non c’è nulla di inquinante in giro), ma, nel silenzio totale, si
affina anche l’udito. La civiltà sembra quasi scomparsa.
Poco prima di
ripartire, vicino alla nostra auto si ferma un camper e ne escono due coniugi
anziani. Finalmente due svedesi veri! Alti, inequivocabili lineamenti scandinavi,
pelle chiara e rosata, occhi blu. Il signore ci attacca bottone (in inglese) e
così veniamo a sapere che lui sta giusto tornando da Capo Nord, ci chiede da
dove veniamo e ci racconta che in Italia c’è stato circa 30 anni fa, col camper
e i figli piccoli, e hanno visto anche Roma (bellissima, dice lui, e concordiamo).
Ci chiede qual è la meta del nostro viaggio e quanti km sono dall’Italia a Capo
Nord, commenta che sono tanti, allora gli mostriamo l’adesivo “Siberia 2008”;
sono ancora di più! Si entusiasma e conclude che siamo tutti dei “big travelers!”.
Sì, pur nel nostro piccolo, ci sentiamo
dei grandi viaggiatori!
Verso il tardo
pomeriggio cerchiamo nuovamente una sistemazione per la notte. In ore di strada
non riusciamo a scorgere nulla, poi, nei pressi della città di Östersund, ecco
l’indicazione camping, e sono ormai le 19.00. Peccato che la reception del campeggio
apra dalle 13.00 alle 16.00….. Non ci resta che ripiegare sul motel adiacente,
della onnipresente catena Scandic. Per la bellezza di 1.490 corone (circa 162,00
€!) ci offrono una camera microscopica al pianterreno con vista sugli altri tre
lati del motel, con letti separati, senza un frigo bar né una bottiglietta
d’acqua, però con una barretta di cioccolato alle nocciole in omaggio…
Ovviamente, frugale cena in camera con le nostre scatolette.
Mercoledì
Ancora bastonati per il
salasso, ci riprendiamo con una ricca colazione ed io faccio man bassa di
gustose gallette ai cereali, che userò come pane per il consueto pranzo al
sacco.
In macchina, sempre
immersi nell’ordinata campagna, ci imbattiamo in una coppia di gru cenerine che
sta facendo colazione con le cavallette, in un prato falciato da poco.
Splendide! Queste sì, che sono le vere, grandi viaggiatrici! Il paesaggio
prosegue praticamente uguale, un alternarsi di campagna, taiga mista, laghi e
fiumi più o meno larghi. Traffico al minimo, ma nonostante la monotonia del
paesaggio, ci pervade ormai un senso di tranquillità e serenità, unito alla
sensazione, in qualche tratto, di essere i soli al mondo a passare di qua.
Finalmente, alle ore 11.45, dopo 2.700 km da casa nostra, il primo traguardo
importante! Entriamo nella regione del Västerbotten, comune di Dorotea, e cioè
LAPPONIA SVEDESE! Parcheggiamo accanto al tabellone stradale, tra funghi
giganteschi e mirtilli rossi. Silenzio e aria pura fanno da cornice al nostro
entusiasmo! Riprendiamo la marcia, e pochi km più avanti ecco che appare un’altra
indicazione che recita “Lappland”, ma stavolta è decisamente più consona con
l’ambiente: una palizzata di tronchi di pino stile totem, con sopra, scolpiti
nel legno, gli animali tipici della regione: un orso, due rapaci e un gufo
reale, a far da arcigni guardiani. Merita uno scatto! E mentre documentiamo la
tappa, la magia del luogo viene ulteriormente amplificata da un branco di lupi
che si lanciano sonori richiami da una collina all’altra! Ma come si fa a
proseguire? Vorremmo rimanere qua a farci una chiacchierata! Sospirando, risaliamo
a bordo, sorpassiamo Vilhelmina, Storuman, Arvidsjaur (almeno i nomi delle
località sembrano più… vichinghi), incrociamo anche una “Huskyfarm” (logicamente
chiusa, in attesa della neve) e rimaniamo incantati da una casetta sul lago
(rossa e bianca, ça va sans dire) con barbecue a filo d’acqua, talmente deliziosa da
meritarsi una foto. Ma le miriadi di zanzare che in estate infestano queste
zone, permetteranno di godersi il barbecue in giardino? Boh… Altra chilometrica
strada deserta, ora cambiamo regione e siamo nel nord della Svezia; il
Norrbotten si presenta come un’infilata di laghi, laghetti e corsi d’acqua
ovunque ed…. eloquenti cartelli “occhio all’alce”! Finalmente! E speriamo tanto
di vederlo, il simbolo della Svezia! Si vede che ormai siamo entrati nel “Grande
Nord”: i tir montano tutti, sul muso, una struttura metallica tubolare e a
rete, che altro non è che un “para alci”, precauzione indispensabile per
evitare danni, in caso di investimento di questo enorme animale.
Pur quasi
impercettibilmente, il paesaggio è mutato. Le foreste sono più fitte, il verde
più intenso, il sottobosco rigoglioso e pieno di frutti, muschi alti e soffici
si contendono lo spazio con affioramenti rocciosi ricoperti da licheni
crostosi. E perfino i licheni sono diversi, ed è difficilissimo descriverne il
colore: dal verderame chiarissimo al bianco verdastro, come una luce neon, e
sono dappertutto anche a bordo strada, creando lo straniante effetto di
“nevicata” anzitempo.
I km si susseguono
veloci, traffico come al solito quasi nullo. Verso le 17.00, in località
Moskosel, adocchiamo un cartello “camping” e ci infiliamo verso sinistra. Il
campeggio (aperto!) è, manco a dirsi, su un lago e, per 66,34 €, ci danno un
delizioso chalet (legno rosso, of course) per 4 persone a pochi metri dalla
spiaggia, interno in legno di pino, letti a castello, bel tavolo rustico con
simpatiche margherite (finte) e tendine di pizzo alle finestre. Servizi,
logicamente, spartani e in comune, ma tutto molto pulito e curato. Ormai come
turisti siamo in quattro gatti e, appena calata la sera, un silenzio “nordico”
avvolge il campeggio, interrotto dal richiamo di qualche gufo. Ci gustiamo la
nostra cena a base di insalate di riso e dessert di frutta sciroppata e ci
buttiamo a nanna; domani ci aspetta un’altra lunga tappa.
Giovedì
Fatta colazione nel
nostro delizioso chalet, osservando il navigare dei cigni selvatici in
lontananza sul lago, ci mettiamo subito in marcia, destinazione Circolo Polare
Artico! Alle 9.00, sulla strada per Jokkmokk, vediamo dei puntini
all’orizzonte… i puntini si fanno numerosi ed attraversano la carreggiata da
destra a sinistra… ma sono… RENNE! Finalmente! Ci avviciniamo con l’auto, piano
per non spaventarle, per strada non c’è anima viva ma, nemmeno farlo apposta,
dalla carreggiata opposta spunta un’utilitaria dalla vivace andatura, che
spaventa le bestie, sparpagliandole tra carreggiata e bosco. Niente paura, passata
l’utilitaria, il branco si riunisce e ci osserva mentre accostiamo a bordo
strada. Sono così vicine che udiamo distintamente il graffiare degli zoccoli
sull’asfalto. Ci stupiamo del rumore, perché solitamente gli ungulati che
incontriamo noi (cervi e caprioli) producono suoni attutiti quando calpestano
l’asfalto, in virtù della suola elastica dei cuscinetti retrostanti lo zoccolo
vero e proprio. Le renne, invece, hanno sì dei cuscinetti elastici, ma lo
zoccolo è molto più grande ed estremamente duro ed affilato, adatto a graffiare
e scavare nella neve e nel ghiaccio alla ricerca di cibo. Ci fermiamo per un
po’ ad osservarle (o forse è il contrario, a giudicare dai musi incuriositi).
Sono bellissime! Le prime renne della nostra vita! Il pelame è ancora estivo,
sia femmine che maschi hanno le corna; il mantello va dal grigio chiaro al
marrone scurissimo, al di fuori del posteriore che è sempre chiaro. Le corna
sono ancora ricoperte dalla soffice membrana chiamata velluto. Probabilmente
tra qualche giorno si staccherà, rivelando l’anima ossea del corno. Non ci
stanchiamo di guardare questi “musotti”, ne siamo incantati. La renna non ha il
musino affilato e l’aria da “Bambi” del capriolo, né la nobiltà e la fierezza
di portamento del cervo nobile; ha un muso da peluche, forse complice il naso
dalle ampie narici mobili e la sommità del muso un po’ squadrata, che le danno
un’aria buffa ed innocua. I grandi occhi scuri e liquidi trasmettono tenerezza.
Sono davvero animali meravigliosi. Noi osserviamo loro e loro osservano noi,
chiedendosi che intenzioni abbiamo. Alla fine, decidono di averne abbastanza e,
guidate dal capo branco, si raggruppano per rituffarsi nella foresta, alla
ricerca di cibo. Le abbiamo incontrate per solo 5 minuti, ma ci sono sembrate
ore, tanto è stato emozionante. Queste renne, come quasi tutte nell’intera
Scandinavia e in Russia, sono allevate allo stato semi-brado, dalla primavera
all’autunno pascolano libere e d’inverno vengono radunate per la marchiatura e
la macellazione. Sono di proprietà del popolo Lappone, che in realtà si chiama
Sami e fino a una cinquantina d’anni fa conduceva vita nomade. Le renne, e
tutta l’intera economia che vi ruota attorno e che dava da vivere alla comunità
Sami, hanno rischiato seriamente di scomparire all’indomani della tragedia
della centrale atomica di Černobyl, avvenuta il 26.4.86; la nube radioattiva,
spostandosi verso Ovest, aveva pesantemente contaminato i licheni ed i funghi,
unica fonte di cibo delle renne. Già uno studio svedese di parecchi anni prima
della catastrofe, aveva evidenziato che proprio i “licheni delle renne” sono in
grado di raccogliere selettivamente particelle radioattive vaganti nell’aria, a
seguito di esperimenti atomici. Entrando nella catena alimentare, la
radioattività aveva finito per contaminare le renne e tutti i loro
sottoprodotti, siano essi carne o latte, fino a raggiungere l’ultimo anello
della catena, l’uomo che se ne cibava. Dal governo svedese fu imposto alla
comunità Sami il divieto di mangiare carne di renna e il divieto di venderla. Secondo
le prime rilevazioni, le renne erano contaminate da un minimo di 3.750
Becquerel fino ad un massimo di 21.300; il governo svedese ne fissava il limite
a 300 (la Norvegia 600 e la Finlandia 1000). Fu una tragedia. Circa 75.000 renne
furono abbattute. Appena nell’anno 2000 il governo svedese si rese conto che il
limite allora fissato fu troppo restrittivo, ed il risultato di questa assurda
decisione fu che migliaia di capi furono abbattuti per niente. Per la locale
comunità Sami fu un altro duro colpo, dopo l’interdizione al pascolo di interi
territori perché il governo aveva bisogno di legname, e le foreste non potevano
essere a disposizione delle renne. Ora, guardandole trottare libere e
all’apparenza sane, non si fa fatica a comprendere la disperazione di un popolo
che ha basato tutta la propria esistenza su queste bestie meravigliose e che,
di colpo, ne viene privato.
Ancora storditi dal
meraviglioso e fantastico incontro, proseguiamo sulla E45, nella quasi totale
solitudine. Tanta foresta, su una altura ci fermiamo ad ammirare la mitica
taiga, antica parola russa che è sinonimo di foresta boreale di conifere; qua e
là qualche betulla dorata occhieggia nel verde cupo delle fittissime pinete e
peccete. E finalmente, sotto un cielo cupo di metà mattina, vediamo il cartello
che recita “Polcirkelns Motorbana Jokkmokk”. Ci siamo, abbiamo raggiunto il
Circolo Polare Artico! Ancora una manciata di km ed eccoci al Circolo vero e
proprio! Un cartello in 5 lingue ci spiega “cos’è”; purtroppo, la stagione
tarda non ci consente di vedere il sole di mezzanotte (fenomeno qui visibile
circa tra i primi giorni di giugno fino a circa i primi di luglio); la stagione
avanzata (sempre secondo gli standard svedesi) non ci consente nemmeno la
visita del locale negozietto di souvenir. Un avviso dalla tipica semplicità
scandinava (cioè foglio di quaderno vergato a pennarello) attaccato alla porta
a vetri del negozietto recita “Stängt/Closed season’s over”. Ci guardiamo
attorno, ci siamo noi, un camper con una coppia, un paio di auto, una moto…
d’accordo, non saremo una folla, ma sempre gente che avrebbe speso volentieri
qualche corona per l’immancabile souvenir “polare”…. Siamo sempre più perplessi
circa l’accoglienza turistica svedese. Possibile che a fine estate la stagione
sia già finita? Mah… Foto di rito e… brindisi! Caspita, abbiamo percorso la
bellezza di 3.610 km, vuoi non fare un brindisi con un prosecchino? E così, nella
fresca aria “circumpolare” stappiamo le due bottigliette e brindiamo
all’impresa! E pensare che 6 giorni prima eravamo ancora a casa nostra! Ci
prendiamo un paio d’ore di pausa, giusto per leggere qualche cartellone
esplicativo ed ammirare il paesaggio nordico. La vera ricchezza di questo Paese
è la natura: un’autentica e quasi
incontaminata “wilderness” e ancora tanti fiori (a dispetto della… “fine
stagione”). Lasciamo che lo sguardo si posi sulle incredibili tinte che la
“ruska” (cioè il fugace fenomeno del repentino rosseggiare delle foglie
autunnali) è in grado di produrre; siamo veramente fortunati, forse è proprio
questo il momento più bello per apprezzare pienamente la natura che qui si
manifesta in tutta la sua magnificenza.
Risaliamo in auto,
dobbiamo raggiungere la Norvegia prima che faccia buio. Superiamo Gällivare e,
sempre seguendo la E45, a metà pomeriggio arriviamo alla cittadina di
Karesuando/Kaaresuvanto, posto di confine con la Finlandia; da qui in poi
proseguiremo per quella che viene denominata “Via Lappia”, una lunga striscia
d’asfalto che taglia per tre Stati: Svezia, Finlandia, Norvegia. Eloquente il
cartello esplicativo: per la Finlandia mancano 2 km, ma per Capo Nord ancora
434! L’informazione ci sprona a rimetterci subito in marcia per non perdere
preziose ore di luce.
Finlandia, toccata e fuga
Nemmeno qui ci sono
confini né dogane, e l’ingresso in Finlandia si compie scavalcando l’unico
confine naturale, il fiume Muonioalven. Nessun umano in giro. Nei pochi km che
ci separano dalla Norvegia, ci imbattiamo in un allevamento di renne e ne
approfittiamo per vederle bene da vicino. Sono bellissime, forse dagli occhi un
po’ malinconici per essere tenute a recinto. Scopriamo che qui si produce latte
e formaggio di renna, ma, ovviamente, il micro caseificio ha già chiuso…. Ne
approfittiamo per fare il pieno di gasolio, pagandolo in euro cash e per
acquistare un paio di birre e un pezzo di carne di renna affumicata e
sottovuoto. Così stasera… si cambierà un pò il menù!
Riprendiamo la marcia
lungo la E8, sono 117 i km che si separano dalla frontiera norvegese. Ormai ci
siamo quasi…!
Norvegia, ultima frontiera
Attorno alle 18.00
entriamo finalmente in Norvegia, anche se non ne abbiamo esatta contezza, perché
nemmeno qui esistono barriere doganali. E’ il paesaggio a suggerircelo, però,
che abbiamo cambiato Stato. Siamo nella contea del Finnmark norvegese.
Il paesaggio, da
forestale/rurale, cambia drasticamente. Già nell’estremo nord della Finlandia
le conifere hanno lasciato il posto a sparute betulle ed arbusti. Ora siamo in
piena zona di transizione con la tundra propriamente detta: betulle nane,
graminacee, muschi e licheni, salici arbustivi. E se in Svezia era tutto un
verdeggiare, qui sembra il nostro Carso a dicembre: il ciclo vitale si è da
tempo concluso, e nella calda luce del tramonto, la tundra ci circonda con
foglie accartocciate ed erba ingiallita, in una tavolozza di colori che vanno
dal rosa pallido al marrone castagna. Anche qui occhieggiano numerosi, piccoli
specchi d’acqua che riflettono come tanti occhi l’azzurro del cielo. La
sensazione di trovarsi sul margine settentrionale del continente europeo ci
entusiasma e ci riempie di soddisfazione, dopo giorni e giorni di marcia a
tappe forzate! Ci sarebbe da fermarsi e lasciarsi avvolgere dalla luce calda di
questo tramonto “norreno”, ma le ore corrono, perciò cerchiamo un posto dove
passare la notte. Troviamo un camping – aperto! – nei pressi di Kautokeino,
composto da particolari chalet ottagonali (qui vengono chiamati hytte) rossi, guarda
il caso! Meraviglioso! Ci accordiamo con la gestora-Maga Magò in tuta e
calzettoni e, per 750 corone (circa 85,00 €), ci assegna una fetta di ottagono,
composta da 4 letti a castello con lenzuola usa&getta, tv, angolo cottura e,
incredibile, un microscopico bagnetto con doccia (che funge anche da
ripostiglio) ed asciugamani a perdere! Altre due fette di questo ottagono sono
occupate da cacciatori norvegesi con setter irlandesi al seguito, appena
tornati col bottino di caccia, composto da splendide (e sfortunate…) pernici
artiche. Anche qui gente cortese, tutti bilingui inglesi. Prima che faccia
buio, abbiamo già scaricato il necessario per la notte e la cena: e oggi si mangia
renna! Ne tagliamo alcune fettine; non è male, la carne è scura e compatta, sa
di cervo, ma forse l’affumicatura è troppo intensa e, dopo un po’, stufa. La
prima notte nella tundra trascorre benissimo, dai nostri letti ci gustiamo il
cielo terso e trapunto di stelle.
Venerdì
Dopo una frugale
colazione nordica con tè, formaggio e… renna, prima delle 8.45 siamo già a
bordo del nostro Patrol, pronti per il rush finale del viaggio d’andata. Oggi
ci aspettano altri 380 km prima di raggiungere l’isola di Magerøya e il
fatidico Nordkapp! Giornata splendida e tersa, marciamo spediti nella tundra e i
cartelli stradali, da “occhio all’alce” ora dicono “occhio alla renna”. La
morfologia del paesaggio cambia e, dalla piattezza della Svezia e di quel
piccolo angolo di Finlandia, qui pareti rocciose prendono il sopravvento, quasi
a preannunciare la costa frastagliata e ricca di fiordi che caratterizza tutta
la Norvegia da nord a sud. Dopo tanta pianura, è bello finalmente confrontarsi
con salite e discese, e vedere il sole che fa capolino da pareti granitiche;
smilze e selvagge cascate sprizzano dalle cime, in un paesaggio che affascina
per la sua rocciosa intensità. Superate alcune gole con asfalto sghembo, ci
imbattiamo in altre renne solitarie, sempre buffe e dolcissime. E finalmente,
dopo migliaia di km di foresta, il mare e la costa rocciosa si presentano a noi
incorniciati da un fantastico arcobaleno. Ehi, ma questo ormai è il mare di
Barents! Ma chi immaginava che un giorno saremmo arrivati fin quassù?
L’entusiasmo e la bellezza selvaggia da “ultima frontiera” ci galvanizzano! La
strada prosegue lungo la costa frastagliata e con le scogliere altissime che si
gettano a picco nel mare color piombo. Piccola sosta tecnica a bordo strada; ne
approfittiamo per ammirare un gruppetto di renne davvero magnifiche - una è
completamente bianca! - che pascolano tra il brugo ed i mirtilli, sulle alture prospicienti.
La luce radente è strepitosa, l’autunno qui torna a dare ancora il meglio di sé
con un’esplosione di colori intensi e straordinari. Non posso non cogliere
l’occasione, e queste renne, poco timorose, si lasciano fotografare con
disinvoltura, quasi essendo consapevoli della propria bellezza e perfezione.
Grazie alla loro pazienza, riesco a catturare degli scatti fiabeschi, nella più
assoluta tranquillità del luogo, pur trovandoci a pochi metri dall’asfalto. Un
po’ riluttanti a lasciarci alle spalle cotanta bellezza, ci rimettiamo in
marcia e, alle 13.30, arriviamo al Nordkapp kommune! Comune di Capo Nord, il
comune più settentrionale d’Europa! Foto ricordo alla tabella stradale e rapido
sguardo al mare sottostante: il cielo variabile muta di continuo il colore
dell’acqua, dal celeste cupo, al piombo, all’acciaio; piccole onde si
infrangono sugli scogli granitici sottostanti alla strada, così lisci che
sembrano immensi lastroni di ferro. Intanto che Max fa un filmato, qualcosa nel
mare, vicino agli scogli, cattura la mia attenzione. Una sagoma scura spunta e
scompare dalla superficie dell’acqua. La mia prima reazione è di chiedermi chi
diavolo è quel sub che fa “snorkeling” nell’acqua gelida e senza nemmeno una
boa di segnalazione! Poi osservo meglio e mi accorgo che quella sagoma, lucida,
dalla testa piccola e le spalle spioventi altro non è che… una foca! Non faccio
in tempo a riavermi dalla sorpresa che la simpatica bestiola, con un ultimo
sussulto tra le onde, scompare dalla mia vista. Ma quanti incontri ci regala,
questo Grande Nord! Un’emozione continua! Peccato che Max non sia riuscito a
vederla, e mi canzonerà per questo (“chissà che hai visto tu, sarà stata una
tanica abbandonata…!”).
La strada costiera
attraversa piccoli agglomerati di case di pescatori, tutte in legno rosso, ma
attenzione! qualcuna è anche blu! E verde! Incredibile…! Poco dopo le 14.00, ci
siamo: stiamo per lasciare la piattaforma continentale per raggiungere l’isola
di Magerøya, sulla cui punta estrema si trova il Nordkapp. Niente ponti
stavolta, ma un lunghissimo tunnel, tutto sottomarino! Il Nordkapptunnelen è
lungo 6.870 metri ed è situato a 212 metri sotto il livello del mare! Lasciate
ogni speranza, voi ch’entrate! Emozionati, imbocchiamo la galleria, non troppo
illuminata a dir il vero, e percorriamo questi seimilaottocentosettanta metri
nella quasi totale solitudine; stiamo nuovamente viaggiando sul fondo marino! Ogni
tanto qualche goccia di acqua percolante dalla volta si spiaccica sul nostro
parabrezza. Quando sbuchiamo dall’altra parte, siamo già sull’Isola Magerøya,
ultimo lembo d’Europa. Osserviamo le chiazze d’acqua, ormai asciutte, cadute
sul parabrezza… ma sono incrostazioni di sale! Questo vuol dire che è proprio
acqua marina che gocciola dal soffitto del tunnel! Ci dirigiamo alla volta della
cittadina di Honningsvåg; ormai si è fatto tardi per affrontare oggi la
scarpinata verso Capo Nord, il tempo si sta anche guastando, fa freddo (circa 5
gradi) e comincia a diluviare; non ci resta che cercare un posto dove passare
la notte. Ma anche qui, la stagione è terminata e l’impresa si fa ardua.
Proviamo in una pensione gestita da pescatori, gli chalet sono sistemati su
palafitte sull’acqua, ma non ci risponde nessuno. Più avanti troviamo un altro
gruppo di hytte, ma è tutto
sprangato, per cui bisogna telefonare ad un tizio, ecc. ecc. Comincia ad essere
complicato, teniamo questa opzione se proprio non dovessimo trovare null’altro.
Torniamo verso il paese e vediamo un cartello che indica un hotel in alto, su
un piccolo golfo. L’enorme hotel View è fortunatamente aperto. Ci accoglie un
omaccione di mezz’età irsuto, in salopette da lavoro e stivali di gomma, che
sembra appena sbarcato da un peschereccio. Ci dice che ha posto (siamo i soli,
e gli interni ricordano tanto l’Overlook hotel, di kubrickiana memoria…), ma
niente cena né colazione, la stagione è terminata e perciò può darci solo la
camera e basta, volendo con uso della cucina in comune. Ovviamente, ci va benissimo e, per 800 corone
(97,00 € circa) ci offre una confortevole e calda stanza con bagno e vista
sull’insenatura e sulla sottostante industria conserviera del pesce. Dato che
sono a portata di mano, ne approfittiamo per acquistare delle cartoline di Capo
Nord, così da non perdere tempo l’indomani; saranno soltanto da imbucare. Vuoi
mettere il ricevere una cartolina così col timbro “Nord Kapp”? Vedendo che ne
acquistiamo parecchie, “Capitan Findus” esclama “Big family?” “No, many
friends!”.
Stranezze norvegesi:
siamo in un posto da fine del mondo, un’isola semideserta, siamo gli unici
turisti e, per aprire il pesante portone in ferro d’ingresso, bisogna digitare un
codice numerico… L’aspetto più positivo è che, finalmente, ci facciamo una vera
doccia calda! Ceniamo presto, perché l’indomani mattina dovremmo alzarci prima
dell’alba per raggiungere il luogo dove lasciare l’auto ed affrontare i 9 km di
marcia per agguantare la tanto agognata meta. Prima di prender sonno,
osserviamo lembi di cielo che spuntano da dietro le nubi, sperando di vedere
l’aurora boreale, ma non siamo fortunati. Qualche ciclista e qualche sparuta
auto passa giù, sulla stradina costiera, unici segni di vita. Buonanotte
Honningsvåg!
Sabato
Come programmato,
sveglia prima dell’alba (le 4.00!), colazione in camera, e alle 5.45 siamo già
in auto. Imbocchiamo la strada litoranea, costeggiando delle rastrelliere piene
di aringhe stese ad asciugare e tante case di pescatori rosse, Ma anche blu,
verdi, celestine… almeno un po’ di vivacità! In seguito, saremmo venuti a
sapere il perché dell’uso di identici colori dappertutto: perché erano le tinte
più a buon mercato! (corollario: in Russia, ai tempi dell’Unione Sovietica, le
case di legno erano tutte blu e verdi… perché non c’era altro).
Tutte le case hanno un
lumino acceso alla finestra, che sia una candela oppure una piccola lampada. Si
trasmette così all’esterno un po’ il senso di calore domestico; in questo
luogo, dove, al di fuori della breve estate artica, la luce solare è merce
rara, supponiamo sia indispensabile tenere acceso questo piccolo lume. Proviamo
ad immaginarci questo borgo di pescatori durante i mesi invernali; buio totale
al di fuori dell’illuminazione pubblica, tempeste di pioggia e neve, magari
nebbie persistenti, l’umidità che ti attanaglia le ossa, il freddo pungente….
Nel regno dell’oscurità perenne, una fioca lucina è segno di vita, di speranza.
E’ un aspetto della vita di questi luoghi che per noi, provenienti da una terra
solatìa, è forse difficile da comprendere appieno.
Poco prima delle 6.30,
giungiamo a destinazione. Parcheggiamo l’auto in uno spiazzo segnalato e con lo
sguardo osserviamo tutto l’orizzonte; c’è ancora qualche nuvola che copre il
cielo, che pare basso basso su di noi, ma la giornata sembra promettere bene. Circa
7 gradi, calma di vento. Siamo i primi turisti ed anche i soli. Non un’anima,
nessuno all’orizzonte, nemmeno sulla strada asfaltata che porta al Nordkapp
turistico. Ecco un aspetto positivo del profondo Nord a settembre!
Infiliamo gli scarponi,
uno zainetto con preziosi generi di sussistenza e, muniti di berretto e guanti…
ore 6.45, siamo pronti. Destinazione capo Knivskjelodden, il vero punto più
settentrionale del continente europeo. Fortunatamente, lo si può raggiungere
solo a piedi, in quanto la zona è interdetta a qualsiasi veicolo. Per
arrivarci, bisogna attraversare una zona di tundra non troppo impegnativa (dice
la guida), con qualche salita e discesa, il tutto per 9 km di sola andata. Altrettanti
al ritorno. Rapido settaggio di macchina e telecamera, bacio benaugurante e
via. Ci accorgiamo presto che non c’è un vero e proprio sentiero da seguire,
soltanto una direzione nella tundra; ogni tot. metri ci sono dei “troll”, cippi
di pietre sovrapposte che indicano la giusta via, per il resto arrangiati. Il
terreno è pietroso e fangoso assieme, e dove non c’è una pietraia c’è un
acquitrino o una marcita. Nessun vegetale più alto di una graminacea si staglia
all’orizzonte, dando pieno senso proprio allo stesso termine “tundra”, che
deriva dal finnico tunturi e che
designa una pianura priva di alberi. Presto si sprofonda nel fango e… non solo
noi. Inequivocabili, le impronte di una renna si stagliano nel terreno
acquitrinoso e ci fanno sentire meno soli. Anche qui, il terreno è perennemente
gelato durante quasi tutto l’anno e nella breve estate artica il ghiaccio si
scioglie, trasformando la zona in un enorme acquitrino (e il diluvio di ieri ha
solo rincarato la dose). Qualcuno (magari l’azienda turistica locale) bontà
sua, ha posizionato dei lunghi listoni di legno nei passaggi più zuppi.
“Carini!” pensiamo noi, ma l’entusiasmo dura poco. Dopo qualche passo, i
listoni spariscono sott’acqua e quindi… vai col fangooo! Volevamo l’avventura,
no? Bè, bisogna guadagnarsela, anche zompando nella fangaia! Dopo circa un’ora
guadiamo un piccolo torrente, saltando su sassi aguzzi ma scivolosi. Ogni tanto
facciamo il “punto nave”; per circa un paio d’ore saremo ancora su un terreno
in piano, anche se pietroso e instabile, i sassi appuntiti spesso non
consentono un appoggio facile. Siamo sempre da soli, noi e le renne più
settentrionali d’Europa! Queste sono meno confidenti, scappano appena ci
vedono, ma non sembrano particolarmente impaurite. Preferiscono tenersi a
debita distanza. Ora il sole si fa più alto ed i raggi inondano il paesaggio
circostante di una luce azzurrina e limpida. In questo silenzio maestoso,
nell’aria fresca e tersa, mossa ora da una lievissima brezza, ogni cosa sembra
risplendere di luce propria. Un incanto, una vera magia, forse è proprio questa
la leggendaria Thule, l’ultima frontiera.
Un attimo di pausa per
riprender fiato ed osservare le nostre beniamine: qualcuna porta un collare
rosso con campanellino (e se fossero le renne di Babbo Natale, in ferie?),
altre stanno perdendo a brandelli il velluto dalle corna, che appaiono striate
di poco sangue fresco. Poco prima delle 8.00, con il sole alle spalle,
affrontiamo una prima discesa, e il panorama è spettacolare: davanti a noi si
distende la tundra a perdita d’occhio, punteggiata da muschi e licheni rossi,
piante di erioforo con i semi piumosi che ondeggiano al debole alito di vento e
alla nostra destra, imponente, il mitico promontorio di Capo Nord! Costeggiamo un
altro torrente, poi vari laghetti di un blu profondo, e poi strane chiazze
bianche che riflettono il sole. Sarà mica neve? Ma nooo, sono affioramenti più
o meno grandi di roccia bianchissima, come la neve fresca! Forse si tratta di
calcite. Osserviamo la scarna vegetazione che ci circonda; muschi, licheni e
graminacee, il permafrost non consente altro. Il colore dominante qui è il rosso,
in tutte le sue gradazioni. Un incanto primordiale. Poco prima delle 9.00, ecco
il mare! Ora si comincia a scendere verso la linea di costa, e innumerevoli
torrentelli percorrono la nostra stessa strada per gettarsi in acqua. Il Mar di
Barents si apre in tutta la sua immensità. Prende il nome da un navigatore ed
esploratore olandese (Willelm Barentsz) del ‘500. In questa beata solitudine,
ci sentiamo un po’ geografi anche noi….
L’incanto della
solitudine dura poco. Dando un’occhiata alle nostre spalle, scorgiamo un
puntino verde fluo muoversi veloce all’orizzonte… ahi, fine della pace, arriva
qualcuno! Non sarà mica l’uomo del parcheggio venuto a reclamare uno
sconosciuto pedaggio? Niente di difficile, qui si paga tutto! Facciamo finta di
niente e proseguiamo. Il puntino si avvicina, ci raggiunge, ci saluta e ci
supera, quasi di corsa! Un asiatico…no, forse non è il tizio del parcheggio. Ci
fermiamo e lo guardiamo per un attimo: ma che ha da correre così? Vuole
arrivare prima di noi al traguardo? Capirà qualcosa del paesaggio che lo
circonda, se va così di fretta? Mah.. Scendiamo a valle, ora siamo in spiaggia,
sassosa e messa in ombra dall’imponenza della rupe di Capo Nord. Tocco l’acqua,
ovviamente ghiacciata e… non c’è odore di salsedine! Abituati come siamo alla
salinità dell’alto Adriatico, questa sembra pura acqua dolce!
Sparito l’incanto della
solitudine, riprendiamo la marcia, che si fa un po’ più complicata: per
raggiungere la costa, bisogna superare dei lastroni granitici posti a varie
pendenze, per giunta anche scivolosi; un passo falso e si rotola direttamente
in acqua. Dato che sono già traballante di mio, non mi resta che mettere via la
Nikon per evitare pericolose distrazioni. E le distrazioni non mancano: grossi e
candidi gabbiani tridattili svolazzano sulla scogliera e, sopra di noi,
veleggia una maestosissima aquila di mare! E’ talmente vicina che possiamo
osservarne le forti dita gialle e gli artigli!
Ci siamo quasi, peccato
che la pionieristica conquista sia sminuita dal fatto di non essere i primi
della mattinata: l’asiatico in k-way verde bruco ha già raggiunto il cippo di
capo Knivskjelodden. Poco male, consoliamoci che siamo solo in tre e non la
probabile folla che si accalca qui in estate. Ancora pochi passi… eccoci!
Abbiamo toccato il cippo! Siamo arrivati alla fine del viaggio (d’andata)!. Ore
9.45, cielo terso, temperatura di circa 10 gradi, coordinate 71°11’08” di latitudine nord! Evviva! E
stavolta non in auto, ma raggiunti a forza di gambe! Sì, vabbè, è solo l’ultimo
pezzo.. ma vuoi mettere la soddisfazione? Facciamo così conoscenza con
l’asiatico: si chiama Daniel, è cinese ma è nato in Canada, vive a Vancouver e
sua madre vive a Toronto. Per fare la traversata al galoppo si è rotto una
scarpa e mi indica la suola penzoloni… Mi chiede di fargli una foto con la
scarpa rotta. A questo punto ne approfittiamo anche noi, e così ci facciamo
fare una foto ricordo come si deve, piuttosto che una immagine sbilenca con
l’autoscatto. Prima della foto, Daniel ha messo la sua firma sul registro dei
visitatori posto in una cassetta di metallo rosso. Lo facciamo anche noi, non
solo per registrare e omologare la nostra presenza sul “confine d’Europa”, ma
anche per prenderci il numero di repertorio (1313 e 1314), numero che attesta
la veridicità della nostra impresa consentendoci così, una volta arrivati al
preposto ufficietto di Capo Nord “classico”, di ritirare l’attestato di eroi.
Daniel saluta e, com’era arrivato, se ne va lesto come una lepre. Ooohh, adesso siamo da soli! Ed è quindi giunto
il momento di festeggiare, non solamente l’impresa, ma anche il compleanno di
Max! Dallo zaino tira fuori una bottiglia di Franciacorta e dei cubetti di
Parmigiano. Pronti? Salta il tappo e uno spruzzo di spumante esce a razzo, come
sul podio della Formula Uno! Non ci rimane un granchè da bere, dopo che la
bottiglia è stata sballottata per tre ore nello zaino! Non fa niente, è il
gesto che conta! Un brindisi all’autentico Capo Nord, un paio di boccacce (metaforiche,
in realtà… gestacci) in direzione dei turisti che sono sul promontorio opposto,
a 71°10’21” di latitudine nord,
giunti in auto e pagando pure! Ma noi siamo più a nord di voi! Ci riposiamo per
un po’, ormai Daniel è scomparso all’orizzonte e ci godiamo il silenzio,
interrotto solo dal rumore della risacca, poco sotto di noi. E fantastichiamo…
chissà quante balene staranno navigando in questo mare… e foche… Fa quasi
caldo, il sole nordico scalda comunque, e, purtroppo, ci mangia le ore…
Dobbiamo per forza fare subito dietro front, per vari motivi. Il primo è che ci
vogliono ancora almeno altre 3 ore di scarpinata per raggiungere l’auto,
secondo è che l’ufficio turistico di Capo Nord chiude alle 15.00 e, se vogliamo
almeno riposarci e farci un giro all’interno del complesso, ci va almeno
un’ora; terzo, dobbiamo intraprendere il viaggio di ritorno verso casa e perciò
la Finlandia ci aspetta. Non possiamo attardarci di più. Forza, gambe in spalla!
Alle 11.00 precise ci rimettiamo in marcia. Purtroppo, nella cronometrica organizzazione
di questa traversata, abbiamo commesso un grave errore: ci siamo dimenticati di
portarci una scorta d’acqua. L’aria molto secca, la fatica fisica per far
presto (son sempre 18 km tra andata e ritorno) e il poco spumante rimasto da
bere, ci hanno portato alla quasi disidratazione. Dopo un paio d’ore di lesta scarpinata
nella tundra, gli effetti della mancanza di liquidi si fanno sentire. Il
bisogno di bere diventa impellente e la situazione si fa addirittura
paradossale, perché siamo circondati dall’acqua, camminiamo nell’acqua ma non
possiamo berla: intanto è acqua di disgelo del permafrost, colma di erbe marce,
e poi con tutte le renne in giro che… concimano, rischiamo di bere proprio l’acqua
contaminata da residui fecali.
Marciamo con il sole
già obliquo e le renne in dorata controluce, e la stanchezza già produce
vaneggiamenti, tanto che in testa mi ronza una frase, sentita in un docu-film
che nulla c’entra con tutto questo: “Non
risparmiate grazia, né fatica”. No, non ci siamo risparmiati, è con la
nostra grazia interiore che riusciamo a godere di tutto questo, è con la fatica
che ci siamo guadagnati il senso di questo viaggio, è con la fatica che
l’abbiamo interiorizzato ed ora la grazia traspare dai nostri occhi.
Teniamo duro, il sole
picchia e noi siamo sempre più assetati. Verso le 13.00 dobbiamo fermarci in
continuazione, preda dei crampi e di dolori alla schiena, complice anche
l’andatura forzatamente veloce per non fare tardi. Se non avessimo avuto il
cruccio dell’ufficio che chiude, avremmo potuto prendercela con più calma, ma
così! Ma come avrà fatto Daniel? Ah, altra razza, evidentemente… Intanto, il
meteo, che ci aveva regalato una mattinata da cartolina, cambia drasticamente.
Un intenso fronte atlantico si ammassa alle nostre spalle, prodromo di un
diluvio… oceanico. Il cielo da azzurro si fa lattiginoso, poi sempre più
grigio. Procediamo, come zombie, verso la nostra auto. Quasi giunti al
parcheggio, incontriamo qualche temerario viandante che vuole intraprendere lo
stesso cammino verso capo Knivskjelodden; facciamo capire a chi ci chiede
informazioni che è tardi (sono le 14.10) e che sta arrivando il brutto tempo,
ma non convinciamo nessuno. Montiamo in macchina che siamo stravolti. Siamo
abituati a camminare, ma stavolta veramente è stata dura. Ci attacchiamo alla
bottiglia d’acqua e subito ne facciamo fuori una da due litri. Un po’
rinfrancati, mettiamo in moto, e già le prime gocce di pioggia ticchettano sul
parabrezza. Percorriamo il dritto nastro d’asfalto fino al casello di Capo
Nord, cioè un chioschetto con sbarra e bigliettaio. Il pedaggio (65,00 €!)
consente una permanenza di 2 giorni nel piazzale del complesso turistico e
l’ingresso ai musei. Ovviamente, paghiamo e ci dirigiamo verso questa
struttura, sotto una pioggia battente. Sono esattamente le 14.24 quando varchiamo
la soglia di questo enorme complesso cementizio. In teoria la struttura, vista
la bassa stagione, chiude alle 15.00, invece… sorpresa! L’arrivo di un
provvidenziale pullman di pensionati tedeschi, fa scattare la chiusura alle ore
16.00. Averlo saputo prima! Ci prendiamo da bere al bar praticamente vuoto, e
andiamo a riposarci ai tavolini posti proprio di fronte al monumento in ferro
che raffigura il globo terrestre. Siamo leggermente stravolti dalla stanchezza,
ma le due pepsi ci rimettono (quasi) in sesto. Siamo comunque troppo stanchi
per visitare tutto quanto offre il luogo (due musei, una grotta-cappella
ecumenica, un anfiteatro-cinema), perciò ci infiliamo nell’enorme negozio di
souvenir. Ne rimaniamo un po’ delusi, tanta, tantissima paccottiglia, magari
ben fatta, però di artigianale poco niente. I maglioni norvegesi richiedono un
mutuo, perciò li lasciamo lì. Terminati gli acquisti, estraiamo il bigliettino
dove abbiamo registrato il numeretto preso al cippo stamattina e ci dirigiamo
trionfanti verso una commessa, reclamando il nostro certificato di eroi. La
signora ci guarda un po’ perplessa, e sul momento non comprende la nostra
richiesta. Poi ci spieghiamo meglio e lei ci indica uno scaffale poco distante…
Se ci avessero tirato una secchiata d’acqua gelida in faccia, ci saremmo
rimasti meno male. Il presunto “certificato di eroi” lo può acquistare
qualsiasi turista, perché è a disposizione di tutti e multilingue, al costo di
60 corone… Malediciamo una volta di più la famosa guida di viaggi perché ha
scritto un’imprecisione… Chissà, magari quando è stata redatta era veramente
così, non possiamo saperlo, ma certo la delusione è tanta. In fin dei conti, è
solo un pezzo di carta, però il sapere che per agguantarlo bisognava faticare
per 18 km, dava più sapore all’impresa! Ovviamente, ne acquistiamo due, uno in
italiano ed uno in norvegese, e ci accorgiamo che non sono uguali. L’edizione
in italiano è scarna e porta questa scritta: “Col presente atto si certifica che (nome – cognome - n. …..) in viaggio
nel Paese del Sole di Mezzanotte, ha visitato oggi Capo Nord il punto più
settentrionale d’Europa”; l’edizione in norvegese, invece, oltre che essere
più accattivante dal punto di vista grafico, riporta anche una frase (in
norvegese) del primo turista nella storia di Capo Nord, tal Francesco Negri,
esploratore ravennate, che nel 1664 fu il primo “straniero” a giungere fin
quassù, spinto, come noi, dalla passione naturalistica, per il viaggio in sé e,
da ultimo, perché arci convinto che all’estremo nord non si potesse vivere. Il
testo, in corsivo, dice (con grossolana traduzione) questo: “Eccomi a Capo Nord, nella civiltà e posso
dire che la mia conoscenza è soddisfatta. Ora posso andare a casa, se Dio
vuole.”. Prendiamo così i certificati e li portiamo alla commessa, perché
“omologhi” la nostra impresa; con bella calligrafia, verga i nostri nominativi,
ci aggiunge il numero di repertorio (a questo punto, quasi superfluo) e ci
appone su il timbro che suggella la nostra fatica. Prima di andarcene, facciamo
qualche acquisto. Intanto fuori diluvia e la temperatura s’è abbassata.
Portiamo gli acquisti in auto e facciamo qualche scatto, con parecchia
difficoltà, perché non solo piove a dirotto, ma tira anche un forte vento
dritto dall’oceano, compromettendo anche la visibilità. Sul piazzale antistante
il complesso turistico, praticamente sull’estremità del promontorio, si trova
un obelisco di pietra, edificato da Re Oscar II nel 1873 per delimitare
simbolicamente il confine tra Norvegia e Svezia, e fino al 1976 era questo il
monumento che identificava Capo Nord. Successivamente, nel 1977, fu eretto il
globo in ferro che ormai tutti identificano come il simbolo di Capo Nord, monumento
che è raffigurato dappertutto. Tentiamo di farci qualche scatto sotto a questa scultura
metallica, ma i pensionati tedeschi ci precedono e quindi dobbiamo aspettare
che tutto il pullman si faccia le foto. Nel diluvio, scorgiamo Capo
Knivskjelodden, dove eravamo stamattina; siamo a circa 300 metri sul livello
del mare, e vederlo da qui ci fa dimenticare la stanchezza e la fatica! Siamo
stati veramente fortunati col meteo, se il diluvio di adesso si fosse scatenato
stamattina, dubito che avremmo portato a termine l’impresa: avventurieri sì,
masochisti proprio no. Chissà se i gitanti incontrati al ritorno ce l’avranno
fatta oppure sono stramazzati da qualche parte.. Finalmente i teutoni tornano
al riparo e, soli, riusciamo a farci una foto ricordo, sempre sotto una gelida
pioggia battente. Torniamo fradici all’interno, osserviamo una tabella che
ricorda un’altra impresa, questa sì epica e meravigliosa, quella portata a
termine il 4.6.13: un trekking partito da Nordkapp e terminata a Castelluccio
in Sicilia, attraversando tutta l’Europa a piedi! Complimenti!
Ore 16.00, rimontiamo
in auto, distrutti dalla stanchezza ma felici per aver portato a termine la
nostra impresa! Bussola verso sud-est, destinazione Finlandia. Il viaggio
d’andata termina qui. Hallo Norge, hallo Nordkapp!
IL RITORNO
FINLANDIA, il grande silenzio
Ci lasciamo l’ovest
alle nostre spalle e, dopo 285 km, ritorniamo in Finlandia, quando ormai si è
fatto buio. Subito oltre confine cerchiamo un posto dove riposarci, siamo in
piedi dalle 4.00 e, dopo la scarpinata, ci sentiamo parecchio stanchi.
Speravamo che l’offerta di camping o motel, essendo Lapponia finlandese, fosse
più ampia, invece la situazione è la medesima della Svezia: o non c’è nulla, o
quello che c’è è chiuso. Cominciamo veramente a scoraggiarci, quando verso le
20.00 passate parcheggiamo fuori una specie di snack-bar-motel; chiediamo
ospitalità al ragazzo dietro al bancone, ma il finnico ci risponde che ormai il
motel è chiuso (stagione finita), però forse a Inari c’è un hotel aperto.
Speranzosi, rimontiamo in auto e percorriamo altri km nella totale oscurità,
ancora una volta solo noi e la foresta. Alle 21.00 arriviamo al buio paesotto
di Inari, 500 anime e un parlamento Sami. In quella che sembra la piazza del
paese, troviamo un hotel (Hotelli Inari, anche qui massima creatività) che
sembra aperto. Entriamo, e subito scopriamo che in realtà sono già le 22.00,
perché la Finlandia è un’ora in avanti. Non ci sono clienti in giro. Il
receptionist (turco, il cameriere cingalese…) ci dice che ha posto e ciò ci
rincuora; finalmente per due notti potremo gettare quello che avanza di noi su
dei letti veri! Pensiamo di festeggiare con un boccone e un boccale di birra,
ma il gentile impiegato ci fa presente che la cucina è chiusa, di commestibile
sono rimasti solo un paio di smunti sandwiches e che i boccali di birra ce li
possiamo scordare perché non si possono servire alcolici dopo le ore 22.00.
Volendo, ci può vendere un paio di bottiglie di birra da consumare
rigorosamente in camera. Ok, vada per il tramezzino e quattro birre. Il
simpatico turco sgrana gli occhi scuri per essere sicuro di aver capito bene.
“Four beers…?” Si, rispondiamo, 4 birre, che c’è di strano? Di strano c’è che
le birre sono molto care, e comprendiamo il suo stupore al momento di pagare:
euro 27,60! Data la stanchezza, paghiamo senza fiatare (ormai l’ultimo respiro l’abbiamo
esalato allo shopping center del Nordkapp) e, col tramezzino, ci dirigiamo
dritti in camera, senza bagagli. La camera è piccolina, ingentilita da
acquerelli raffiguranti visi e bimbi Sami, e dal finestrone si intuisce che
abbiamo la vista sul lago. Con le birre e il tramezzino riprendiamo un po’ le
forze, dopodiché scendiamo a prendere i bagagli; giunti al pianterreno, ci
troviamo la spessa porta in vetro e ferro (tipo scantinato) che dà alla
reception/bar chiusa a chiave, la hall già al buio. Proviamo con le chiavi in
nostro possesso, ma nulla da fare. Ma come si esce da qua? Proviamo all’uscita
di sicurezza, si apre sul retro però non consente di riaprirla da fuori! Siamo
veramente troppo stanchi per ragionarci su, perciò con un maglione blocchiamo
la porta e con questo sistema riusciamo a tornare all’interno dell’hotel.
Ancora una birra e poi ci buttiamo a letto, veramente distrutti.
Domenica
Stavolta ci alziamo con
comodo, e poi scendiamo a far colazione. Toh, la porta di ieri sera è aperta! Ci
viene il sospetto che la chiusura serale abbia in qualche modo a che fare con
gli alcolici. Ci sono un po’ di ospiti a far colazione con noi. Prima colazione
finnica, c’è un po’ di tutto e anche qui quelle deliziose gallette ai cereali
trovate in Svezia. L’Hotel Inari si trova esattamente all’estremità nord del lago
Inarijärvi, che è il più grande di tutta la Lapponia finlandese, è profondo
circa 100 metri ed è punteggiato da ben 3.318 isole! Un paradiso per i
canoisti. A pochi metri da qui, c’è pure un idroscalo; d’estate ci si muove con
l’idrovolante! Mattinata di puro relax, dedicata alla vista di questo piccolo
centro. Ormai la stagione è finita anche qui (l’alta stagione arriverà in
inverno); come ricordato, Inari è sede del parlamento del popolo Sami (altre
due sono in Svezia e in Norvegia), e la costruzione, in legno e cemento, è in
uno stile prettamente scandinavo, pulito ed essenziale. In estate questo
paesotto offre parecchie attività (navigazione sul lago, pesca, voli con
l’idrovolante, trekking nella natura), ma a settembre molte attività sono terminate
e l’ufficio che se ne occupa è, malinconicamente, chiuso. Sembra uno di quegli
avamposti sperduti nel Klondike: un emporio, un pub, una scuola, una chiesetta…
e basta. Da ultima frontiera, insomma. Nonostante sia molto frequentato
d’estate, e poi d’inverno, sembra comunque mantenere un’aria di schietta
autenticità.
Poco più avanti, una
casa color verdino protocollo, dai muri scrostati, espone nelle due vetrine un
po’ di tutto, creazioni artistiche e corna di alce, vecchie macchine da
scrivere e bambolotti vestiti con il tradizionale costume lappone. Osserviamo
due quadri che sembrano una divagazione sul tema dell’”urlo” di Munch, in un affastellarsi
di oggetti scombinati che che sembrano voler dire: “non abbiamo altro per
riempire la vetrina”, stile Jugoslavia anni ’70. Ci pervade un senso di scandinava
angoscia…
C’è però un bel negozio
di souvenir e artigianato lappone. Oh, finalmente qualcosa di originale! Beh,
sì e no. Il negozio è grande, e offre un po’ di tutto: pelli di renna
(meravigliose e nemmeno troppo care, rinunciamo malvolentieri per carenza di
spazio in casa nostra); poi splendidi coltelli e pugnali (vengono chiamati puukko) riposti in altrettanti splendidi
foderi in cuoio conciato (un Sami non gira mai senza il suo coltello!),
copricapi Sami in lana e feltro (spropositamente cari), maglieria di tutti i
tipi (anche norvegese), e poi saponi e accessori per il bagno e la tradizionale
sauna, articoli in pelle di renna, souvenir vari, piccola gioielleria,
pubblicazioni, ecc. Io cerco dei tessuti tipici, ma è l’unico articolo che
manca; insomma, tessuti a parte, c’è un po’ di tutto, anche la solita
paccottiglia, però bisogna prestare attenzione agli articoli per non farsi
fregare: per esempio, nel reparto “sciarpe berretti & guanti” ho trovato
delle sciarpe decorate con le renne e i fiocchi di neve, a prima vista molto
“nordiche”, ma che in realtà sono fatte in India ed una identica l’ho comprata
a Trieste in una bancarella di ambulanti! Facciamo qualche acquisto (i coltelli
e le cinture in cuoio meritano per l’ottima fattura ed il costo abbordabile),
ma anche qui è tutto molto caro e, essendo i prezzi in euro, il costo salta
subito all’occhio.
A Capo Nord abbiamo
acquistato degli adesivi da attaccare sull’auto. Dato che la carrozzeria è
decisamente zozza, entriamo nel supermarket attiguo alla ricerca di una
bottiglietta d’alcool per sgrassarne la superficie. Diamo un’occhiata in giro,
effettivamente i prezzi dei generi alimentari sono piuttosto alti, e le birre raggiungono
cifre assurde. Cerca che ti ricerca, niente alcool denaturato. Né alcool
normale. Né superalcolici. Poi mi viene in mente di aver letto da qualche parte
che qui, come dappertutto, nel grande Nord, l’alcolismo è una vera e propria
piaga, ma in Finlandia (e Lapponia) sembra che la piaga tocchi vertici
inaspettati. Complice il freddo, il buio, la disoccupazione, lo sradicamento
della cultura Sami, la consolazione della bottiglia stava provocando uno
smottamento sociale, perciò non solo il governo tassa gli alcolici per fare
cassa e finanziare la cultura, ma addirittura toglie dal commercio i
superalcolici e persino l’alcol denaturato per allontanare qualsiasi tentazione!
Non ci resta che sgrassare la carrozzeria col vetril…
Intanto che Max si
dedica agli adesivi, io ne approfitto per due passi nel parco cittadino. Niente
fontane, o statue in marmo, ma solamente un pezzo di foresta, pieno di funghi e
mirtilli rossi, con dei sentieri in terra battuta e delle panchine. Scendo
sulla riva del lago, non c’è nessuno nei dintorni. Mi siedo tra i ciottoli e la
sabbia, e mi godo il silenzio, una lieve brezza increspa l’acqua color piombo.
Sulla riva opposta, un paio di chalet in legno rosso (qui vengono chiamati mökki) occhieggiano tra abeti e betulle
dorate, un minuscolo traghetto scivola in direzione del porticciolo del paese.
Il tutto in una cornice di serena e tranquilla perfezione. Penso a questo
Paese, metà artico e metà scandinavo, ai suoi pochi abitanti (circa 5 milioni
di persone), alla sua infinita riserva d’acqua (i laghi censiti – piccoli e
grandi - sono 187.888, la maggior parte
concentrata nel sud del Paese), infine a come sarebbe bello tornarci con calma
per comprenderlo di più. Mi torna alla mente un detto Jakuto: “Nella taiga ci
sono tanti laghi quante le stelle in cielo”.
Ora di pranzo, un
languorino si fa sentire. Entriamo nel pub (il Pa-pa-na) e… meraviglia, hanno
birra alla spina! Due hamburger e due ottime Kahru (significa “orso”), birre
finlandesi ambrate e decisamente gustose. Il ragazzo che ci serve sembra
contento di vedere delle facce non prettamente nordiche, e ci porta il pranzo con
grandi sorrisi sinceri. Ne approfittiamo per guardarci attorno: più che un pub,
questo è l’unico ritrovo del paese, dove i pensionati passano le giornate tra
una birra e una partita a carte. Quasi tutti (uomini e donne) girano con un
coltello alla cintura. Osserviamo le fisionomie: diversi da quei (pochi)
svedesi e norvegesi incontrati, essendo di ceppo ugro-finnico somigliano di più
agli ungheresi, ma hanno la pelle molto più chiara, capelli castani e occhi
blu, incastonati sopra zigomi alti e nasi piccoli e spesso all’insù. Hanno un
che di primitivo, di sfuggente, di selvatico. I lapponi si considerano figli
degli gnomi della foresta e un paio di casi umani ci danno la convinzione che
ciò non sia esattamente una leggenda: entra un gruppetto di signore di
mezz’età, sembrano del posto, e una di queste mi colpisce: è una gnoma vera e
propria, una specie di sfera con gambette e braccine, gote rosse e nasino
all’insù. Sul momento penso che possa essere affetta da nanismo, poi la osservo
meglio è mi accorgo che è semplicemente normale nella sua rotondità.
L’indomani, a parecchi km di distanza da qui, ne troverò un’altra, simile. Sì,
sono proprio figli di gnomi!
Il pomeriggio lo
dedichiamo alla visita del museo Siida, vero tempio della cultura Sami: un
formidabile excursus su flora, fauna, paesaggio, tradizioni e cultura lappone,
storia della Lapponia dai primitivi ai giorni nostri, ottimi diorami, il
rapporto tra gli indigeni e l’acqua (l’attività della pesca è una costante come
l’allevamento delle renne), e poi la vita d’inverno, col buio e la neve, come
si cacciava nelle foreste, l’allevamento
delle renne, la marchiatura, insomma un vero tuffo in universo sconosciuto
e davvero molto affascinante, e anche molto istruttivo, perché qui la vita è
davvero dura. Peccato per l’illuminazione piuttosto debole, che non consente di
fotografare se non muniti di cavalletto. A comprova della difficoltà della vita
nomade, all’esterno del museo c’è una fetta di bosco riservata alla
ricostruzione della vita dei Sami quando erano nomadi e semi-nomadi; le vere
casette in legno, abitate fino a cinquant’anni fa, sono state smontate e
ricostruite qui, con arredi e suppellettili originali, c’è pure la casetta
adibita a tribunale! E non mancano le tende smontabili in pelle (ora in nylon)
usate perfino d’inverno, e le trappole per la cattura di volpi e ghiottoni, e poi
le barche per la navigazione lacustre. Il tutto molto ben spiegato, nella
consueta tranquillità. E il girovagare tra queste ricostruzioni è pure
allietato dalla comparsa di un bellissimo coniglio selvatico! Non mancano
riferimenti alla vita contemporanea, non da ultimo una mostra fotografica sulle
ultime proteste degli indigeni contro l’ennesimo sfruttamento forestale e idrogeologico,
che andrebbe ad incidere pesantemente sulla fragile attività lavorativa dei
Lapponi.
Questo museo Siida merita
davvero una visita, e il biglietto d’ingresso comprende anche la visione di un
filmato sull’aurora boreale. Purtroppo, ci siamo persi il filmato, però la
gentilissima addetta alla cassa ci informa che proprio il giorno prima c’è
stata un’aurora spettacolare visibile anche in questa zona! Peccato, noi
eravamo a Capo Nord e…. ce la siamo persa! Ma no problem, ci dice, e ci mostra
un sito “meteo aurora” (“Aurora Forecast”) dove danno le previsioni per
l’intensità del fenomeno. Ne prendiamo buona nota, finchè siamo ancora entro il
Circolo Polare! Attigui al museo ci sono un paio di esercizi che offrono lavori
di artigianato Sami, compresi i tradizionali gioielli in argento, però
purtroppo sono chiusi per… fine stagione.
A cena troviamo, poco
fuori dal centro abitato, un bellissimo ristorantino con annesso hotel, molto
suggestivo (ah, averlo trovato la sera prima!): finalmente un pasto come si
deve! Assaggiamo così delle crêpes ai funghi e mirtilli rossi… si sente che
manca il calore del sole, i funghi sono buoni ma non così saporiti come i
nostri. Ci consoliamo con altri boccali di ottima Kharu spumeggiante…! Prima di
andarcene a dormire, parcheggiamo nello spiazzo antistante il lago, attiguo al
parco pubblico, non sia mai che riusciamo a scorgere l’aurora! Tentiamo di
rimanere un po’ fuori dall’auto, ma per passare qualche ora all’aperto avremmo
dovuto portarci almeno delle coperte. Dopo qualche manciata di minuti…
desistiamo. Dai, saremo più fortunati domani. Non sono nemmeno le 23.00 che
facciamo ritorno in albergo, ormai già buio.
Lunedì
Intanto che facciamo
colazione, ci accorgiamo che il gestore dell’hotel (inequivocabilmente lappone)
discute (senza strepiti, come da costume nordico) con varie persone
all’ingresso, commentando qualcosa. Ovviamente, non riusciamo a comprendere
nulla, ma al momento di andarcene capiamo il motivo di tante garbate discussioni:
qualcuno, la notte, ha sfondato la porta a vetri dell’ingresso principale.
Chissà perché, ma ci viene il sospetto che sia una specie di “vendetta” per
aver rifiutato la vendita di qualche birra ai ragazzotti locali…
Partiamo con un bel
sole che si allunga basso tra le betulle, sembra il Paese delle ombre lunghe. Verso
metà mattina piccola pausa per goderci un po’ di taiga; non è difficile
trovarla, la foresta vegeta parallela alla statale, basta deviare di qualche
metro e si entra nella natura più rigogliosa. Il 75% della Finlandia è coperta
da foreste, per un totale di 23 milioni di ettari. Una vera vacanza per polmoni
cittadini. In questa sosta, ci imbattiamo in un enorme complesso di recinti per
le renne, che verranno utilizzati d’inverno, al momento della marchiatura. La
struttura è di notevoli dimensioni, una enorme palizzata in tronchi di pino,
con delle passerelle in gomma per evitare che le renne, con la neve ed il
ghiaccio, scivolino e si possano ferire. Ora è tutto immerso nei vivaci colori
autunnali; faccio scorpacciata di mirtilli, ma proviamo ad immaginarci questo
luogo sommerso dalla neve, pieno di renne mugghianti e il vapore dei loro
respiri a saturare l’aria… dev’essere ancor più struggente. Finalmente, in
questi momenti, ci stiamo godendo il viaggio; macinare km su km ogni giorno e
non vedere praticamente nulla, non sempre è soddisfacente. Il quasi caldo sole
artico ci invia a bighellonare ancora per un po’…. Presa in mano la cartina,
osserviamo dove porta questa statale, diretta alla cittadina di Ivalo... toh,
un bivio…. E allora, puntatina verso il confine con la Russia (ah.. il richiamo
della foresta!). Direzione Raja-Jooseppi, ultimo avamposto finlandese prima
dell’ingresso in quella che è la Lapponia russa, cioè la Carelia. Credevamo di
trovare parecchio traffico in ambedue i sensi, invece… siamo completamente da
soli, in una sempre bella giornata autunnale. Verso il confine, il cartello
dice “Murmansk, 296 km”. E’ dura resistere, la “Matuška Rossija” ci chiama, in
fondo al cuore…. Nei pressi del posto di frontiera (deserto), i cartelli
diventano plurilingui, compresa una delle lingue Sami parlate in questa zona. E’
un confine internazionale, però apre dalle 7.00 alle 21.00… Considerato il
volume di traffico (nullo) non ci stupiamo più di tanto. Ci scappa un enorme
sospiro, sognando il giorno che ci arriveremo sul serio, a Murmansk… facciamo
dietrofront, Napapijri ci aspetta. Osserviamo il territorio, e scopriamo delle
analogie con la Siberia: anche qui, particolari alberi di pino crescono e prosperano
su gialle dune sabbiose. Ne approfittiamo per prendere, come souvenir, un
sacchetto di sabbia gialla; per i più curiosi, queste le coordinate:
68°28’58.2” lat. N – 28°10’46.8” lat. E.
Ci fermiamo per uno
spuntino, in uno spiazzo adibito alla sosta dei camion, tra una duna e un
fiume, e mi cade l’occhio su delle impronte impresse nella sabbia… ma sono di
alce! Inconfondibili, enormi, e la invidiamo: per lei non esistono confini,
visti, timbri, passaporti…. Lapponia, Carelia, Scandinavia, non fa nessuna
differenza, è sempre casa sua. Merita una foto!
Rimontiamo in auto,
rotta sud-sud-ovest. Dopo 205 km, nella più grande tranquillità, nella
cittadina di Sodankilä (8.826 abitanti, di cui 300 Sami e… 22.500 renne), troviamo
un camping aperto (camping Nilimella), dove anche qui ci fermeremo per 2 notti.
Per 30,00 € al giorno, ci assegnano un simpatico, anche se minuscolo chalet
(…rosso!), con riscaldamento già acceso, servizi in comune e wi-fi gratuito
alla reception. Il campeggio è praticamente all’interno del paese, sulle rive
del fiume Kitinen, attiguo ad una scuola, ed il paese è ben fornito di tutto.
Siamo gli ospiti più giovani del campeggio, gli altri sono camperisti over 60.
Piccolo giro in centro, poi torniamo nel nostro chalet e ci informiamo coll’
“Aurora forecast” sulla probabilità di vedere l’aurora boreale: purtroppo
l’intensità in questi giorni è piuttosto bassa, ma forse, se siamo fortunati,
domani notte potremo sperare di vederla ugualmente! Intanto, mettiamo la
sveglia verso le 2.00 del mattino, ora di massima intensità. Alle 2.00,
intontiti, ci vestiamo pesantemente (fuori è quasi sottozero) e ci mettiamo a
scrutare la volta celeste ma… nulla di fatto. Il cielo è sereno e le stelle
sembrano piombarci addosso; via Lattea a parte, non riusciamo a percepire
altro. Ci ributtiamo in branda, come due ghiaccioli.
Martedì
Ci alziamo con la
dovuta calma, colazione al tepore del termosifone elettrico, piccola spesa di
generi alimentari (e troviamo anche le ottime birre Kahru, che ci allieteranno
la serata), e giro in centro. La giornata è splendida, e ci godiamo un meritato
relax, bighellonando per il paese e prendendo un po’ di sole sulla riva del
fiume Kitinen. Ci imbattiamo in una bella scultura che rappresenta un Lappone
che cattura al laccio una renna, è un bronzo del 1970 dello scultore Ensio
Seppänen collocato proprio al centro della cittadina. Anche qui l’attività
dell’allevamento delle renne rappresenta la principale fonte di reddito.
La vita qui scorre
molto tranquilla, il traffico c’è ma tutti vanno a circa 30 all’ora
(obbligatorio nei centri abitati), la gente a piedi non va di fretta e, in
generale, sembra che l’esistenza in Finlandia scorra al rallentatore. L’aria,
nonostante il viavai di autoveicoli (modesto, per la verità), è pura. Può
piacere o non piacere; crediamo però che chi viene da un Paese casinista e
confusionario (tipo il nostro), non possa che apprezzare l’occasione di poter
assaporare la vita “a misura d’uomo”, senza troppa fretta, senza strombazzare
col clacson, senza dover mandare qualcuno “ammoriammazzato”
ad ogni piè sospinto. Riflettiamo sul fatto che, effettivamente, di finlandesi
dalle nostre parti non se ne vedono proprio. Poi mi torna alla mente un
aneddoto raccontatomi da una conoscente: dei suoi amici che abitano verso il
nord della Germania, hanno avuto come ospiti una famiglia di finlandesi di
recente conoscenza, che volevano soggiornare in Germania circa una settimana.
Ma dopo due giorni, hanno fatto le valigie e se ne sono tornati a casa. Motivo?
Non per la compagnia degli amici tedeschi, ma per la confusione, il traffico,
la frenesia (??) che hanno trovato dalla Danimarca in giù. Per costoro, abituati
al silenzio boreale, era veramente insostenibile. Noi, girando per questa
cittadina, invece, ci sembra di poter riagguantare quel senso dell’esistenza
che il “logorio della vita moderna” ci erode giorno dopo giorno. Ci chiediamo
come sarebbe vivere a lungo in questa pace e questo silenzio: il primo impatto
è straniante poi, km dopo km in queste terre sconfinate, si prova un senso di
“disintossicazione” dal casino imperante di casa nostra, dopodiché ci si abitua
e, infine, si apprezza e si assapora; nella tranquillità di questo paese (come
a Inari) ci sembra di spellarci da tutti quei rumori, quasi dei fastidiosi
orpelli che, volenti o nolenti, pare non possiamo farne a meno di appiccicare
alla nostra esistenza. Crediamo, tuttavia, che per “resistere” a questo bagno
“detox” si debba essere portati, o quanto meno motivati, almeno
caratterialmente. Dubitiamo che una persona amante del sole, dell’allegria gioviale
e chiassosa possa resistere più di qualche giorno in questo universo fatto di
sussurri e oscurità. Le congetture mettono appetito, perciò cerchiamo un posto
dove mandar giù un boccone vero e non una scatoletta. Il primo locale che ci
capita sottomano è un pizza-kebab, che però non serve birre (ah, ma allora è un
vizio!). Ci rifocilliamo, un occhio ad un talk-show in tv (educato, non urlato)
e la strada sottostante, col suo minimo traffico a 5 decibel. Altri avventori
si sistemano attorno a noi, lingue incomprensibili bisbigliate tra un boccone e
l’altro. Chiasso zero. Anche le orecchie qui sono in vacanza. Nel primo
pomeriggio, giretto per il paese, modesto ancorchè curato e pulitissimo, ma
senza quella certa aria ricercata e perfettina osservata in Svezia. Ci
imbattiamo in due belle chiese, una recente (1859) costruita usando pietre
bianche estratte proprio in città (culto evangelico-luterano), l’altra completamente
in legno e che è tra le più antiche della Lapponia, edificata nel lontano 1689
e restaurata nel 1926, usata per i matrimoni tradizionali, ornata di particolari
sculture sul tetto; un vero miracolo sia rimasta in piedi, stante la
distruzione totale operata dalle truppe naziste in fuga dai sovietici durante
la 2^ Guerra Mondiale. Un giretto anche per l’attiguo cimitero, prospiciente il
fiume. I camposanti sono luoghi molto istruttivi e, anche chi non c’è più, può
raccontarci, tramite i nomi e cognomi e le fotografie, qualcosa di sé e del
luogo visitato. Un paio di lapidi ci incuriosiscono, perché accanto ai nomi dei
defunti sono aggiunti anche degli stemmi particolari: uno ricorda un gladio,
l’altro sembra una specie di croce uncinata. Chissà, magari queste persone,
defunte da tempo, hanno prestato servizio militare inquadrati nelle file del
Reich (non dimentichiamo che la Finlandia, a suo tempo, fu inquadrata come
“collaborazionista” delle forze dell’Asse). Ritorno allo chalet, consultazione
del meteo aurora (oggi dicono: “aurora di bassa intensità, tra le 3.00 e le 5.00),
romantica cenetta e poi a nanna; sveglia nuovamente a notte fonda, sai mai che
si riesca a vedere qualcosa… Alle 3.00, completamente rintronata, mi butto un
giaccone addosso e metto il naso fuori, senza svegliare Max; mi accorgo che il
prato è completamente brinato, vuol dire che siamo nuovamente sottozero ed è
meglio vestirsi come si deve. Faccio un paio di passi in giardino ed osservo il
cielo sopra di noi; fortunatamente è sereno e le stelle brillano come diamanti
sul velluto. Ma non scorgo nulla. Ritorno in branda, puntando la sveglia alle 5.00.
Alle 5.00 mi rialzo, già vestita, e torno ad osservare il cielo, poco speranzosa.
Un momento… c’è qualcosa! Aguzzo la vista, mi stropiccio gli occhi ancora
assonnati e scorgo una pallida luce semovente, lattiginosa. La osservo con
attenzione per accertami che non sia una nuvola di passaggio. No, è proprio
l’aurora, ma… in bianco e nero! L’Aurora Boreale dei Poveri. Torno dentro a
svegliare Max; sarà anche in bianco e nero, ma sempre aurora è! Insonnolito,
getta lo sguardo all’insù: “Ma… e i colori? “Tesoro…” lo rincuoro io “ma per 30
euro di bungalow e cesso in comune, cosa pretendi, anche l’aurora a colori?!?”.
Ridiamo (per non piangere..) nella fredda notte boreale, mentre l’erba
ghiacciata fa crack-crack sotto le nostre scarpe. Rimaniamo ancora qualche
minuto ad osservare questo pallidissimo fenomeno. Bè, consoliamoci, c’è chi
viene qui apposta e non la vede affatto! Sogghignanti, ce ne torniamo nei
nostri sacchi a pelo. Domani si riparte.
Mercoledì
Ci alziamo di buon
mattino, destinazione Rovaniemi e il mitico Napapiiri (cioè Circolo Polare
Artico in finlandese); giornata plumbea, traffico scarso. Piccola sosta in un
negozietto di souvenir per gli ultimi acquisti; la gentile signora dagli occhi
blu si informa sulla nostra provenienza e facciamo un paio di commenti sulla
giornata; ormai è arrivato l’autunno, le giornate si accorciano, e poi ci sarà
solamente buio e neve. Per la signora fonte di tristezza, per noi (per me,
poi..) motivo di gioia e allegria; Max propone uno scambio: la signora torna con
lui, io rimango qua! Rimontiamo in macchina, e a bordo strada vediamo uno strano
cartello… dice “occhio alla motoslitta”!. Fa sorridere, ma effettivamente, con
tutta la neve che cade qua, la motoslitta può rappresentare l’unico mezzo per
spostarsi da un luogo all’altro (e anche condurre le renne). Quanto ci
piacerebbe tornarci in inverno! Alle 13.00, con un timido sole, eccoci a
Rovaniemi, che sembra una piccola Disneyland in salsa finnica. Che ci vuoi
fare? E’ sempre un modo per fare cassa. Troviamo parcheggio senza problemi tra uno
scavatore e un camion di terra, siamo in pochi turisti, e tutto il sito è in
rimessaggio. Fa quasi caldo, tanto che Max gira in maniche corte. Rapido giro
tra le costruzioni in legno che ospitano caffè, ristoranti, outlet (?), negozi
di souvenir, l’ufficio postale di Babbo Natale (o Santa Claus, che qui viene
chiamato Joulupukki in lingua locale), dove si ricevono tonnellate di letterine
a Babbo Natale provenienti da tutto il mondo e dove si possono spedire gli
auguri col timbro di Santa Claus. Poi una casa dal tetto a punta aguzza con una
tabella che dice “Santa is here”. Si entra e subito si viene accolti da una
musichina soft e molto fiabesca, e qualche “elfo” aiutante si aggira per i
negozi. Per raggiungere Babbo Natale si seguono le indicazioni sparse un pò
ovunque, poi, nella penombra, si attraversa una specie di superficie ghiacciata
(in resina) dentro un tunnel, sempre con sottofondo di musichetta fiabesca, con
campanelli e rintocchi di orologio a pendolo, molto suggestivo ma anche molto
kitsch. Incontriamo un’enorme ruota che a prima vista sembra un rotolo di
nastro adesivo, se non che il nastro è formato da migliaia di
cartoline/desideri scritti dai visitatori di tutto il mondo. Abbondano le
richieste in lingua italiana, mittenti di tutte le età: “…tanta salute per i
miei bimbi”, “…la pace nel mondo” “…tanti giocattoli” “vorrei tanto un
fuoristrada” (questa non è nostra, lo giuriamo!). Max vuole suggellare i 50
anni con una foto con Babbo Natale. “Ma Massimo, come i bambini?” chiedo io,
sorpresa. “Certo” ribatte lui “invecchiando si torna un po’ bambini, no?”. Come
dargli torto? Per raggiungere il venerato Babbo, bisogna salire una scala a
semicerchio; sulla parete, sopra la balaustra, fanno sfoggio diverse foto del
Babbo assieme a delle celebrità; quasi tutte le facce ci sono sconosciute, meno
una: la osservo bene e mi accorgo che è… Sergej Lavrov, ministro degli esteri
russo! Ah, beh, allora, se l’ha fatta pure lui….! Ci mettiamo in coda, dietro a
due ragazze orientali. Si può fotografare dappertutto, ma nella stanza di Santa
Claus è espressamente vietato. Intanto che aspettiamo il nostro turno,
osserviamo un quadretto che illustra la “top ten” dei paesi di provenienza dei
visitatori; subito dopo Finlandia e Russia, al terzo posto c’è… la Cina! Ci
siamo, tocca a noi. L’elfo aiutante ci fa accomodare e ci indica dove possiamo
poggiare zainetto e macchina fotografica. Con il classico “Oh oh oh” il panzuto
personaggio ci accoglie, comodamente seduto su di una seggiola a schienale
alto, in legno, piuttosto semplice, con casacca rossa e bianca e berretto rosso
e lungo lungo a scendere sulla barbona bianca e riccioluta, pantaloni over-size
di panno grigio, calzettoni fatti a maglia a righe ed enormi babbucce in feltro
marrone; la stanza sembra “vissuta”, il pavimento a doghe è consumato come il
tappeto, alle sue spalle grandi planisferi e carte geografiche “antiche”, un
telefono a muro stile primo ‘900, una libreria piena di libri, carte
arrotolate, altri libri sparsi un po’ dappertutto, in uno studiato disordine… a
dirla tutta, sembra un po’ casa nostra. Ci accomodiamo su delle panchette.
Osservo che avrà forse poco più di cinquant’anni, e gli occhi blu spiccano
sulla carnagione rosea e i baffoni e la barba candida. Devo dire che non ho mai
visto una barba finta così realistica! E’ (quasi) poliglotta, ci chiede la
nostra provenienza e così veniamo a sapere che lui conosce Trieste (!) perché
ci è passato la scorsa estate per andare in vacanza in Croazia (!!). L’omone è
gioviale e ci chiede se siamo venuti in aereo. Ma quale aereo, in macchina! Lui
sgrana gli occhioni blu chiedendoci quanti km sono da casa nostra e ci fa i
complimenti. Pronti per la foto? L’elfo aiutante si improvvisa fotografo (in
effetti, la stanza di Babbo Natale è uno studio fotografico, con tanto di spot,
lampeggiatori, pannelli riflettenti), un, due, tre “cheeese” (ma a me è parso
che stringesse un po’ troppo la mano sulla mia spalla… J ). Un paio di scatti,
tanti saluti e possiamo lasciare il posto ad altri. Uscendo, un altro elfo ci
mostra le foto; se ci piacciono, possiamo acquistarle, altrimenti non è
obbligatorio. Ovvio che le acquistiamo, assieme al piccolo video dell’incontro.
Il tutto scaricabile dal loro sito internet tramite pin. Insomma, 39,00 euro
per tornare un po’ bambini! Usciamo e il sole ha preso coraggio. Foto ricordo
sulla linea che demarca il Circolo Polare Artico a 66°32’35” di latitudine
nord, e poi immersione tra i negozietti di souvenir. Anche qui un po’ di tutto,
ma ci colpisce il negozio dell’artigiano pellaio, che confeziona babbucce in
pelle di renna (dice lui). Sì, sono di pelle vera, ma la pelliccia è
palesemente sintetica, per cui siamo un po’ perplessi nell’acquisto.
L’artigiano, da cordiale, si fa scortese e, sibilando “thank you, thank you” ci
accompagna in malo modo alla porta. Eravamo gli unici clienti là attorno… Alla
fine, non acquistiamo niente da nessuno, e ce ne andiamo da Rovaniemi e dal
Circolo Polare con un po’ di amaro in bocca. Peccato. Sempre verso sud,
direzione Baltico. A metà pomeriggio raggiungiamo Tornio, città divisa a metà
dal fiume Kemijoki che fa da confine con la città svedese di Haparanda. Il primo impatto non è dei migliori: purtroppo
una fosca cappa grigia proveniente dal mare avvolge questa cittadina, già
grigia di suo. Troviamo alloggio al Tornio City Hotel, costruzione di anonima
linearità, ma camera spaziosa. Quattro passi per il centro, sul quale aleggia
un’atmosfera di pesante mestizia. Due splendide chiese (una ortodossa, l’altra luterana,
in architettura lignea tradizionale) spiccano tra tanti condomini in grigio
cemento, squadrati, anonimi, tutti uguali, poco dissimili dagli ultimi prodotti
dell’architettura sovietica; vorremmo tanto che qualcuno ci spiegasse perché i
condomini sovietici vengono definiti tristi e rozzi e quelli finlandesi,
praticamente uguali, vengono esaltati come “rigoroso design scandinavo”.
Attraversiamo una zona pedonale semi deserta, con pochi negozi aperti;
scopriamo che qui la vita comincia alle 7.00 e si ferma tra le 16.00 e le 18.00.
Se da un lato la chiusura anticipata consente a chi vi lavora di godersi un po’
di più le ore libere, d’altra parte per chi viene da fuori, e ancora non
conosce le abitudini locali, è un po’ spiazzante trovare tutto chiuso già alle
18.00, così anche il desiderio di riposarsi e concedersi un pasto caldo... va a
farsi benedire. Persino un enorme centro commerciale sta già chiudendo i
battenti; osserviamo le vetrine: intimo prezioso indossato da tristi manichini
di polistirolo sbeccato (sembrano ferite di guerra, ricordi di troppi saldi alle
spalle) che aggiungono squallore alla mestizia. Tentiamo di cercare un posto
per un boccone. Una birreria! Entriamo, ma nessuno sembra badare a noi.
Attendiamo che qualcuno almeno ci chieda che vogliamo, ma sembriamo invisibili,
facciamo qualche cenno alla banconiera, ma evidentemente non fanno servizio al
tavolo (e la banconiera ben si guarda dal dircelo) perciò ce ne andiamo.
Cerchiamo altro, ma ormai sono quasi le 19.00, e gli unici locali aperti sono i
pizza-kebab e take-away cinesi, thai, indiani…. Non ci resta che spostarci
verso la zona pedonale ed entrare in un pizza-kebab che, incredibilmente,
chiude alle 21.00. Scherzi del destino, l’esercizio si chiama “Pizzeria
Utopia”… ecco, appunto, un’utopia trovare qualcosa di finlandese aperto… E’
surreale, perché questo locale in un’ora ha fatto almeno 12 clienti finnici,
tra servizio al tavolo e take-away, mentre la signora del locale a fianco
(finlandese) aveva già sistemato le sedie sui tavoli e lavava il pavimento… Nel
nord Europa (e non solo…) ci si lamenta tanto per l’invasione dei “kebab”, ma
voi, autoctoni, dove siete? Ok, niente alcolici, però la gente viene e spende
ugualmente. Senza questi localini “stranieri” l’intero quartiere, al calar
della sera, sarebbe senza vita (col centro commerciale già chiuso!) e lo stesso
sembrano pensarlo gli avventori finlandesi; un panino, una pizza, un hamburger
con una bibita sono sempre ben graditi e fonte di aggregazione, altrimenti qui
sarebbe da suicidarsi. Alle 20.30 ce ne torniamo in albergo, le strade grigie sono
vuote ad eccezione di qualche skinhead e qualche ragazzino ciondolante. Näkemiin Suomi! (arrivederci Finlandia).
SVEZIA, fine di un mito
Di primo mattino
attraversiamo il ponte sul fiume e siamo in Svezia, oltrepassiamo l’anonima
città di Haparanda e ci dirigiamo, inesorabilmente, verso sud. Manco partiti,
che nei pressi del paesino di Kalix ci dobbiamo fermare, perché un disco
volante appare a lato della strada… Scendiamo, e scopriamo che il disco
volante, con tanto di E.T. a grandezza naturale, è fatto di legno, e tutto
attorno ci sono riproduzioni fedeli, sempre scolpite nel legno, di jeep
militari, aerei della 2^ guerra, un carro armato a grandezza naturale, un
biplano, assieme a totem pellerossa, e un vero camion Scania delle forze armate
svedesi… Poveri noi… un paio di foto e si prosegue, imboccando l’autostrada,
contornata da alti recinti a prova di alce, tentando di non soccombere
all’abbiocco causato dalla monotonia della strada e da un sole
sorprendentemente gagliardo. All’ora di pranzo, però, l’inaspettato: proprio
oltre la rete divisoria, una figura gigantesca spicca un balzo verso la
prospiciente foresta: un’alce! Eccola, finalmente! Agguanto la Nikon, ma
neanche farlo apposta lo zoom non ne vuole sapere di metterla a fuoco, così
sono costretta a focheggiare a mano: il
risultato è una serie di scatti di un animale molto alto, scuro, con un accenno
di corna, che si allontana senza troppa fretta verso il bosco, salvo poi
fermarsi dietro un pino per osservarci con comodo (siamo in auto, quindi non ci
teme più di tanto). Ora il “para-alci” sui TIR ha un suo perché. L’alce ha la
brutta abitudine di sbucare all’improvviso sulla strada, salvo poi compiere
qualche scarto repentino ed imprevedibile. Proviamo ad immaginarci un bestione
di quasi 800 kg, alto oltre un metro e ottanta alla spalla, magari maschio
provvisto di corna enormi, che salta fuori dalla foresta e ti taglia la strada
all’improvviso: non sono rari gli incidenti contro questi cervidi giganteschi,
e purtroppo spesso sono mortali (per tutti). E’ così alto che una renna, senza
corna, potrebbe tranquillamente passargli sotto alla pancia senza abbassarsi!
Il fugace incontro ci emoziona e ci toglie un po’ dall’apatia che questi lunghi
e solitari nastri d’asfalto inevitabilmente ci fanno precipitare. Verso il
primo pomeriggio decidiamo di far una sosta e scendiamo verso il mare. La
cittadina di Luleå (si pronuncia Luleo) sembra far al caso nostro, protesa sul
Golfo di Botnia e con tante isolette prospicienti. La giornata ora è splendida,
il cielo blu come il mare. Ci fermiamo in uno spiazzo attrezzato vicino al
porticciolo, per una birretta in santa pace (non è difficile, qui…), con la
sola compagnia di un giovanotto con un bimbo handicappato, silenziosissimi.
Sorseggiando la birra, osserviamo le strolaghe che si tuffano nell’acqua bassa,
scintillante di riflessi. Risaliamo in auto per fare un giretto in questa
cittadina balneare, e così abbiamo modo di osservare i vari cottages (rossi, ma
anche blu, azzurri, grigi, ocra, verdi) che punteggiano questa costa. Dato che in
queste lande la luce è poca, le case hanno ampi finestroni senza tende, tanto
tutti si fanno gli affari propri e non c’è l’abitudine di guardare nelle case
degli altri. Noi, invece, da bravi curiosoni mediterranei, approfittiamo dell’occasione
per “sbirciare” nello stile di vita svedese. L’arredamento stile Ikea è
imperante, tutto su toni che vanno dal
grigio, all’avorio, al perla, al celestino mutanda… non riusciamo a capire come
si faccia ad apprezzare questo stile monacale, e francamente punitivo, quando
anche l’esterno è pallido e grigio per la maggior parte dell’anno. Ci
immaginiamo l’inverno: bianco dappertutto, torni a casa e trovi sì un caminetto
scoppiettante, circondato però da mobilia di betulla chiara, muri grigi, suppellettili
bianche... Sinceramente, lo troviamo un tantino depressivo. Ci fermiamo in un
porticciolo di pescatori, giusto il tempo per uno scatto del Golfo. Sto
inquadrando una porzione di mare ben soleggiata quando nel mirino mi appare una
patina opaca; oddio, penso, la Nikon mi fa di nuovo problemi…. Distolgo
l’occhio dal mirino e guardo il mare: non è la macchina a fare problemi, sta
arrivando un banco di nebbia talmente fitto che in breve nasconde tutto il
paesaggio, tanto da non vedere più le barche sotto di me e nemmeno Max che mi
aspetta in auto. Bè, noi siamo nati in una città di mare nell’estremo nord
dell’Adriatico, quindi di brume marittime umide e fredde dovremmo avere
esperienza. No, ci rendiamo conto che noi NON SAPPIAMO che cosa significa quell’umidità
che ti attanaglia le ossa. Il banco di nebbia avanza compatto, mi avvolge come
un enorme sudario fradicio e ghiacciato, penetrando attraverso gli abiti e
raggiungendo le ossa, intirizzendomi, trasformando il sole in una palla fredda
e satinata, per poi andarsene com’era venuto e lasciandomi basita a contemplare
un golfo splendente e luminoso. Due minuti di vero panico. Torno in auto e Max
mi dice: “Non ti vedevo più!”.
Di nuovo in marcia,
passando un’infilata di paesi simili; dopo Luleå, si raggiunge Piteå, poi
Skellefteå, Umeå… dato che la “å” col tondino si pronuncia “o”, ne consegue che
i paesi si pronunciano Luleo, Piteo, Skellefteo, Umeo… conferendo un vago retrogusto
veneto alla toponomastica svedese.
Ogni tanto, percorrendo
l’autostrada, ci imbattiamo in strani varchi nelle reti di recinzione a margine
della carreggiata, varchi presenti in ambedue i sensi di marcia; prima uno, poi
un altro, un terzo, sono singolari, perché sembrano delle porte di calcio (più
piccole e basse, però), dipinte in giallo-nero e, appese sulla traversa, una
serie di catenelle giallo-nere che pendono fino quasi al terreno. Sul momento
non riusciamo a comprenderne l’utilità ma, km dopo km, ecco che i loro
significato è lampante: semplicemente, sono i varchi per le motoslitte! Con la
neve alta che copre tutto, e con il traffico scarso, sarebbe stupido precludere
gli spostamenti con la motoslitta solo perché i loro percorsi battuti
intersecano un’autostrada quasi sempre deserta!
Ormai abituati al
silenzio, proseguiamo nel nostro muovere verso sud; incontriamo altri paesi più
o meno grandi, la Svezia meridionale torna ad essere più popolata; abbiamo
perciò modo di osservare la fauna umana che incrociamo; ma dove sono finite le
belle svedesi del mito? Non dovevano essere tutte come Filippa Lagerbäck? E i
gli uomini stampo vichingo, bei guerrieri alti e biondi? La gioventù lascia
parecchio a desiderare: si muovono in skate, bici, o con i bastoncini da nordic
walking, ma le ragazze sono quasi tutte di media altezza e in abbondante
sovrappeso, non c’è n’è una che non sia sotto gli 80 kg, risultato di una vita
virata al troppo: troppo sedentaria, troppo computer, troppi hamburgare (come li chiamano qui) e
troppe ubriacature del week-end; i giovani vichinghi sono quasi tutti alti e
biondi, dalle belle facce nordiche, e potrebbero ben figurare come modelli per
sport estremi, se non fosse che a diciott’anni trascinano in giro corpi sfatti e
panze flaccide da pensionati bavaresi. Ogni tanto sull’asfalto vediamo dei
cerchi lasciati dalle sgommate dei pneumatici; se questo, dopo facebook e le
bevute di birra e vodka, è il solo passatempo dei ragazzi svedesi, siamo messi
male… Gli unici in forma sono gli anziani, alti e asciutti, pimpanti in tuta e
scarpe da jogging, molti coi bastoncini da nordic-walking, generazione che non
ha conosciuto i vizi della vita hi-tech… Per rompere la monotonia del viaggio,
accendiamo la radio, magari riusciamo a sentire un po’ di idioma locale e un
po’ di musica che non sia anglosassone; per l’idioma locale siamo accontentati
(una cantilena un po’ strascicata, un tantino monocorde, senza le durezze
germaniche), ma su qualsiasi stazione ci si sintonizzi, è impossibile ascoltare
qualcosa che non sia di provenienza anglo-americana; ah, che bei ricordi
dell’Albania e della sua “Radio Dimensio” con repertorio pop-turbo-folk in
salsa balcanica! Ma dopo esserci sorbiti la lagna angloamericana per tutto il
viaggio d’andata, all’ennesimo passaggio di Kate Perry, Miley Cyrus, e gli
onnipresenti Abba (ormai eroi nazionali) spegniamo, per non essere sopraffatti
dalla nausea. Molto meglio il silenzio. Di questo Paese senza identità siamo
già abbondantemente stufi.
Ennesima ricerca di un
posto dove passare la notte, ma non riusciamo a trovare null’altro che non sia
un solito motel della Scandic. Siamo nei pressi della città di Örnsköldsvik. La
consueta camera minuscola nei toni
bianco/caffè, carissima (187,00 euro), abbellita (secondo il loro gusto) da una
maxifoto, sopra al letto, che ritrae un viso di ragazza scandinava (in
bianco/nero) in un atteggiamento da estasi mistica; secondo noi devono essere
gli effetti collaterali della pittura argentata che le hanno spruzzato in
faccia; se per gli svedesi questo è un esempio di “scandinavian style”, per noi
altro non è che un brutto “remake” delle facce argentate dei Rockets anni ’70.
Abbandoniamo subito questo obbrobrio per andarcene a cena; concediamoci un
pasto caldo, al posto delle nostre solite provviste. Scopriamo che c’è un
buffet self-service, ma è preso d’assalto da due comitive di arzilli e vivaci ottantenni
appena sbarcati dai pullman. Intanto che attendiamo la sciamatura delle
vegliarde cavallette, ci guardiamo un po’ attorno per osservare la fauna
locale. Anche qui, il personale di servizio è tutto fuor che svedese. Dal
nostro tavolo possiamo osservare anche il parcheggio e l’autostrada, vediamo
diverse persone; finalmente facce scandinave, ma su corpi samoani. Max si
chiede dove sono sparite le splendide stangone svedesi che lo facevano sognare quando
frequentava i campeggi. “Sì, ma quanti anni fa?” chiedo “Bè… circa 40..” è la
risposta. “Vuoi sapere dove sono finite le svedesine di allora? Eccole qua,
proprio dietro di te”. Le arzille turiste sono venute a sedersi in gruppo
proprio vicino al nostro tavolino. L’età media dei due gruppi (uomini e donne)
è attorno ai 70 anni, però probabilmente sono gli unici svedesi veri e propri
rimasti; gli uomini somigliano tutti a Max von Sydow; le signore, quarant’anni
fa dovevano essere bellissime; ora, nonostante la ragnatela di rughe e i
capelli candidi, sono asciutte, ma pimpanti e piene di gioia di vivere. La fame
si fa sentire, vado a vedere se nel buffet c’è rimasto qualcosa; niente di
allettante, perciò ordiniamo alla carta: due striminzite bistecche (da 200
grammi) e 4 birre Starobrno, per un totale di 682 corone, che al cambio
sarebbero 74,05 euro! Cominciamo ad essere insofferenti di questo sistema di
vita! Ancora una volta bastonati, ce ne torniamo in camera, cercando di evitare
di posare lo sguardo sulla tizia in contemplazione estatica sopra al nostro
letto.
Venerdì
Ci alziamo presto e
sgattaioliamo via da quella stanza e dalla mistica in silver-glitter, colazione
rapida e di nuovo in marcia, direzione sud-sud ovest. La strada segue la costa,
in un paesaggio nuovamente uniforme, attraversiamo anche qualche cittadina,
girando attorno alle “rondellen” (cioè come vengono chiamate qui le rotatorie).
Ora vediamo più gente, il sud della Svezia è densamente popolato. Nel primo
pomeriggio, con un bel sole obliquo e l’aria tiepida, raggiungiamo e
oltrepassiamo Stoccolma, nel traffico prefestivo del venerdì. Verso sera
usciamo dall’autostrada per dirigerci verso Nyköping e cercare un campeggio o
un b&b. Niente da fare, sembra che non esistano altro che i famigerati
hotel Scandic; speravamo che l’ultima notte in Svezia trascorresse in modo
diverso, invece… La cittadina è simile alle altre, con la differenza che le
case in legno sono a più piani e propongono una tavolozza di colori pastello
che ben si fondono con i viali alberati. Seguiamo le indicazioni per l’hotel
Scandic, situato in centro città. Memori della bastonata della sera prima, ci
informiamo sul costo: 990 corone, circa 108,00 € per il B&B; bè, ci
possiamo stare. Il bar-lounge dell’albergo è pieno della movida del fine settimana,
e sembra tanto un tableaux-vivant in
salsa Ikea; il brusio nemmeno troppo sommesso ci ricorda che, dopo qualche
migliaio di km nel silenzio totale, stiamo tornando alla “civiltà”. Ci
assegnano la solita camera, stessi colori, stessa biancheria…. Fortunatamente
sopra il letto non ci sono mistiche in lustrini, ma foto di campioni svedesi
dello sci…. Mah. Ad evitare cene con conto-batosta, ci sfamiamo in camera con
le nostre provviste. Domani, finalmente, lasceremo questo paese, straniero in
casa propria.
Sabato
Fatta la colazione, ci
mettiamo subito in marcia, rotta ovest-sud-ovest, verso Jönköping e Malmö,
riprendendo poi la strada dell’andata. E sembrano essere passati mesi. Il
traffico si fa un po’ più sostenuto, e verso Malmö si intensifica, restando
comunque scorrevole. La luce di metà pomeriggio rende più suggestivo
l’orizzonte piattissimo, dove il cielo si spalanca su bracci di mare blu e su
simpatici mulini a vento che sembrano fatti di lego; qualche nuvoletta rosa
rende il quadro ancora più bucolico; poco prima delle 16.30 raggiungiamo il
ponte sull’Øresund, il braccio di mare che separa la Svezia dalla Danimarca; inaugurato
nel 2000, è il più lungo ponte strallato d’Europa, quasi 16 km tra ponte e
tunnel; ci avviciniamo al casello e paghiamo il pedaggio di 46,00 €; correndo
tra mare e cielo, ci lasciamo la Svezia alle spalle; superata l’isola
artificiale di Peberholm, raggiungiamo il tunnel sottomarino (un altro!) e
sbuchiamo nei pressi di Copenaghen.
DANIMARCA, la grande piattezza 2
Eccola, placida
Danimarca, che si stende pigramente tra campi verdissimi e casette che sembrano
quelle del Monòpoli. Il ring di Copenaghen si srotola subito alle nostre
spalle, ora puntiamo verso ovest per raggiungere il secondo ponte del
pomeriggio, quello che separa l’isola di Sjælland dall’isola di Fyn, sul
braccio di mare denominato Storebælt; ore 17.44 approdiamo al casello, 33,00 €
di pedaggio e attraversiamo l’ultimo braccio di mare scandinavo, direzione
Odense, patria di quel Hans Christian Andersen che tanto ci ha incantati da
bambini. Prima del tramonto, facciamo un giretto nella cittadina di Nyborg,
alla ricerca di un letto. Di sabato pomeriggio qui non si lavora, perciò
facciamo due passi tranquilli tra muri in mattoni rossi e antichi panifici;
troviamo una specie di b&b, anche qui pieno di anziani in gita; entriamo in
quella che, a prima vista, sembra una ex casa di riposo… chiediamo se hanno
posto, ma è tutto occupato dalla comitiva dei pensionati, quindi ci rimettiamo
in marcia, sempre direzione Odense. Nel paese di Langeskov troviamo quello che
sembra un hotel-ristorante. Strada tranquilla, traffico scarso… Il Langeskov
Kro è un esercizio gestito da una famiglia turca e forse, stavolta, riusciremo
a fare una cena come si deve… La camera è spartana, pavimenti in linoleum color
pesca, copriletti che sembrano provenire dal baule di qualche parente anatolico,
doccia con scarico direttamente nel pavimento di gomma … ma almeno l’atmosfera
ha quel non so che di genuino e ruspante, e sembra una boccata d’aria fresca
rispetto all’anonimo arredamento svedese tristemente uguale, città dopo città.
Il tutto per 90,00 euro, con colazione. Il proprietario, un levantino scuro e
panzuto, ma dalla tipica cordialità mediorientale, ci fa accomodare nel salone,
in compagnia di una tavolata di famiglia danese (anche qua tutti obesi, pure i
bambini…). Due birre enormi e piacevolmente fredde ci ritemprano dei km
percorsi, accompagnate da pane tipo pita, bisteccone degne di questo nome,
contorni vari e piacevolmente stuzzicanti; il conto di 60,00 euro stavolta lo paghiamo
volentieri, almeno ci siamo riempiti lo stomaco di bontà... Le premure del
turco quasi ci sorprendono, abituati come siamo ormai da 15 giorni di nordica solitudine
e luterano distacco. Altre due birre danesi, ben spillate, per chiudere in
bellezza e a nanna. La Germania ci attende!
GERMANIA, herzlich willkommen!
Domenica
Prima colazione non
particolarmente ricca, ma gustosa. Lasciamo i turchi con un bel ricordo della
loro gentilezza, e in una bella mattina di nuovamente caldo sole autunnale, ci
dirigiamo verso il confine tedesco. Ultimo rifornimento di gasolio, in ricordo di
questo piatto Paese ci mettiamo in tasca delle monete col buco e cuoricini… nel
paese delle fiabe, ci pare d’obbligo che si batta moneta con impressi dei
cuoricini! I km scorrono veloci nel poco traffico domenicale, e verso
mezzogiorno solamente un cartello blu con le stelline gialle ci avvisa che
stiamo entrando nell’ultima parte di questo lunghissimo viaggio. Entriamo nel
primo Land confinante con la Danimarca, lo Schleswig-Holstein, terra
piattissima e sabbiosa, nota anche come Pomerania. Nella già trafficata
autobahn ci fanno compagnia singolari roulotte… da moto, davvero simpatiche in
tutte le loro varianti, a sottolineare ancora una volta lo spirito nomade di
questi discendenti degli antichi guerrieri sassoni. Sempre verso sud,
procediamo alla volta di Amburgo, che fa Land a sé stante, ricordo del suo
passato di capitale anseatica; l’enorme e trafficatissimo porto sull’Elba si
annuncia con una selva di gru già da lontano, e ci immaginiamo di scavalcare il
fiume con un ponte, invece… sorpresa! Imbocchiamo un lungo tunnel che sprofonda
esattamente sotto al letto del fiume! L’emozione dura poco, in un attimo sbuchiamo
sulla sponda opposta e ci lasciamo la città-stato alle spalle. Dopo pochi km
arriviamo al secondo Land più esteso di tutta la Germania (dopo la Baviera), e
precisamente il Niedersachsen (Bassa Sassonia). Il paesaggio è ancora
estremamente piatto, però il traffico consistente e la notevole antropizzazione
di quella che è a tutti gli effetti una immensa brughiera, segnano il
definitivo distacco da quelle cupe marche di frontiera boreale alle quali ci
eravamo già, in sostanza, ben abituati. Verso le 17.00 approdiamo a Lüneburg, la
“città delle rose rosse”, e troviamo facilmente parcheggio nei pressi del
centro storico; ci piacerebbe poter dormire qui! Quello che colpisce
particolarmente di questa graziosa cittadina anseatica non sono solamente gli
edifici in mattoni dalle facciate convesse, ma l’estrema pulizia delle strade,
nonostante l’intenso viavai di turisti e studenti. Non c’è una cicca per terra
nemmeno a pagarla oro, ci si potrebbe mangiare, seduti sul grigio acciottolato!
Il nostro giro inizia dal ponte sul fiume Ilmenau, e quasi tutte le case ancora
protendono le loro gru in legno direttamente sull’acqua o sulle viuzze più
trafficate. La città di Lüneburg ha fatto fortuna con il commercio del sale,
minerale che abbonda nel sottosuolo. Peccato che a forza di scavare, le
fondamenta degli edifici in mattoni, nel corso dei secoli, hanno cominciato a
cedere, e così ci troviamo ad ammirare case panciute, facciate sbilenche,
campanili pendenti; la brughiera non offre roccia, perciò l’unico materiale da
costruzione è l’argilla, con la quale impastare i mattoni; mattone su mattone,
è stata edificata una bellissima cittadina, anche questa sembra uscita da una
scatola di Lego! Tra “am Sande” e il “Markt”, cioè la lunga piazza della Camera
di Commercio ed il Mercato, si passeggia tranquilli, essendo tutto pedonale;
gerani alle finestre e una tranquillità da paesotto di campagna completano
l’idilliaco quadro. Anche quassù, la Germania si conferma un paradiso per
ciclisti e pedoni. Molte sono le case in mattoni e l’intelaiatura di legno
scuro, risalenti alla metà/fine del Cinquecento, donando quel sapore
medieval-fiabesco che ci fa tornare un po’ bambini (Hameln e il suo pifferaio
magico distano poche decine di km da qui). Proviamo a bussare ad un paio di
porte di suggestivi hotel, ma i prezzi proposti ci scoraggiano un po’.
Decidiamo quindi di uscire da questa cittadina-museo e provare in provincia.
Poco prima del tramonto ci fermiamo nel parcheggio dell’hotel ristorante
Rüter’s, a Salzhausen (che, traduzione spicciola, significa “abitare nel sale”),
piccolo borgo in mattoni, avamposto nella brughiera. L’hotel, anch’esso in
mattoni rossi, si presenta bene, con la bella facciata ricoperta da vite del
Canada ed ingresso accogliente. All’inizio del racconto di questo viaggio,
accennavo a quell’ostico termine tedesco, la “Gemütlichkeit”. Il difficile
termine sta ad indicare quel tipo di accoglienza speciale ma al tempo stesso
“intima”, quel “farti sentire bene come a casa tua”, una specie di calore da
focolare domestico, anche se casa tua non è, ma ti senti a tuo agio come se lo fosse. Il receptionist
è anche cameriere di sala e tuttofare al bar, (si intuisce che la gestione è
familiare), e il simpatico sassone dai baffi scuri si prodiga per accoglierci
nel più breve tempo possibile. Sul momento, senza pensarci, ci rivolgiamo a lui
(ormai come d’abitudine nordica) in inglese, ma intuiamo che lo mastica più o
meno come noi, perciò proseguo io in tedesco, con grande sollievo per entrambi.
Max non ha proprio le mie stesse sensazioni, ma io comincio davvero a sentirmi
come a casa mia; sbrighiamo le formalità e ci dirigiamo nella nostra stanza;
questo albergo è in attività, come luogo di ristoro per commercianti e
viandanti, fin dal lontano 1540, e la sua gestione è sempre stata familiare. Le
mura spesse, leggermente spioventi ed intonacate di bianco ci accompagnano fino
alla nostra stanza, ampia e confortevole, e con un bagno spazioso. Il letto in
legno massello intagliato e le finiture sempre in legno con intarsi rendono
preziosa la sosta, un balconcino tranquillo, ma quello che ci solletica è il
letto di dimensioni “nordiche”, e cioè quel 180x200 che in Italia non sempre si
trova; aggiungiamo i cuscini in piuma e le trapunte, pure in piuma d’oca, che
sembrano essere fatti apposta per essere strapazzati in un sacrosanto sonno del
viaggiatore! Il tutto a 98,00 € con colazione, che sembrano meritarli tutti. Scendiamo
per la cena, e subito siamo travolti da una confusione e da un trambusto al
quale, dopo 15 giorni, non eravamo più abituati. Se confrontati con il mutismo
scandinavo, qua sembra di stare ai Caraibi. Gente che va e che viene, boccali di
spumeggiante birra bionda serviti ad allegri avventori, “prosit” a raffica,
piacere della compagnia… Ritroviamo tutta quella gioia della convivialità che
nel profondo Nord sembra essersi persa tra i muschi della Taiga. Matthias, il simpatico
baffuto di prima, ci porta il menu; tra il brusio, le birre ed i profumi di
carne arrostita, lo stomaco ci si spalanca; e quindi via con una
Schweineschnitzel Jäger Art (bisteccona di maiale alla cacciatora), una Forelle
Müllerin (trota alla mugnaia), abbondanti contorni e 4 goduriose Lüneburger
(profumate birre locali), il tutto per poco più di 45,00 €; ci godiamo così la
penultima sera di vacanza. Ed io mi assaporo la “Gemütlichkeit”: soffitti a
volta, bassi su tutti noi, da vecchia locanda, la grande stufa in maiolica,
trofei di caccia alle pareti, collezioni di peltri, boccali in ceramica, antiche
stampe, qualche tappeto consumato dal tempo e dagli avventori… tutt’altra cosa,
ripensando allo smunto esistenzialismo scandinavo; e la lingua tedesca a far da
cornice, lessico quasi musicale rispetto ai sbrigativi e monocordi idiomi nordici;
in attesa della cena, osserviamo la cameriera dietro al bancone nell’arte di
spillare la birra; prima sciacqua il boccale con un getto d’acqua, poi,
leggermente inclinato, lo pone sotto alla spina, riempie il boccale per tre
quarti e lascia decantare la spuma, per circa un minuto; nessuno le fa fretta,
intanto si chiacchiera con i clienti, in rispettosa attesa. Un’altra spillata e
la birra riempie il bicchiere quasi all’orlo, ancora un attimo di pausa e
l’ultima spillata per il corposo cappello di schiuma. Ora il boccale può essere
servito a regola d’arte. E così ce li servono; per chi ama davvero la birra,
questo rituale è pregno di significati. Una comitiva di ragazzi di una
polisportiva locale irrompe nella sala, con medaglie, coppe ed allenatori. Una
bevuta in compagnia è d’obbligo, i “prosit” si sprecano. Stanchi, un po’
storditi da una genuina confusione che ormai ci era estranea, lasciamo gli
avventori (parecchi già brilli) alle loro teutoniche chiacchiere e ce ne
andiamo a sprofondarci in quella piazza d’armi di soffici piume.
Lunedì
Un letto da favola
presuppone un risveglio da favola. Il nuovo giorno, ahinoi, si annuncia con un
martello pneumatico in azione proprio sotto alle nostre finestre, alle 8,00,
con teutonica puntualità. Speravamo in un risveglio meno traumatico, ma tant’è.
Prepariamo i bagagli e scendiamo a far colazione, abbondante, come da
tradizione tedesca. Ci congediamo da questo bellissimo locale, consegniamo le
chiavi a Matthias, che ci augura un buon viaggio con tanta cordialità. Danke, alles wunderbar (martello
pneumatico a parte)! Prima di imboccare la E45, direzione sud verso l’Assia,
facciamo una piccola sosta in un paesino poco fuori Salzhausen, per ammirare le
tipiche case dei contadini sassoni, che venivano definite “case di solo tetto”.
Sono costruzioni in mattoni, legno e poca pietra, generalmente ad un solo
piano, la cui particolarità sono i tetti di canne palustri. Ma quello che più
colpisce, sono le teste di cavallo incrociate, scolpite nel legno, che fanno
bella mostra di sé sul frontone, al colmo del tetto. La tradizione vuole che,
se sono molto elaborate, il padrone di casa è una persona rispettata da tutti;
se i cavalli guardano verso l’esterno, in casa vi sono dei giovanotti che
cercano moglie; in caso contrario, vi abitano delle ragazze da marito che
offrono una sistemazione a qualche giovane contadino. Le case che vediamo ora
non sono più abitate da semplici contadini, molte sono state convertite a gasthof, come albergo diffuso, e le
usanze rurali si sono perse con gli anni; quello che, fortunatamente, non si è
perso, è la cura del passato ed il rispetto dell’architettura tradizionale; le
teste di cavallo sono ovunque sulle bellissime casette di paglia e mattoni, più
o meno elaborate, e tutta l’economia di questa zona vive sui cavalli e sul
turismo equestre; cavalcare nella tranquilla brughiera in fiore deve essere
semplicemente fantastico! Io vorrei rimanere a bighellonare ancora un po’, ma
dobbiamo rimetterci in marcia, il viaggio è agli sgoccioli e vorremmo
raggiungere la Baviera prima che faccia buio. Riprendiamo la E45, oltrepassiamo
l’enorme ring di Hannover, poi Göttingen, Kassel, Fulda, Würzburg, fino a
riprendere nuovamente Norimberga; l’idea sarebbe di pernottare a Monaco di
Baviera, ma poi ci accorgiamo che siamo in pieno periodo di Oktoberfest, perciò
rinunciamo; non vorremmo trovarci incasinati nel traffico impazzito di bevitori
giunti da mezzo mondo! Amiamo la birra, ma a tutto c’è un limite… Poco prima
delle 18,00 ci fermiamo nella minuscola cittadina di Greding, case con facciate
a scalini, mura medievali con ampi portali, torre difensiva, mulini ad acqua e
tanta, tanta tranquillità. Troviamo alloggio al Krone Gasthof, però il
proprietario di dice che il lunedì la cucina è chiusa, ma che possiamo
tranquillamente cenare dal suo amico, che ha l’hotel di fronte al suo; quattro
passi per sgranchirci le gambe e gustarci ancora un po’ di “Gemütlichkeit”. La
passeggiata nella fresca aria preserale mette appetito, perciò ci rifugiamo al
calduccio nel ristorante dell’hotel “Am Markt” (Al Mercato), già pieno di gente
(al nord si cena presto), in una bella sala dalle volte basse a crociera, le
mura spesse ed intonacate di bianco. L’ultima cena tedesca, e quindi vai di
lager spumeggianti, gulasch travolgente, stuzzicante scaloppina alla birra,
zuppa di cipolle dolcissime, croccanti verdure... Rotolanti, ce ne andiamo a
nanna, anche qui cullati nel sempre simpatico letto-piazza-d’armi.
Martedì
Evidentemente, è
proprio destino: se il tedesco, nemmeno a casa sua, riposa sugli allori,
figurarsi lo straniero; pertanto, sempre con teutonica precisione, alle ore 8,00
arriva il camion sotto alle nostre finestre a scaricare materiale per il
rifacimento dei marciapiedi…. Con un sospiro, ci alziamo e ce ne andiamo a far
colazione. Montando in auto, con ancora 672 Km da macinare prima di arrivare a
casa, abbiamo tutto il tempo per ripercorrere mentalmente questa magnifica
avventura nordica. Piccola sosta a Rosenheim, sotto alle Alpi bavaresi, per
acquistare qualche fusto di birra locale, in un attimo scolliniamo e siamo
nuovamente nel Salisburghese, ripercorrendo la strada intrapresa diciotto
giorni prima. Anche quest’anno, siamo partiti a fine estate e ritorniamo in
autunno; nonostante siamo ormai a sud, in prossimità di casa, il buio arriva
presto; per finire in bellezza ed aggiungere altre due nazionalità nella nostra
collezione di popoli di questo grand-tour, sconfiniamo ancora e siamo in
Slovenia, a cenare in una gostilna serba, giusto per tenerci leggeri;
grigliata mista balcanica, cipolla e peperoni a volontà, ottima pils
autoprodotta, venticello che porta i profumi sapidi dell’Adriatico; e pensare
che 15 giorni fa eravamo in mezzo alle renne, oltre il Circolo Polare Artico! E
sembra una vita fa.
L’EPILOGO
Ogni viaggio insegna
qualcosa, si fa tesoro di ogni esperienza. Certo, in quest’avventura scandinava
abbiamo volutamente giocato con gli stereotipi dei vichinghi alti-biondi-occhi
azzurri, interagendo nella realtà quasi sempre con gentili mediorientali dai
vellutati occhi neri, e al posto di rozze bettole tutte birra ed elmi con le
corna, abbiamo trovato lustri e analcolici pizza-kebab. Si impara che spesso la
realtà non è quella dipinta dalle accattivanti guide turistiche. E che
cos’altro abbiamo imparato da questo lungo peregrinare? Cosa ci hanno insegnato
le renne lapponi, i lupi svedesi, il rigore luterano, l’aquila di
Knivskjelodden, la foca di Norkapp, Maga Magò di Norvegia, i Sami dagli zigomi spigolosi
e occhi blu lago? Sicuramente ci hanno insegnato il rispetto e l’apprezzamento
del silenzio, quasi frastornante, nella sua totalità. La natura stessa, nella
sua immensa e stordente bellezza, ci ha insegnato ad amarla ancora di più. E
magari assaporare quegli istanti preziosi ed irripetibili quando, con un
profondo respiro, ti guardi attorno e scopri che intorno a te non c’è nessuno
per chilometri. Forse è questo l’insegnamento dello spirito del Grande Nord.
Sappiamo già che ci mancherà. Facciamo quindi nostro un detto di un famoso
viaggiatore, Galen Rowell: “Non lasciarti altro che le impronte alle spalle, e
porta a casa solo ricordi felici e buone fotografie!”.
9 commenti:
Interessante meta degli anni 70: si può fare in stagione invernale? Con una macchina normale, no jeep?
Ciao Erik, scusa se rispondo alla tua in ritardo.
Noi, questo viaggio lo facemmo nel 2014, entusiasti dei posti fantastici, unici nel loro genere, silenziosi da far paura. Lo ripetemmo quasi pari pari due anni dopo in invernale, con la sola differenza che ci fermammo prima di arrivare a Capo Nord, solamente perchè la nostra meta di allora, fu volutamente Murmansk nell'Artico russo.
Per arrivarci, hai generalmente tre percorsi principali da fare: Norvegia, Svezia o Finlandia. Per questo viaggio, scegliemmo la Finlandia.
Puoi andare tranquillamente a Capo Nord nei mesi invernali anche con una macchina "normale", purchè attrezzata almeno con i pneumatici da neve (da considerare anche i chiodi da neve). Su quelle strade, neve e ghiaccio, si formano già alla fine di ottobre e normalmente persistono fino a primavera. Le condizioni delle strade, sono generalmente pulite al massimo. Gli spazzaneve, passano più e più volte al giorno e quindi non ci sono grosse difficoltà nella guida.
Considera poi, che viaggerai costantemente nel buio più totale per gran parte delle giornate.
Se sei attrezzato e molto coraggioso, e vuoi conoscere il vero Capo Nord lontano dalla gran massa dei turisti, ti consiglio di cercare il sentiero lungo 9 km. di sola andata, per trovare il cippo. Ma è un percorso molto accidentato, senza mai un riparo in caso di necessità. Credo valga davvero la pena andarci. Devi cercare il percorso che ti porta a Knivskjellodden.
Per il resto, ti auguro buon divertimento.
P.S.: Non è solo una meta degli anni 70. Capo Nord , è sempre e sempre lo sarà, una delle tappe fondamentali per ogni viaggiatore.
Il profondo Nord, in effetti, ha scalpellato in noi ricordi indelebili fino agli strati meno superficiali della nostra anima. Ricordo nettamente la sensazione che provai nell'attraversare il "confine" della Lapponia svedese. Ricordo i gruppi di renne che si spostavano libere e indisturbate da una parte all'altra della strada. Ricordo la vista fugace di un esemplare giovane di alce nel vano tentativo di cercar di nascondersi alla nostra vista dietro gli alberi. Ricordo le lunghe strade, e talvolta assolutamente deserte, tagliare in due foreste immense. Ricordo un particolare a Knivskjellodden, , nel mentre si ammirava il mare di Barents e si strabuzzavano gli occhi nel vano tentativo di cercar di individuare le coste delle Isole Svalbard; il sorvolo sopra le nostre teste, e a una quota decisamente bassa, di un'aquila nel cercar di stanare la sua preda. Ricordo.. ricordo ancora tante cose di quelle terre...
Il Grande Nord regala emozioni vere a chi le sa cercare!
Grazie Barbara
MAX! OTTIMO SITO MOLTO INTERESSANTE!
STUPENDE LE FOTO ,COMPLIMENTI!!!
Grazie mille per il tuo complimento! Le foto, in effetti, aiutano molto a capire di cosa abbiamo visto, se abbinate anche alla lettura del racconto. Grazie per averci visitato, ma seguici ancora!!
Ciao, ho guardato e letto un po' qua e la. Quando ho visto la casa di babbo Natale ho stentato a riconoscerla, io ci sono stata a metà dicembre 2019, c'era tanta neve e tanto buio anche di giorno e sembrava di essere in una fiaba Il mio è stato un breve viaggio (solo 4 giorni) e penso che di tutto quello che hai visto te ne ho visto una milionesima parte :(
Forse un giorno ci tornerò.
Complimenti mi hai fatto innamorare di un luogo che fino ad oggi avevo vissuto come una fiaba.
Che bellissima sorpresa ritrovare un nuovo commento sul nostro blog! Blog purtroppo oramai fermo, per cause di forza maggiore, da quasi 3 anni.
Ci ha fatto davvero un piacere enorme. Grazie!
Questo significa che la curiosità della gente non si è mai assopita, nonostante il periodo di chiusura, prima fisico e poi mentale, a causa dei lockdown più o meno imposti. Hai visitato un Paese, secondo noi, bellissimo.
Non potevi scegliere periodo migliore, in un luogo magico non solo per i più piccoli. Immagina che, dopo aver compiuto il mio 50esimo compleanno, durante il viaggio che hai appena letto, sono stato proprio io a voler andar a trovare il Grande Vecchio direttamente a casa sua. Quale miglior regalo una persona può ricevere?
Io, proprio piccolo, non credo di esserlo più da un bel pezzo. Ma grande è stata l’emozione di stringergli la mano e di udire direttamente dalla sua bocca che conosce molto bene la mia città, in quanto spesso la oltrepassava, per recarsi al mare d’estate in un luogo non molto lontano da dove viviamo.
Noi ci siamo stati in settembre, al ritorno da un altro luogo magico ed epico per chi viaggia. E, ovviamente, la luce incontrata in quel periodo era totalmente diversa da quella incantata che hai vissuto tu in dicembre, anche se per pochi giorni. Però, se avrai tempo e voglia di leggere di un’altra nostra impresa, vedrai che due anni dopo ci siamo cimentati in un lungo e faticoso viaggio in invernale, con tappa rigorosamente dedicata al Villaggio di Babbo Natale. Nelle foto e nel racconto, ritroverai le luci, l’atmosfera e la neve che avresti vissuto tre anni dopo il nostro viaggio artico verso Murmansk nel 2016.
Grazie ancora per aver visitato anche solo un pezzetto del nostro blog, che in parte condivide il nome con il tuo nick. Gli orizzonti sono fatti proprio per aguzzare il nostro sguardo ancora più lontano.
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