8.472 Km in 19 giorni, 159,50 ore di guida fra 10 Stati, 8 capitali, Circolo Polare Artico e 2 fusi orari
rilevazioni effettuate con il navigatore cartografico GARMIN GPSMAP 60CS
rilevazioni effettuate con il navigatore cartografico GARMIN GPSMAP 60CS
(clicca sulla cartina per ingrandire)
MURMANSK
2016
“Mai potrai smettere di amare
la terra con cui hai condiviso il freddo.” (Vladimir Majakovskij).
NON C’E DUE SENZA TRE
Non ne potevamo più. Fermi. A casa. Per due anni,
causa grosso imprevisto. E dopo 14 mesi dall’ultimo periodo di ferie, anche
questo passato a casa. La voglia di partire - come sempre, tanta - stavolta si
è fatta urgente, vitale, inderogabile. Siamo caduti e ci siamo rialzati.
Abbiamo affrontato dei sacrifici. E questi sacrifici non potevano non avere
come coronamento se non il Paese che più di tutti ci ha rapito l’anima: la Russia.
D’inverno. In macchina. Oltre il Circolo Polare Artico. Ed un nome che profuma
di vittoria e di riscatto: Murmansk! La città più grande al mondo oltre il
Circolo Polare. Due anni prima, ne avevamo intravisto il nome su un cartello
stradale in Finlandia, ed avevamo sognato il momento nel quale ci saremmo
arrivati sul serio, a Murmansk. Due anni per elaborare quanto accadutoci e
maturare l’idea di questo viaggio, davvero un “pensiero stupendo”. Raggiungere
quell’avamposto artico da soli, con le nostre sole forze, senza guide, senza
sponsor, senza agenzie turistiche alle spalle. A distanza di oltre 24 mesi
dall’ultima avventura, questo doveva essere il nostro meritatissimo premio.
Rimetterci in gioco, dimostrare quanto siamo capaci di organizzare una
spedizione artica in invernale, quanto siamo disposti a spenderci in
sacrificio, sapendo in anteprima che non sarà un viaggio facile, né di piacere:
sempre al freddo, sempre al buio, sempre di corsa. Mai come stavolta, siamo
stati ostaggio dell’ansia da partenza, tramutatasi in pensieri oscuri, con
corollario di mille dubbi e timori: il timore di affrontare migliaia di km su
strade con neve e gelo; il pensiero della fatica, mentale ed anche fisica; il
dubbio dell’affrontare ore ed ore di guida nel buio e in condizioni
atmosferiche precarie; il timore (mai provato prima) di non farcela, fosco
sentimento che si faceva più denso e colloso man mano che si avvicinava il
giorno della partenza. Per contrappasso, la razionalità lucida che, per
reazione, si incuneava tra i pensieri negativi mettendoci davanti al fatto
compiuto: troppo tardi per tirarsi indietro; se lo facessimo, ora, non ne saremmo
più venuti fuori dal brutto incubo nel quale eravamo precipitati. Non possiamo
sapere come andrà, possiamo solamente immaginarlo, e l’unica risposta ai nostri
dubbi ce la darà la strada, chilometro dopo chilometro; solamente sul campo
scopriremo se e quanto i nostri timori saranno fondati. Gli ultimi giorni a
casa li abbiamo passati in “surplace”, respiri profondi e bocce ferme.
Riflettiamo sulle motivazioni che ci spingono ad affrontare questa avventura: la
voglia di non dargliela vinta alle avversità della vita sarà il nostro motore,
l’entusiasmo il nostro carburante, la fascinazione per questa terra sconfinata
e fuori scala il vettore, il motivo principe e sovrano. Se la Russia si può
paragonare ad un immenso oceano e le sue città come a delle isole, allora
possiamo a ben ragione considerarci dei navigatori di terra, ed è proprio la
terra, quella terra, che irresistibilmente
ci chiama a sé, a quattro anni dall’ultima volta che ne abbiamo calpestato il
suolo. “Ma perché d’inverno?” ci è stato chiesto da più parti. Ah, chissà… Sarà
perché noi due siamo nati nel pieno dell’inverno e la “brutta stagione” ce
l’abbiamo dentro? Sarà perché ci piace il gusto della sfida, soprattutto della
sfida con noi stessi? Perché ci piace metterci in gioco e vedere di cosa siamo
capaci? Perché le cose facili non hanno lo stesso sapore? Perché dici Russia ed
immediatamente ti viene un brivido di freddo? Sarà che forse noi dalla Russia non
riusciamo a starne lontani troppo a lungo… e chissà, forse anche la Russia non
riesce a star troppo tempo senza di noi? In fondo, ci piace pensarlo…
TTT
UN VIAGGIO NEL BUIO E NEL SILENZIO
Diciotto giorni. Come al solito, non riusciamo a
raggranellarne di più. La sfida nella sfida: ce la faremo a raggiungere
l’estremo Artico russo in inverno, con condizioni meteo proibitive, “toccare
con mano” la città di Murmansk ed avere
il tempo necessario per tornare indietro rispettando la tabella di marcia, e,
magari, anche a vedere qualcosa? Le incognite sono numerose, ma non ci facciamo
scoraggiare: solamente partendo ed affrontando questo ennesimo raid sulla verticale
d’Europa potremo scoprirlo; sono 10 gli Stati da attraversare tra andata e ritorno. Una sfacchinata, come al solito, e
per la maggioranza sono mere tappe di avvicinamento; il traguardo è nella
mitica penisola di Kola, mare di Barents, e per goderci la città almeno una
giornata intera dobbiamo galoppare attraverso mezza Europa con qualsiasi
condizione climatica. Siamo attrezzati, l’inverno non ci spaventa, anche perché
ormai sembra quasi la nostra dimensione. Il portabagagli è strapieno di
attrezzi: oltre al solito materiale (cinghie, cavi, compressore, accessori per
il verricello, ecc. ) che occupa un baule enorme, stavolta ci aggiungiamo anche
le catene da neve per le 4 ruote, avvitatore a batteria e chiodi per le gomme, potenti
lampade per rischiarare il buio più profondo, pala per spalare la neve
all’occorrenza, due borsoni di abiti pesanti e sacchi a pelo (che purtroppo
portano via molto spazio) e, immancabile, il nostro frigo, ripieno di generi di
conforto altamente sostanziosi, casomai non trovassimo un posto dove dormire o
dove mangiare. Come al solito, nulla è lasciato al caso, l’improvvisazione e
l’approssimazione non trovano posto tra le nostre masserizie. Se i nostri
viaggi sono sempre calcolati al millimetro, a maggior ragione la spedizione
artica di quest’anno dev’essere ancora più meticolosa. Per strada, ripensiamo a
quanti, nei pressi della partenza, ci dicevano: “Ma chi ve lo fa fare?”. Mah,
non lo sappiamo se dietro alla nostra decisione c’è un “chi” o un “cosa”.
Quello che sappiamo è che ce la mettiamo tutta per dare qualcosa di noi stessi
e lasciare una traccia del nostro passaggio, sia pure solamente con un modesto
blog; i nostri sforzi tesi a cercare di distinguerci non per snobismo, ma per
contribuire, nella blogosfera, a fornire una visione non banale e non inficiata
da pregiudizio alcuno di quanto obiettivamente registriamo; certo, siamo in
vacanza, ma come sempre cerchiamo di non essere in vacanza dalla realtà, quella
edulcorata dei dépliant turistici, di non metterci in ferie dalla
responsabilità di raccontare obiettivamente quanto vediamo e viviamo, evitando
come e per quanto possibile di fare “il turista con l’aquilone in mano”, deresponsabilizzati
come i bambini; alla ricerca di quell’etica del viaggiatore che procede con una
direzione, una meta da raggiungere ma, soprattutto, da conquistare con le
proprie forze. Tornare a casa non con il conteggio delle cose viste, quanto con
la consapevolezza del “peso” delle stesse.
SCHENGEN, MON AMOUR?
Riempito il bagagliaio di tutto quanto il necessario,
mercoledì 23 novembre 2016, ore 6.30, con 12° di temperatura esterna, partiamo.
La prima tappa prevista è Vienna. Imbocchiamo subito l’autostrada slovena
direzione Maribor, poi Graz ed infine Vienna. Ma, considerato il fatto che le
condizioni meteo sono favorevoli (da giorni mezza Europa è preda di un
anticiclone, quindi niente pioggia, solamente nuvole, un po’ di nebbia ma fondo
stradale perfettamente asciutto), decidiamo di proseguire fin dove possiamo. Benedetto
(o maledetto?) Schengen, non troveremo più confini fino alla Russia artica. Se
viaggiare in un spazio libero è sicuramente pratico e conveniente in termini di
tempo, la mancanza di frontiere rende il passaggio tra uno Stato e l’altro
quasi svuotato del suo significato, uno spazio troppo fluido che sembra
sfuggirci dalle mani. Per darci una dimensione, ci aggrappiamo perciò ai nomi
esotici e fascinosi che recuperiamo sugli atlanti: la meraviglia di scoprire
che attraverseremo la Moravia, la Piccola Polonia, poi la Masovia, la Masuria,
la Prussia orientale, la Lituania, la Curlandia, la Livonia, l’Estonia, la
Salpausselka, la Suomenselka, poi la Maanselka, la mitica Lapponia, e poi la
Russia con la penisola di Kola e scivolando a sud incontreremo la Carelia, e
l’Ingria per poi ripescare la Lituania, la Masuria… Ci mancano le frontiere?
Forse sì. Qua finisco io e qua cominci tu. Frontiera intesa non come muro che
separa, ma come confine della propria identità, nella quale riconoscersi e, con
la consapevolezza di cosa si è, riuscire a comprendere meglio la diversità del
confinante. Noi abbiamo l’impressione che, con le frontiere in piedi, le cose funzionassero
meglio…
Superiamo in poche ore l’Austria, che pare sempre
felix e ridanciana (aspetto che manca nella vicina Germania) e facciamo il
nostro ingresso in Repubblica Ceca, in un clima di pesante mestizia: strade
malmesse, paesi dimessi, un senso di generale trascuratezza come nelle migliori
periferie bulgare, lavori pochi ma casino tanto. Il traffico pesante passa
anche per i paesini e sembra che nessuno protesti per le centinaia di TIR che
sgusciano a stento tra decadenti edifici art-déco. Viaggiamo in costante
compagnia dei camionisti. Acquistiamo la vignetta, facciamo gasolio e la
benzinaia si sbaglia pure col resto e ci regala 10 euro in più… Nonostante
siamo ormai alle soglie dell’inverno, la Moravia è ancora abbastanza
verdeggiante, punteggiata di castelli da fiaba. Il fondo stradale è sempre
ottimo (nel senso di asciutto), e pertanto ne approfittiamo per “portarci
avanti col lavoro”; sorpassate Brno e Ostrava, ormai vediamo profilarsi la
frontiera con la Polonia. Viaggiamo sempre in area Schengen, vestigia di confini
non ce ne sono più ma nemmeno facce extraeuropee: la Cechia fa parte di quel
gruppo di Visegrad (Repubblica Ceca, Slovacchia, Polonia, Ungheria) che rifiuta
categoricamente di prendersi la sua “quota migranti”, perciò (contrariamente a
quanto osservato due anni fa in territorio finno-scandinavo) per il momento per
strada non vediamo nessun tipo di “profugo”. Il buio avanza di questa stagione,
e ci dovremo abituare ben presto: sarà la cifra stilistica di quest’avventura, freddo,
buio pesto e silenzio irreale. Come passare le vacanze in una cella
frigorifera, istruzioni per l’uso. Alle 16.30 appaiono già le prime,
brillantissime, stelle in cielo. Nel tardo pomeriggio arriviamo in Polonia, dovremmo
fermarci ma ne approfittiamo per proseguire ancora un po’, almeno fino all’ora
di cena. Se la Repubblica Ceca sembra persa in un limbo post-tutto, la Polonia
si svela per quella che è: un Paese che, dal 1991, non è mai andato in
recessione. Se nel 2009, anno nel quale ci siamo stati la prima volta, sembrava
un enorme cantiere a macchia di leopardo, stavolta i cantieri sono dappertutto.
I fondi strutturali dell’Europa qui vengono spesi al centesimo, ed è tutto un
fiorire di rampe, svincoli, superstrade, sottopassi, rotatorie, una colata
cementizia da far spavento in quello che era un Paese a grande vocazione
agricola, ora strade al posto dei campi, il progresso comunitario travolge
tutto e tutti, senza rispetto per il paesaggio e chi lo lavora. Ed il progresso
viaggia su TIR, anche qua i bestioni della strada ci circondano, ci sorpassano,
ci precludono la visuale, noi e ad altri sparuti automobilisti, il trasporto
merci su rotaia, in Est Europa, è ancora una chimera. Tra micidiali rotatorie e
camion portacontainer che nascondono la cartellonistica, nel buio tra Gliwice e
Katowice ci incasiniamo in un girone infernale di svincoli e sottopassi, ci
perdiamo l’unica uscita per Czestochowa e… addio patria. Non riusciamo a
venirne fuori, si incasina pure il navigatore e perdiamo due ore per sbucare, snervati,
sulla strada giusta. Finalmente, nei pressi di Piekari Slaskie, riusciamo a
trovare un albergo, però non accettano euro, poi ci dicono che è pieno. Stanchi
morti, cerchiamo un altro posto e finiamo all’hotel Rezydencja Luxury Hotel,
sono pieni anche qua ma, se vogliamo, è disponibile un appartamento. Guardiamo
l’ora (sono le 19.40), siamo in viaggio dalle 6.30 di stamattina ed abbiamo
percorso la bellezza di 963 km!
Ovviamente, accettiamo: nel 4 stelle super lusso, ci assegnano un appartamento new-barocco
con tanto di tappeto di zebra (pelle di vacca pitturata, in realtà), mega
orchidee, cristalli, letto 200x200, vasca di due metri e lavabo in cristallo,
però niente wi-fi, nemmeno connessione a pagamento! Protesto, per il prezzo
richiestoci vogliamo almeno il massaggiatore in camera! Dopo aver cenato
lautamente a lume di candela, coccolati dalle ovviamente strepitose birre
locali e strappato un sorriso al fascinoso cameriere-modello hipster (“io avere
lavorato in Milano-bella Italia”), ci arrampichiamo sul letto-catafalco per uno
strameritato riposo. Domani ci aspetta un altro tour-de-force sulle strade
polacche, che hanno abdicato ai trattori in favore dei camion.
IL MONDO VIAGGIA SU T.I.R.
Partenza dalla stanza zebrata alle 8.20, con 7°, cielo
coperto. Ci immettiamo subito nel traffico bestiale della Masovia e della
Masuria, due regioni molto belle ma stravolte dal trasporto pesante e
pesantissimo. Da noi è in via di ultimazione il trasporto intermodale definito
corridoio Adriatico-Baltico, quel Trieste-Kiel che permette di togliere dalla
strada fino a 40 container per ogni convoglio che viaggia su rotaia; 40
container significa grossomodo 40 TIR in meno su strade e paesi. Immaginiamo
come per incanto che tutto ciò venga applicato anche qua… e magicamente, il
paesaggio nella sua intera bellezza ci si spiega davanti come un meraviglioso
catalogo turistico… senza essere soffocato dai camion. Ogni tanto, causa
ennesimi lavori stradali, siamo tutti costretti a procedere quasi a passo
d’uomo, e ciò ci consente di riflettere sui nostri compagni di cammino. La vita
del camionista è senza dubbio massacrante; lontano da casa per settimane, anche
per mesi, ed è peggio che andar per mare; chi naviga per lavoro ha comunque
sempre un “tetto” sulla testa, è al sicuro in un bastimento, pasti caldi, letto
e toilette abbastanza confortevoli. Il camionista è costretto spesso a fermarsi
per ore, se non per giorni, in attesa dell’ordine di un carico, e di solito sosta
in “non luoghi” quali piazzole autostradali perse nel nulla, solo cemento ed
asfalto; deve farsi i pasti da sé, dormire nel suo camion ma comunque “in
strada”, lavarsi precariamente. La bella stagione aiuta, ma d’inverno, come
ora, magari sulle rotte del nord Europa ed in Russia, con temperature
abbondantemente sotto lo zero, buio perenne, fitte nevicate e strade
ghiacciate, la vita si fa giocoforza più dura. Li osserviamo, quando passiamo
affiancati: noi la strada la percorriamo in vacanza, loro la percorrono per lavoro,
di solito malpagato, magari trasportando nel container un carico di addobbi
natalizi provenienti dalla Cina piuttosto che attrezzature biomedicali.
Pertanto non sbuffiamo troppo quando ci troviamo soffocati da questi bestioni,
e portiamo rispetto al loro durissimo lavoro, nella speranza che il treno
Trieste-Kiel, un domani non troppo lontano, diventi realtà e si trasformi in un
Kiel-Istanbul, o un Varsavia-Lisbona… a beneficio di tutti.
Intanto, i TIR e noi, attraversiamo i caratteristici
paesini dell’Est europeo, dove tutte le casette rurali ed i condomini sono a
luci spente. Motivo? Ma è ovvio, qua lavorano tutti! E difatti il movimento
veicolare è spaventoso, non c’è un’auto parcheggiata sotto casa perché sono già
tutti in giro, solamente le vecchiette rimangono nell’orto di casa a zappare
cavoli e patate. Gli operai stradali sono tutti europei, polacchi ed ucraini in
maggior parte. Da’ da pensare, abbiamo percorso oltre 1000 km sempre nel
medesimo gruppo etnico, non abbiamo visto un solo “siriano”, a differenza della
Scandinavia di due anni fa, con gruppetti di immigrati vaganti, avulsi dalla
realtà che li circonda. Non siamo più abituati a vedere solamente facce europee.
Come non riusciamo ancora ad abituarci ad essere sovrastati davanti, dietro, di
fianco, dai bestioni della strada, che intasano il già congestionato traffico stradale
e ci danno l’impressione di calzare dei paraocchi. Ci sentiamo come l’elefantino
Dumbo, attaccati al mastodontico fondoschiena delle elefantesse… Galoppiamo
tutto il giorno, non ci fermiamo neppure per uno spuntino per non perdere
preziosissime ore di luce, fin che c’è. Perdiamo il conto dei cantieri stradali
che obbligano tutti a continui salti di corsia, rallentamenti, deviazioni.
Viaggiare così è uno strazio, ma almeno le condizioni atmosferiche sono
soddisfacenti. Al tramonto ormai siamo nei pressi del confine lituano. Ciao
Polonia, che ci hai accolto con la consueta gentilezza, la pazienza e la calma
olimpica del tuo popolo, strangolato dal traffico pesante e dai lavori in
corso.
GLI STATI-FRANCOBOLLO
Il tramonto in queste baltiche marche di frontiera
arriva attorno alle 15.45, alle 16.15 è già buio, alle 16.30 è notte fonda.
Primo fuso orario, avanti di un’ora. Siamo in Lituania, la prima delle
minuscole Repubbliche baltiche, estremo confine occidentale dell’ex impero
sovietico, enclave di lingue a sé stanti nell’universo slavo. Siamo in
provincia di Kaunas, a 0° e sicuramente stanotte si andrà sottozero.
Acquistiamo la vignetta nel consueto baracchino, ma la tizia scambia Max per un
camionista e ci rifila la vignetta per camion, 11 euro per 24 ore! Vabbè che il
nostro Patrol è della stazza di un furgone, passi che è pieno come un camion,
ma qua si esagera! Se in Polonia, nelle regioni della Masuria e della Masovia
da dormire si trova dappertutto e posti bellissimi, in Lituania… il vuoto.
Niente di niente. La periferia è totalmente aliena da qualsivoglia percorso
turistico. Non ci scoraggiamo, un buco magari si rimedia; in questo posto
oscuro contornato da foreste di conifere le stelle sono talmente basse
all’orizzonte che sembrano tocchino i tetti delle case. Sì, un buco lo
troviamo, Motel Armenija. Gestito da una famiglia di armeni, camera pulita e
con connessione wi-fi che arriva da chissà dove. Però non si può gettare la
carta igienica nel wc altrimenti si intasa, c’è un avviso in tre lingue che ce
lo spiega. La carta usata va in un cestino a fianco!! Scendiamo per la cena e
ragioniamo in che lingua rivolgerci agli armeni di Lituania; per il check-in
abbiamo usato l’inglese, che è stato compreso con difficoltà. Probabilmente,
comprendono anche il russo, ma per non creare imbarazzi, proseguiamo con
l’inglese. Poi ci accorgiamo che parlano anche russo. Averlo saputo prima, ci
saremmo capiti meglio. Retaggio dell’ex URSS... Riepilogando, 30 euro per la
sola stanza, con gabinetto a mezzo servizio e niente colazione. Però wi-fi
gratis. Ore 19.30, chiediamo da mangiare: ah, kitchen closed, ci dicono nelle
due parole di inglese che sanno, pertanto possono offrirci solamente una “soup”
soljanka riscaldata al microonde, due birre giganti, pane azzimo all’armena.
Ceniamo praticamente da soli, contornati da fotografie alle pareti che
ritraggono il monte Ararat ed i monasteri armeni. Il gestore del motel sembra
un ex pugile o ex lottatore, ci serve la minestra la figlia, capelli nerissimi
ed occhi azzurro cielo. Gentili, ma alle 21.00 fuori dai piedi. Ci rintaniamo
in camera, piacevolmente tiepida, dove passeremo la notte a battagliarci una
trapunta da una piazza e mezza per un letto da due.
BALTOSFERA
Alle 7.30, col buio pesto ma cielo stellatissimo,
siamo in auto a far colazione con tè e biscotti. L’Armenija è ancora
addormentato. Brina dappertutto, 0° e l’alba lituana si preannuncia… come la
nostra. Tanta, piattissima campagna piena di oche, potrebbe essere una
qualsiasi campagna danese oppure olandese, se non fosse per i consueti tanti,
tantissimi TIR che ci scortano nel nostro andare. Ci ritroviamo nelle parole di
un autore lituano, Romualdas Granauskas che nel suo romanzo “La vita sotto
l’acero” sembra dipingere perfettamente quanto vediamo stamane: “Ora fino al nuovo abitato non ci sarà più
lungo la strada nemmeno un cespuglio, soltanto campi nudi pianeggianti da
entrambe le parti: alcuni sono grigiastri per le stoppie dell’anno scorso,
altri neri, altri ancora cominciano ad inverdirsi per i germogli della segala.
E quel verde sarà l’unica cosa che carezzerà lo sguardo…”. Effettivamente,
è così. Dopo la Lituania, oltrepassiamo la Lettonia (uguale alla Lituania,
cambia solamente la lingua) e ci accorgiamo che c’è ancora tanta gente che non
ha l’acqua in casa (Europaaaaa, dove sei?!?) quindi al mattino si va a
recuperarla dal pozzo… Come sempre ascoltiamo la radio per immergerci nella
realtà locale; dall’abbastanza familiare ceco del giorno della partenza, siamo
passati all’ostico polacco, al confinante bielorusso più comprensibile, mentre
le lingue baltiche sono per noi totalmente sconosciute: lituano e lettone
all’ascolto si assomigliano ma sono decisamente incomprensibili. Verso le 13.00,
con un bel sole radente ed un vento da Nord-Ovest che ci taglia le dita,
arriviamo in Estonia, e tra una teoria di bisarche ed una fitta pineta bluastra,
riusciamo ad intravvedere un pezzetto del golfo di Riga; uno scrittore locale, Emil
Tode, nella sua opera “Terra di confine” ben descrive questo microcosmo che
sembra essere freddo tutto l’anno: “…
Vengo da una terra dove il sole è un diamante raro (…). In autunno si mette via
il sole in cantina, insieme alle patate e ai cavoli, e quando lo si ritira
fuori, a primavera, diffonde il velenoso odore dei bianchi germogli di patate
su tutta la fattoria fino al bosco. Fino al bosco, sì, perché c’è sempre un
bosco freddo ed oscuro che ha inizio subito dietro la fattoria…”. C’è il
sole e la giornata è splendida, però l’aria gelida ci intirizzisce dita ed
orecchie e tutto, qualunque cosa intorno a noi, trasmette freddo. E c’è sul
serio un bosco freddo ed oscuro dietro ad ogni casa e fattoria! Ascoltando la
radio, ci approcciamo alla loro lingua, ceppo ugro-finnico. Se alla scrittura è
simile al finlandese, all’ascolto ci sembra più vicina all’ungherese. Comunque incomprensibile,
alle nostre orecchie, ma tutti e tre gli idiomi baltici sono curiosi da
ascoltare. Le facce che vediamo, in questi piccoli Stati, appartengono però ai
residui dell’ex-impero sovietico: non solo baltici anseatici, ma slavi, caucasici,
siberiani, centro-asiatici… Viaggiamo su una tavola da biliardo in compagnia
degli onnipresenti TIR che arrivano da tutte le parti d’Europa, dalla Turchia,
dalla Russia e fino dal Kazakhstan e dall’Iran. Ce ne sono così tanti che
oscurano il paesaggio ed è un miracolo riuscire ad intravvedere un cartello od
uno svincolo in tempo. Nonostante il traffico pesante, tutto è molto pulito,
ordinato, persino i bagni delle stazioni di servizio profumano di fiori, lindi,
lustri e con acqua bollente. Alle 16.00 arriviamo a Tallin e ci dirigiamo dritti
al porto. Sbrighiamo il check-in senza problemi, il nostro traghetto parte alle
19.30 ora locale. In attesa dell’imbarco, passiamo il tempo nella sala
d’aspetto del terminal traghetti, ed osserviamo chi salperà con noi. Tanti
studenti estoni e finlandesi, pendolari, manovali, ma soprattutto tanti
finlandesi sbarcati qua solamente per acquistare gli amati alcolici senza la
supertassazione al quale sono soggetti in patria; gente che acquista casse
intere di birra, di alcolici e superalcolici da portare in Finlandia e farsi
una bevuta senza svenarsi e senza sensi di colpa… Osserviamo i ragazzi estoni:
belli, alti, carnagione bianchissima, ma anche qua intravvediamo la prima pecca
di una società immobile ed ipertecnologica: l’obesità incalzante. Belle
ragazze, ma alte come alci, mani come padelle, spalle da lottatrici, guai a
farle arrabbiare… Finalmente si avvicina il momento di imbarcarci, la stiva
della motonave “Star” si apre per noi tutti e siamo tra gli ultimi ad entrare,
assieme agli onnipresenti TIR. Alle 19.30 precise salpiamo, e per due ore abbondanti
ci faremo cullare in questa che sembra una crociera d’altri tempi, tra legni ed
ottoni tirati a lustro. Il traghetto è pieno, non solamente di pendolari, ma
anche di sparuti turisti, qualche saccopelista finlandese già abbondantemente
ubriaco e, immancabili, di cinesi in gita. La navigazione è allietata da un duo
ambosessi voce/chitarra, che, col repertorio di superclassici del pop-rock, fa
quel che può per farci passare il tempo mentre fuori il buio pestissimo del golfo
di Finlandia ci inghiotte nel silenzio di un mare denso come petrolio.
LA FAMOSA ACCOGLIENZA NORDICA
Riposati e rinfrancati, poco dopo le 21.30 sbarchiamo
ad Helsinki, che ci accoglie con un traffico abbastanza sostenuto. Ovviamente,
ci mettiamo subito alla ricerca di un posto dove buttare le nostre carcasse per
la notte. Un primo albergo è situato subito alle spalle della darsena sbarchi,
ma per raggiungerlo bisogna arrischiarci in una inversione a 180° nel traffico…
Lasciamo perdere, ne troveremo altri di alberghi, no? Certo: Hilton, Holiday
Inn, Scandic… vista l’ora, cerchiamo comunque qualcosa di più abbordabile, ma
nel buio non riusciamo a trovare nemmeno l’indizio di un cartello che dica
hotel o, almeno, B&B, niente di niente. Beh, troveremo di sicuro qualcosa
via dal centro, no? Due ore e mezzo a cercare un buco qualsiasi fuori dalla
capitale, intanto ci troviamo a poco meno di metà strada tra Helsinki e Jyvaskilä,
comincia a nevicare fitto e, in quanto a gasolio, stiamo messi maluccio. Dubbio
amletico: che facciamo? Se torniamo indietro, finiamo col perdere altro tempo (e
carburante) prima di raggiungere Helsinki, se andiamo avanti ci aspetta l’incognita
e, soprattutto, non sappiamo se riusciremo a trovare un distributore di gasolio
(il nostro navigatore non è prettamente stradale ma cartografico). Ci fermiamo
in una piazzola di servizio, circondati dalla taiga silenziosissima e avvolti
da una nevicata sempre più fitta. La nostra cartina stradale ci avvisa che sì,
ci sono delle aree di servizio, ma… riusciremo a raggiungerle senza rimanere a
secco per strada? Per mancanza di spazio, abbiamo dovuto lasciare a casa le due
taniche per il gasolio, utilissime in caso di emergenze simili… Ormai il
traffico è inesistente, e siamo soli da quando abbiamo lasciato la periferia di
Helsinki. Si prospetta l’idea di dover dormire in auto. A parecchio sotto zero,
sepolti dalla neve che cade incessante a larghe falde. Da mangiare c’è,
all’occorrenza il frigo può riscaldare il cibo; i sacchi a pelo sono a portata
di mano. Siamo vestiti abbastanza pesantemente. Abbiamo pure delle coperte per
le emergenze. L’idea di passare la notte in auto in queste condizioni ci fa
riflettere molto, tanto. Ci scambiamo uno sguardo d’intesa: tentiamo. O la va o
la spacca! Ci raccomandiamo a San Cristoforo, patrono dei viaggiatori, a San
Michelin, patrono dei pneumatici, ed a qualsiasi altro che, da lassù, ci ama e,
nel silenzio ovattato di questa profondissima notte finnica, ci mettiamo in
marcia, cullati solamente dal “tuf-tuf” dei tergicristalli che faticano per
spostare la neve dal parabrezza. La preoccupazione c’è, ma la magia della notte
finlandese ci sprona a proseguire fino ad incontrare, bramata come un’oasi nel
deserto, una stazione di servizio. Pieno di gasolio, e ci sembra di essere sazi
pure noi. Ora possiamo proseguire fino al mattino, se vogliamo! Ma è molto
tardi, il pilota tiene duro anche se denuncia un po’ di stanchezza e la
nevicata da fitta si fa abbondante ed ormai abbiamo gli occhi come due fari
aggiuntivi. Certo, con tutti questi moderni dispositivi che ormai infarciscono
le nostre vite, avremmo anche potuto scaricare una app per lo smartphone con
l’elenco degli alberghi… ma in questo modo, ci saremmo privati di quel sano
brivido dell’avventura e dell’incognita che insaporisce ogni nostro viaggio!
Nella notte più buia e nella nevicata più fitta, finalmente giungiamo alla cittadina
di Lahti, dove troviamo un albergo in pieno fermento da movida del venerdì
sera. E’ mezzanotte e tre quarti ma sembra mezzogiorno, a giudicare dal viavai
di gente dentro e fuori dall’hotel. Il prezzo è, more solito, esorbitante (il
Sokos hotel si fa pagare, ma veramente non abbiamo alternative) e, per la
soluzione B&B ci sembra davvero eccessivo. Protesto, per questo prezzo
vogliamo lenzuola di lino, ancelle adoranti e il servetto che ci fa vento con
le piume di struzzo! La receptionist, piuttosto infastidita dal dover ricevere
clienti stranieri a quell’ora, ci spiega che per il parcheggio sotterraneo (prezzo
non incluso!) bisogna fare il giro dell’intero caseggiato (quasi mezzo rione).
Vabbè, non ci resta che rimetterci in auto, raggiungere il parcheggio,
recuperare qualche vettovaglia e goderci questa camera lusso, col letto così
alto che per raggiungerlo dobbiamo praticare un salto alla Fosbury! Ed è
l’1.30…
TEQUILA BUM-BUM-BUM
Goderci la camera lusso si fa per dire. Fino alle due
inoltrate del mattino, dobbiamo sorbirci la movida da tequila bum-bum, solo che
il bum-bum non è riferito alla tequila quanto al casino da discoteca che si
propaga fino in camera; casino in albergo, casino fuori, dove parecchia
gioventù sfatta e palesemente ubriaca si rotola tra lampioni e marciapiedi, in
una nevicata che per noi è epocale e per loro è normale amministrazione
novembrina, il tutto condito da schiamazzi alcolici urlacchiati tra cadillac cabrio
e limousine da 20 metri… ragazze così ciucche da andare, barcollando, a fumarsi
una sigaretta, sotto la fitta nevicata, coperte soltanto da quelli che appaiono
dei negligè in nylon… il tutto sotto alle nostre finestrone; e la magia delle
luminarie natalizie (a dirla tutta, così insignificanti e schematiche che
sembrano stare là solamente per dovere civico) e della neve che cade lenta ed
incessante come in una fiaba nordica, viene spappolata dai rottami umani che si
trascinano bercianti e ruttanti qua sotto… La mattina seguente, scendendo per
la colazione, ci imbattiamo in rifiuti d’ogni genere abbandonati nei corridoi e
pure un fazzoletto abbondantemente insanguinato… Mano ferita da bicchiere
rotto? Scazzottata in strada? Ah, saperlo… Corposa colazione per rimpinzarci lo
stomaco ed evitare di pranzare, e poi di nuovo in marcia.
TOPONIMI
Strada facendo, non possiamo fare a meno di sorridere
davanti a certi toponimi finnici; se due anni fa ci eravamo imbattuti nel
cognome “Majala” ed avevamo mantenuto il contegno solo perché stavamo in un
cimitero, stavolta non possiamo non sghignazzare quando leggiamo il cartello
che recita “Pizzeria Putaana” (dal nome del paese), o Porkkala, oppure passiamo
dal villaggio di Kokkola (immaginiamo i suoi abitanti coccolosi) e poi per
quello di Puppola (per noi triestini particolarmente simpatico) ed ancora
Piippola, poi arriva la cittadina di Mämme, ed altri ancora, tutti ugualmente
spiritosi. Un po’ di allegria, visto che ormai il paesaggio è decisamente cupo…
LA FAMOSA ACCOGLIENZA NORDICA/2
Non nevica più, però la neve aumenta di spessore man
mano che si procede verso Nord. Direzione Kärsämäki, ma dato che siamo in
anticipo, potremmo arrivare anche ad Oulu, no? Infatti arriviamo in provincia
di Oulu, il sole ormai sta tramontando e di alberghi nemmeno l’ombra. Ah, no,
c’è un hotel, si chiama Otello, è della catena Western Union, ma è indicato
solamente un numero di telefono… Niente Oulu. Per strada, veniamo informati che
forse c’è qualcosa a Kemi… fiduciosi, cerchiamo un albergo a Kemi: come no, ci
sono i campeggi con bungalow, ma sono chiusi e ben si guardano dall’avvisare qualche
km prima di arrivarci che sono chiusi dal 23.11 al 23.2… Ma no, dai, guarda che c’è un cartello che
dice albergo, 200 mt a destra… e poi prosegui per altri 32 km! Nel crepuscolo,
ci fermiamo per consultare cartina e navigatore: la ridente cittadina di Tornio
è solamente a 65 km da qua. Sappiamo per certo che là c’è un albergo grande e
sempre in funzione, a questo punto… Ok, si va a Tornio. Strada facendo,
rimangono le luci tenui di questo crepuscolo straordinario ed incredibile. Se
ai tropici, o all’equatore, il sole quando tramonta lo fa subito e la notte
arriva immediatamente, alle nostre latitudini mediterranee la luce del tramonto
digrada fino al crepuscolo che dura una mezz’oretta; ma quassù, il crepuscolo
dura ORE, quindi alle 15.30 il sole tramonta, però la luce intensa del tramonto
dura fino a dopo le 18.00… sono queste le famosi luci del Grande Nord? E’
davvero magico e straniante insieme, e ritorna alla mente un detto francese,
che definisce l’imbrunire “entre chiens et loups”, tra cani e lupi, quando ciò
che ci circonda ancora si riesce a distinguere anche se non perfettamente. Finalmente,
arriviamo a Tornio, a cavallo del cambio di fuso orario; in città sono le 18.00,
fatti 100 metri oltre il ponte si è in Svezia e sono le 17.00… Tornio, meno
male che ci sei, con la tua gaiezza di cimitero a novembre, però ti fai
perdonare perché produci una birra strepitosa! Al Park Hotel, la receptionist,
stavolta simpatica e paziente nell’interloquire con due stranieri stravolti dal
chilometraggio e che nell’intercalare in inglese ci ficcano dentro anche tre
parole di tedesco e due di russo, ci comunica che, sì, hanno posto, ma
purtroppo la camera non sarà “quiet” perché… c’è movida in ristorante. Anche
qua?!? Pazienza, abbiamo i tappi in cera, eventualmente… e meno male che la
Finlandia è il regno del silenzio! Più tardi ci accorgiamo che non è la movida
del ristorante a disturbare, quanto le derapate dei ragazzoni in strada, che a
bordo di Mercedes e BMW si divertono a fare il giro del piazzale del parcheggio
innevato in controsterzo… Ha ripreso a nevicare con insistenza, siamo a – 4°.
Non siamo gli unici forestieri: con noi, a fare il tragitto in macchina, ci
sono anche frotte di cinesi arrivati in aereo ad Helsinki, dove hanno noleggiato
capienti van, e si fanno Helsinki-Rovaniemi tutta una tirata guidando a turno
per andare a trovare Babbo Natale… Dopo aver cenato nel ristorante dell’albergo
ed osservato la vivace fauna locale (gioventù altissima, slanciatissima e
bellissima si fonde con adulti di varie età dagli inconfondibili e massicci tratti
lapponi), ce ne torniamo nel tepore della camera ed approfittiamo del wi-fi per
cercare “alberghi ad Helsinki”; salta fuori che ce ne sono 132. Ma
doveeeee??!?!?!??! Metterci a dormire nemmeno a parlarne, finchè i finnici qua
sotto sono ancora impegnati nel karaoke stonatissimo ad ugole spiegate, così,
dalle finestrone della nostra camera, osserviamo la Tornio by night: dato il
buio, la nebbia, le nevicate, vestirsi con qualcosa di fosforescente è il
minimo. Quindi praticamente girano tutti con addosso un giubbottino ad alta
visibilità, oppure giacconi e pantaloni con strisce catarifrangenti e
addirittura c’è chi porta a spasso il cane indossando il giubbino ad alta
visibilità, reggendo un guinzaglio fosforescente, ed il collare del cane… è a
led lampeggianti! In questo buio che avvolge tutto per mesi, farsi vedere non
solo è necessario, ma sembra indispensabile per sentirsi ancora vivi. Epilogo
della giornata: stando al nostro piano di viaggio, oggi in teoria dovevamo
essere a Riga…
MISSIONE BABBO NATALE
Dopo la consueta, abbondantissima colazione
energetica, lasciamo Tornio di buon mattino, sono già -8° ed il cielo è sereno.
C’è un chiarore diffuso, una luce tenue eppure chiara che non disturba per
niente; verso le 11.00 si intravvede qualcosa all’orizzonte: è il sole che
spunta e… resta là. Non si alza dall’orizzonte, e viaggiamo immersi in una
meravigliosa luce diffusa, riposante ma in grado di farti vedere tutto, come
quelle lampade ad incasso. Luce sì, ma non diretta. Il paraluce sull’obiettivo
è perfettamente inutile ormai, sembra di stare in uno studio fotografico! Verso
le 11.30 arriviamo a Rovaniemi, stavolta solamente per sbrigare una
commissione: imbucare la letterina per Babbo Natale per conto di un’amica! Il
“Santa Village” è abbastanza affollato di gente, ma meno di quanto ci
aspettavamo. Tanti italiani e, soprattutto, tantissimi cinesi, armati pure di
drone per riprese aeree. Come pronosticato, incontriamo gli stessi cinesi visti
ieri che viaggiano col van: probabilmente si fermeranno qui un paio di giorni,
foto di rito col vecchio barbuto e poi nuovamente ritorno ad Helsinki ed aereo
per la Cina… Dopo aver ammirato le slitte trainate dalle renne ed aver
assistito al loro pasto (blocchetti di licheni gettati loro dagli addetti del
“Santa Village”) ci rimettiamo in marcia, sempre per non perdere le preziose
ore di luce. La temperatura scende, siamo a -11° e la strada, nonostante sia
costantemente pulita dagli spazzaneve, rimane sempre bianca; gli automobilisti
corrono tutti, grazie alle gomme da neve oppure alle gomme chiodate. Il gasolio
nei distributori è di tipo invernale e sopporta anche temperature fino a – 34°,
senza bisogno di additivi. Tanta, tantissima neve sugli abeti della taiga, e
più si prosegue verso nord e più le conifere si piegano per il peso. Tento di
fare un paio di scatti del tramonto, ma non è semplice farlo a bordo strada
pesantemente innevato, col cavalletto che sprofonda; accendiamo le 4 frecce per
segnalare la nostra posizione e subito si fermano in sequenza un paio di automobilisti,
chiedendoci se abbiamo bisogno di aiuto. A queste latitudini, il menefreghismo non
trova appigli. Dopo il tramonto rossastro, che sopraggiunge alle 14.45, la luce
dura grosso modo fino alle 16.00, poi comincia a farsi davvero scuro, ma c’è
ancora quel chiarore sufficiente che permette di vedere dove sei senza la necessità
di accendere i fari (comunque, sono obbligatori giorno e notte). Il paesaggio è strepitoso, la maestosità
della taiga finlandese è accentuata dai quintali di neve candida, cristallina,
asciutta, meravigliosa, che ricopre ogni cosa come una trapunta fatata. Via dai
centri abitati (ormai pochissimi) si ripiomba in un silenzio irreale e forse
ancora più intenso di quanto apprezzato nell’autunno di due anni fa; la neve si
comporta da gigantesca spugna per suoni ed odori, ed in questo paesaggio,
asettico e muto come una camera anecoica, ci sembra di essere quasi fuori posto
coi rumori del nostro fuoristrada… Sono le 17.00, ormai è notte fonda quando
arriviamo ad Inari, capoluogo finlandese del popolo Sami. Anziché approdare
all’hotel Inari, ci concediamo il lusso di dormire nell’altro albergo del
paese, l’hotel Kultahovi, struttura tradizionale gestita dalla comunità Sami,
dove si mangia la vera cucina lappone. La receptionist è anche una delle
animatrici della locale comunità lappone: pelle diafana, occhi blu genziana, zigomi
alti, capelli biondi come le betulle d’autunno, la signora gentilissima ci
propone diverse sistemazioni, tutte molto piccole a dir la verità, ma
confortevoli e, soprattutto, calde! Come ospiti a cena, siamo in 8: noi due e…
sei cinesi! Anche qua! Decidiamo di fermarci qui per due giorni, un po’ per
riposarci, un po’ per goderci questo inverno oltre il Circolo Polare e per
prepararci spiritualmente all’incontro con la dogana russa. Scendiamo subito
per la cena, noi ed i cinesi; il menu propone: pesce del lago Inari, cioè un
magnifico filetto di luccio con crema di carote e spuma di limone. Sul momento,
la spuma di limone sembrava della schiuma da detersivo per i piatti sistemata
sul pesce, poi ci accorgiamo che trattasi di spuma di albume aromatizzata al
limone! Ottima! Poi ragout di renna con purè di patate e salsa di mirtilli
rossi, e tagliata di renna arrosto. Tutto davvero squisito ed annaffiato dalle
ottime birre Kahru (orso). Il menù proponeva anche lingua di renna affumicata,
bistecca con sanguinaccio di renna e verdure varie, perfino licheni come
contorno! Poi funghi dei boschi circostanti, ed altro pesce del lago… Un menù
insospettabilmente vario, la foresta boreale, i suoi laghi ed i suoi fiumi
offrono davvero di tutto! Finita la cena, ci godiamo gli ultimi sorsi di birra
quando uno dei cinesi, che era uscito per fumarsi l’ennesima sigaretta, torna
dentro precipitosamente esclamando qualcosa nella sua lingua, ma tra i vari sino-dittonghi
una parola la comprendiamo anche noi: AURORA! Allora ci precipitiamo di corsa
anche noi e… sorpresa! Una specie di sipario verde fosforescente sta calando
esattamente dietro agli abeti del parcheggio. Lo stesso colore opalino dei pulsanti
fosforescenti che nei condomini di quarant’anni fa indicavano la luce delle
scale! Il sipario dura pochi minuti, per essere poi sostituito da tante righe
verticali, come tanti spaghetti, che scendono dalla volta celeste, che è una
trapunta di stelle fino a toccare le cime degli alberi! Il colore varia dal
verde fosforescente al biancastro pallido, sempre meglio dell’aurora “dei
poveri” (cioè in bianco e nero) vista due anni fa! Preparo macchina fotografica
e cavalletto, siamo a -9° e c’è pure una leggerissima brezza: non demordo,
imposto la Nikon con l’autoscatto a 30
secondi e via, lascio che lavori per conto suo. E ce la faccio! Non sarà un
granchè, ma almeno abbiamo catturato finalmente l’Aurora Boreale! E se pensiamo
che c’è gente che spende fior di quattrini per il viaggio organizzato per
vedere l’Aurora e poi… questa marca visita! Alle 21.00 decidiamo di rientrare
in camera, non tanto per il freddo (ci siamo attrezzati per questo) quanto
perché siamo distrutti dalla stanchezza. In camera, che lusso! abbiamo l’Aurora
Service: se accendi la TV ed imposti il canale giusto, puoi gustarti l’Aurora
Boreale direttamente dalla comodità del tuo letto! Proviamo a vedere che cosa
ci propone la web-cam piazzata sul tetto dell’albergo, direzione Nord-Est… ma a
parte una curiosa finestra nerastra, non riusciamo a percepire altro…
LUCE SENZA SOLE, NEVICATA SENZA NUVOLE
Giornata finalmente dedicata al relax; dalla
finestrona panoramica della nostra camera, ci godiamo, nel tepore lappone e
nella frugalità dell’arredamento finnico, gli splendidi abeti completamente
innevati ed il fiume che tenta di scorrere impetuoso, nonostante ormai si stia
ghiacciando del tutto. Scendiamo con calma a fare colazione in un silenzio
claustrale; i corridoi di questo bell’albergo dall’architettura minimalista sono
completamente ricoperti da tappeti rustici e moquette e ci stupiamo per il
meraviglioso contrasto che le splendide e gigantesche piante “d’appartamento”
(monstere, ficus elastica, croton, felce a corna d’alce, ecc) producono quando
le vediamo addossate ai finestroni, rigogliose come a casa loro, mentre fuori
il paesaggio non è tropicale ma pesantemente sub-artico… Un sottile velo di
malcelata invidia serpeggia tra noi, ripensando al triste pothos che
stentatamente vegeta nel nostro salotto esposto a sud-est… Il buffet della
colazione è un po’ sottotono, rispetto agli standard dei normali alberghi, ma
ugualmente troviamo di che rimpinzarci… Evitiamo però le aringhe in salamoia, a
tutto c’è un limite! Usciamo ben bardati, abbiamo già foderato i nostri
scarponi con le solette di vero feltro in lana da 5 mm, l’isolante migliore; la
temperatura registra sempre un -9°, niente vento e tante, tante gazze
chiassose, probabilmente gli unici uccelli che riescono a sopravvivere tutto
l’inverno in queste condizioni climatiche. Ci muoviamo a piedi, tanto le
distanze tra un luogo e l’altro in paese sono minime. C’è un chiarore diffuso
ed il sole non è ancora apparso, siamo immersi in una luce color albicocca irreale
che proviene da nord est, mentre a nord ovest il cielo assume una specie di
sfumatura indaco. Verso le 10.00 il chiarore si fa più intenso ed il sole c’è,
ma si rifiuta di spuntare oltre la linea dell’orizzonte! Verso le 11.00 è
giorno pieno: tanta luce diffusa dappertutto ed assoluta mancanza di ombre
nette! Gli occhiali da sole sono inutili, le lenti fotocromatiche rimangono
bianche, il paraluce sull’obiettivo è del tutto superfluo… anche gli occhi qui
si riposano dalle violente luci meridionali. In aggiunta a questa atmosfera,
che dire fiabesca è poco, ci si mette anche una nevicata… senza nuvole! Fa
talmente freddo, nella colonna d’aria lassù, che la poca umidità cristallizza e
scende a terra in minuscoli cristalli, luccicanti come diamanti. Una nevicata
di lustrini e microscopici fiocchetti di neve, talmente perfetti da sembrare
finti! Nota sulla neve artica: è semplicemente f-a-n-t-a-s-t-i-c-a. Farinosa,
estremamente asciutta, non si attacca da nessuna parte né imbibisce nulla, non
ti fa scivolare con le scarpe né con i pneumatici, ma è ottima per sciare
oppure per girare in slittino. Quanto sarebbe bello portarcela a casa come
souvenir!
LA DEA ANGERONA ABITA QUI!
L’abbiamo stanata. Ecco dove si nascondeva! La Dea del
silenzio, colei che presiede un periodo fondamentale come il solstizio
d’inverno, ormai divinità dimenticata da una società che ha fatto del rumore,
sinonimo di progresso, il suo nuovo dio, ha trovato rifugio quassù. In questa
marca boreale, tutto sembra consacrato a lei. Già i finnici dell’estremo Nord
non sono un popolo particolarmente chiassoso; se poi ci aggiungiamo una pesante
coltre nevosa che tutto copre ed assorbe i pochi rumori della vita, abbiamo il
quadro della situazione. Ne avevamo avuto percezione due anni fa, era il
principio dell’autunno e di gente in circolazione ce n’era di più; ma oggi, al
29 di novembre, ormai in piena notte artica, di gente in giro ce n’è davvero
poca: noi, gli onnipresenti cinesi, e gli sparuti abitanti di Inari. Basta. Il
chiarore diffuso è un paradiso per gli occhi sensibili e stanchi da troppe
luminarie, artificiali e non, i pochi rumori attutiti ed ovattati sono balsamo
per orecchie strapazzate da ogni genere di frastuono della cosiddetta
“civiltà”. Pertanto, ci sentiamo in perfetta sintonia di pensiero e diamo ancora
una volta ragione a quel Grande Vecchio, quasi uno “starez”, figlio della Russia
più profonda ed eterna, quando affermava che: “La civiltà del frastuono ci ha completamente privati di una vita interiore
raccolta”. Parole santissime. Chissà, forse estensione di territorio
equivale ad estensione di pensiero…
Facciamo un giretto per il paese: rispetto a due anni
fa, è leggermente migliorato: demolita una scalcinata ed insignificante costruzione,
al suo posto è sorta una dependance del nostro albergo lappone; qualche
attività commerciale in più e, purtroppo, anche qualcuna in meno. La vita si
svolge con la consueta calma: le signore vanno a far la spesa con lo slittino. Siccome
qui è tutto dritto, basta caricare le buste della spesa sulla slitta dai lunghi
pattini, e poi via, come su un monopattino, senza fatica e si fa pure esercizio
fisico! Ci viene in mente la nostra Trieste, quando ogni tanto viene raggiunta
dalle nevicate. Le nostre donne sì che sono vere eroine, a trascinarsi le borse
della spesa su per strade ghiacciate dalla pendenza oscena e sferzate dalla
Bora! Giriamo incantati da tanta calma, nella magia invernale. L’aria di paese
(artico) si respira anche nei piccoli gesti quotidiani: nessuno corre in
macchina, bambini piccoli che girano tranquillamente da soli, un senso di
generale tranquillità. Ne osserviamo gli abitanti: rimaniamo sempre
piacevolmente colpiti da queste facce lapponi, fisionomie selvatiche di occhi
blu, zigomi alti, nasi appuntiti, pelli nivee con capelli dal biondo scuro al
castano; figli di elfi, senza alcun dubbio. E non ci stupiremmo poi tanto se,
nascoste sotto ai berretti, spuntassero anche orecchie a punta… Le donne
anziane denunciano un passato non facile, tante infatti presentano gambe storte
dal rachitismo. I ciclisti non mancano, robuste mountain-bike munite di gomme
da neve procedono sciolte tra le stradine innevate; ma c’è anche chi fa
jogging, o si muove in slittino, quasi tutti con qualcosa di fosforescente addosso…
L’inverno, qua, è una stagione come un’altra. Poche lucine natalizie, in un
clima festoso piuttosto dimesso, forse il rigore luterano si riflette anche
sugli addobbi. Il freddo e la passeggiata mettono fame. E dove rifugiarci se
non nell’unico pub del paese? Il Pa-pa-na offre un bell’ambiente ampio e
rustico, pizze ottime, birre Kahru alla spina, wi-fi gratis e ci godiamo un po’
il calduccio in compagnia. Questi gli avventori: due italiani (noi), tre
ragazzi lapponi spaparanzati sui divanetti con bottiglie di birra in mano e… 14
turisti cinesi, alti, grandi e robusti. Ma almeno chiacchierano senza far
casino. Sono più rumorosi i tre indigeni! Ci gustiamo la pizza guardando il
paesaggio innevato e prossimo al precoce tramonto. Tutto così silenzioso,
quieto, ordinato, perbene… ma chi ha detto che sotto a questa immacolata coltre
nevosa non si celi un cuore passionale e goliardico? Ne trovo un esempio nel recesso
più insospettabile: il bagno delle signore. Nel posto più privato, osservo un
poster realizzato con le fotografie di bellezze maschili locali, impegnate
nelle rispettive attività della zona: boscaioli, falegnami, carpentieri, ma
tutti in rigoroso costume adamitico, immortalati in atletiche pose plastiche e…
con gli attrezzi del mestiere strategicamente posizionati in zona Cesarini! Ma
quello che mi colpisce non è la trovata goliardica, quanto il colore della
pelle dei prestanti maschioni: il più “abbronzato” è della tonalità della carte
da fotocopie… Nel primo pomeriggio, raggiungiamo la periferia del paese, dove
troviamo la locale chiesa luterana, una costruzione in legno, frugale, severa
ed aguzza, purtroppo chiusa. Il sole tramonta, il silenzio è irreale ed alle 16.00
è quasi notte. Non ci resta, noi anime sparute, ma piene di rilassatezza e
serenità, avvolte in questa neve bambagia, che tornarcene in camera e
prepararci spiritualmente per quello che domani sarà il giorno tanto atteso: affronteremo
un altro cambio di lingua, in aggiunta al cambio di alfabeto, al cambio di
moneta ed al cambio di mentalità, e la prima dogana da una settimana a questa
parte, a 3.560 km da casa… tutto ciò che è necessario per entrare in un mondo
“altro”. La cena è un piccolo spuntino consumato in camera con le nostre
provviste, osservando la foresta notturna, addormentata sotto alla coperta
nevosa; mangiamo in silenzio, ma un silenzio pregno di pensieri e di promesse
per l’indomani. Domattina lasceremo l’Europa per la Russia. Ci lasciamo alle
spalle un’Europa obesa, sazia, viziata, che a tratti ci sembra sempre ripiegata
su sé stessa e stanca di vivere, senza memoria del passato e concentrata
solamente sul presente, sul soddisfacimento di bisogni materiali ed
individuali, sul “qui ed ora”; un Occidente che per definizione è la terra del
tramonto, ma, in questo scorcio di terzo Millennio, a noi sembra il tramonto di
tutto - di cuori ed anime - per approdare ad Oriente, quell’ “ex Oriente lux”
come già si diceva nel Medioevo; volgere lo sguardo ad Oriente per noi non
significa tornare indietro, bensì andare avanti verso il Sole nascente, in un
risorgere di nuove motivazioni e significati, alla ricerca del più vero ed
autentico senso della vita.
VERSO L’INFINITO, E OLTRE…
Partiamo da Inari verso le 9.30, durante la notte ha
nevicato e così ci troviamo l’auto completamente imbiancata. In queste
contrade, lo spazzaneve passa in continuazione, per cui ci troviamo le strade
con fondo leggermente innevato ma perfettamente percorribile. Ancora non
abbiamo montato i chiodi sulle gomme perché il fondo stradale, con questa neve
strepitosa, tiene perfettamente. Il termometro segna sempre -9°, il cielo oggi
è coperto. Un leggero traffico infrasettimanale scorre in ambo i sensi di
marcia, ma appena imbocchiamo il bivio per Raja-Jooseppi ed il confine russo,
siamo quasi da soli. Sono circa 40 i km da percorrere fino ad incontrare la
dogana. Per strada incrociamo più renne che automobili, e spesso le simpatiche
bestiole sbucano improvvise ed è un poco pericoloso frenare sulla neve. Il
paesaggio, anche qui, è fiabesco, la taiga è sommersa dalla neve ed ancora
facciamo fatica a credere di esserci arrivati; simili scenari li avevamo visti
solamente sulle riviste naturalistiche, nei documentari in tv, su Youtube; ora
i protagonisti siamo noi, e l’emozione è grande e totalizzante. Arriviamo al
confine finlandese che è circa mezzogiorno. Siamo da soli. Scendiamo e seguiamo
le indicazioni, che ci conducono in una costruzione bassa dove sono ubicati gli
uffici della polizia di frontiera e la dogana. Un giovane doganiere guarda i
nostri passaporti, ci chiede dove siamo diretti e per quanti giorni, in cinque
minuti siamo liberi di proseguire. Dopo pochi metri fatti in auto, si arriva
alla dogana russa, costruzione moderna verde e bianca, incredibilmente vuota;
prima ci accoglie un giovane doganiere col colbacco che controlla i passaporti,
poi ci fa proseguire fino alla dogana vera e propria; non è chiarissimo dove
dobbiamo dirigerci con l’auto per scendere; sotto alla pensilina vediamo due
corsie, una a sinistra è di asfalto, l’altra a destra ha delle pedane in
metallo a filo strada: dico a Max di posizionarsi sulle pedane: arriva il
doganiere e ci dice che non va bene, perché quelle pedane non sono altro che la
bilancia per i camion! Ops… ma, considerato che siamo soli soletti, possiamo
anche lasciar l’auto là. Scendiamo per il controllo documenti in ufficio, dove
un bel giovanotto ci consegna dei documenti da compilare, composti da: 1)
talòn, cioè la carta d’immigrazione (bilingue russo-inglese), sempre valida
anche per la Bielorussia; compilate tutte e due le copie, si passa davanti
all’ennesimo ragazzo che controlla ciò che abbiamo compilato, controlla i
passaporti, se li sfoglia per sentire con le dita se la carta è autentica, poi
li passa al lettore (per i visti e per la lettura del chip contenuto
all’interno) e, finalmente, timbro con tanti auguri di buon viaggio in Russia;
al contrario del 2008, qua sono tutti molto gentili ed educati (forse perché il
traffico frontaliero è minimo? mah..); 2) talòn
po avto, cioè carta da compilare (bilingue) esclusivamente a cura di chi
guida, dove chiedono nome, cognome, nazionalità, marca, modello e cilindrata
del veicolo, ipotetico valore (visto che, in effetti, importiamo un veicolo sul suolo russo), dati del libretto di
circolazione… però guai a sbagliare riga, altrimenti si rifà tutto d’accapo.
Fatto tre volte… Io intanto attendo accanto a Max per supporto morale e mi
guardo attorno; passa una doganiera dallo sguardo sbieco e glaciale, gonna,
stivali e colbacco e già temo una perquisizione corporale… Scampato pericolo.
Compilato definitivamente il questionario doganale, io passo per la corsia
verde, mentre Max passa per la corsia rossa
(sotto al metal detector) in quanto conducente. Poi ci fanno attendere
nella saletta d’attesa, ed intanto che i funzionari controllano tutti i dati,
noi ne approfittiamo per mandare avanti gli orologi di un’ora per adeguarci al
fuso orario russo; sono le 13.15 e, per il momento, tutto va bene. Ci chiedono
la destinazione e per quanti giorni rimarremo in Russia, sempre con fare
cortese e tranquillo. Dopo pochi minuti, ci fanno uscire fuori per il controllo
del bagagliaio: controllo del motore e del vano portaoggetti, controllo del
baule con cenni di apprezzamento per come abbiamo ingabbiato tutti i bagagli
con la rete di protezione (così in caso di malaugurato tamponamento, i bagagli
evitano di finirci addosso) e, finalmente, possiamo accomodarci per l’ultimo
controllo. Tempo impiegato: poco meno di quaranta minuti.
Nel 2008, un paio d’ore, coi doganieri nevrastenici…
Finito coi doganieri, montiamo in auto e, percorse poche centinaia di metri, ci
fermiamo nuovamente, dove una serissima gospožà
in gonna, stivali, colbacco e kalašnikov ci domanda nuovamente i documenti,
compreso il libretto di circolazione, controlla tutto e finalmente, con un
impercettibile sorriso, ci lascia proseguire. E SIAMO IN RUSSIA!
MATUŠKA ROSSIJAAAA!
Ore 13.30 di martedì 29 novembre 2016, esattamente ad
otto anni, tre mesi e 15 giorni dalla nostra prima volta in Russia, la
soddisfazione è immensa e totale! Come nel 2008, ci si entra con rispetto,
senza pregiudizi di sorta, col cervello vuoto per accogliere solamente le cose
positive. Davanti a noi si spalanca la taiga sommersa da neve freschissima,
strada in rettilineo che non ha visto uno spazzaneve da ieri, soli in un
silenzio irreale. Ci vengono le lacrime agli occhi. Non abbiamo il tempo di
commuoverci perché dopo pochi chilometri ci troviamo la strada chiusa da un
cancello con garitta. Dalla garitta salta fuori l’ennesimo ragazzo, stavolta in
mimetica e kalašnikov, che ci chiede nuovamente i documenti, sincerandosi che
siamo proprio noi (è stato avvisato del nostro arrivo dai colleghi via radio),
alza la sbarra e possiamo proseguire. Crediamo che questo sia l’ultimo dei
controlli. Illusi! Giunti alla biforcazione con la strada che a destra porta a
Murmansk ed a sinistra prosegue fino a Kirkenes, Norvegia, ci troviamo un’altra
sbarra, un altro controllo documenti, sempre con gentilezza e pazienza…
avessimo noi simili controlli, al nostro confine orientale… Concluse le
formalità, siamo liberi di viaggiare: avendone la possibilità, potremmo
proseguire, dopo nove fusi orari, fino al Pacifico rimanendo all’interno del
medesimo Paese! Un’idea che dà le vertigini, a pensarci bene, lo Stato più
grande del mondo si spalanca sotto alle nostre ruote. QUESTA è la vera Eurasia!
Bisogna festeggiare! E quindi è d’obbligo stappare il prosecchino e brindare a
noi, all’auto, alla Russia e per buon auspicio. Siamo finalmente nella regione
di Kola, in pieno inverno, raggiunta con passione e tenacia, con le nostre sole
forze ed i nostri sacrifici. Adesso comincia il viaggio vero e proprio, ora comincia
l’avventura e, a 10° sottozero, sotto un cielo che promette nevicate, ci
abbracciamo gridando “matuška Rossija!” Intanto lo spessore della neve sulla
strada aumenta e si corre seriamente il rischio di perdere aderenza…
TAIGA, MOJA LIUBOL’
Guardiamo il navigatore e l’atlante stradale russo:
dobbiamo percorrere ancora circa 200 km per arrivare a Murmansk ed incomincia a
farsi buio (cioè il sole sparisce del tutto, ma c’è ancora il consueto chiarore
sufficiente). Di spazzaneve, nemmeno l’ombra, e ciò ci lascia un po’ perplessi.
Procediamo sulla strada innevata, con neve candida e compatta, la taiga fa da
quinta oscura, abeti altissimi e ricoperti dalla neve fresca sembrano scrutarci
mentre avanziamo preceduti dal fascio di luce dei nostri fari, chilometri e
chilometri nell’oscurità silenziosa, nessuna città né paese ad interrompere la
foresta. Meravigliosa, irreale taiga, muta ed innevata, un nostro sogno si è
avverato! Ormai è buio pesto quando arriviamo a Verhnetulomskij per fare
gasolio ed abbiamo ancora dei rubli cambiati a S. Pietroburgo 4 anni fa;
Massimo allunga 1000 rubli (circa 14 euro) alla cassiera e la signora gli
chiede: “tutti?”. Sembra che per i russi sia ancora un lusso spendere 1000
rubli di carburante tutti insieme. Saziato il serbatoio, si prosegue, col
traffico stradale praticamente inesistente, mentre sparute figure scure appaiono
e scompaiono nei fiochi coni di luce dei lampioni, tra neve ovunque e leggerissimo
nevischio nell’aria. Che atmosfera da film di spionaggio! Verso le 16.15, come
un’oasi nel deserto, intravvediamo le prime luci della cittadina di Kola, che
dà nome all’intera regione ed alla omonima penisola protesa tra Mar di Barents,
Mar Bianco e Golfo di Arcangelo. Verso le 16.45, in una leggera pendenza, con
traffico sostenuto e sfavillìo di luci e luminarie, scritte celebrative e
monumenti lustri, facciamo il nostro ingresso trionfale a Murmansk: nel 100°
anniversario dalla fondazione, tutta la città è ornata a gran pavese! Sempre a
9 gradi sottozero, brezza leggera e nevica. Foto di rito per immortalare il
Nissan ed il suo strepitoso pilota con la scritta Murmansk alle spalle. Ora il
nostro primo pensiero è di trovare un albergo ed un cambia valute. Cambia valute
non ne vediamo, però la città è piena di banche. Il centro offre parecchi
hotel: finiamo all’Azimut, grattacielo a due ali con due alberghi distinti.
Alloggio al 16° piano, vista sulla città e sul porto. La camera, tutta in
bianco e grigio, è caldissima (25° dice il termostato), offre un bel lettone
con vero materasso matrimoniale, piumino matrimoniale anch’esso, wi-fi free,
tutti i comfort. Silenziosissima. Ma, nonostante gli spessi vetri termici,
riusciamo ugualmente a percepire in sottofondo gli stessi rumori del porto che
sentiamo a casa nostra: gru, navi, sirene, ecc. Nostalgia di casa? Ma nemmeno
un po’! E per la terza volta, appena messo piede in Russia, non vorremmo
tornare indietro per molto, molto tempo. Una rapida rinfrescata, prosecchino di
rito perché abbiamo conquistato la nostra meta e siamo nuovamente in strada per
cercare una banca e cambiare la valuta. Purtroppo arriviamo che lo sportello ha
chiuso da cinque minuti! Pazienza, cambieremo domani. Pertanto, rientriamo in
albergo e ceniamo nel ristorante interno, al 3° piano. Arredamento moderno,
finestroni panoramici su due lati. Le cameriere parlano inglese, ma poi, quando
vengono da noi, ci si rivolgono in russo (col menù in inglese), pertanto io
replico col mio modestissimo russo, suscitando in loro ampi sorrisi di
sollievo… Bisteccona sostanziosa per Max, pel’meni (ravioli) di pesce e salmone
per me: sono sorpresa, invece delle consuete mezzelune, stavolta i ravioloni sono
piccoli come tortellini e conditi con una salsina di smetana (panna acida) e
ikra, il tradizionale caviale di salmone, e sono davvero ottimi! Ovviamente,
birra alla spina, fresca e ben spillata. Dopo cena non resistiamo alla
tentazione di gustarci una Murmansk by night, ed usciamo per due passi nella
ghiacciaia. C’è ancora tanta gente in giro, il traffico è sempre abbastanza
sostenuto, e tanta neve dappertutto. Visitiamo la stazione dei treni, passando
attraverso il metal detector che suona di continuo e lo sguardo attento della
polizia di guardia, dislocata un po’ dappertutto. La gente attende il treno
guardando un film trasmesso dal primo canale nazionale, le sale d’aspetto sono
ordinate e pulitissime. Come in strada. Per oggi basta, domani in programma
giro turistico, a scoprire come si vive nella città più grande del mondo oltre
il Circolo Polare Artico!
MODUS VIVENDI
Durante il viaggio d’andata, ci eravamo immaginati
Murmansk come un avamposto sperduto nell’artico, stile Klondike. Non avevamo
voluto approfondire di più per non toglierci il gusto della scoperta; sapevamo
che è grande grosso modo come Trieste, ma la pensavamo pesantemente
militarizzata, con tantissime zone off-limits, praticamente una città caserma,
in quanto base della flotta dell’Artico. Invece, a dirla tutta, sembra un po’
proprio come Trieste, una normalissima città, trafficata, che vive col suo
porto ed i suoi traffici. Come si vive d’inverno nella città più grande al
mondo oltre il Circolo Polare Artico? Come in qualsiasi altro posto del nord
Europa… ma un po’ più al buio. Si può ben dire che qui le ore effettive di luce
sono 3: dalle 11.00 alle 14.00. Basta. Prima è notte fonda, poi verso le 10.00
arriva l’aurora, poi c’è luce ma il sole, ovviamente, non sbuca da oltre
l’orizzonte (e, se nevica, è ancora più buio), poi arriva il tramonto, seguito
da due ore di crepuscolo, alle 15.00 si accendono i lampioni e le originali luminarie
di Capodanno (il Natale, in terra ortodossa, si festeggia il 7 gennaio), alle
16.00 nuovamente notte. Giriamo a piedi sotto una leggera nevicata e rubiamo
con gli occhi tutto quello che ci si para davanti. Le carrozzine per i neonati
hanno i pattini al posto delle ruote, che altrimenti si incastrerebbero nella
neve, pur compatta, così il pupo può essere scarrozzato senza problemi.
Ciclisti? Ovvio, e chi li ferma? Circolano dappertutto, con gomme da neve.
Incidenti stradali? Diversi, qua corrono tutti come se al posto della neve
compattata ci fosse un bell’asfalto asciutto… E non serve frenare, ci si ferma
direttamente sull’auto davanti. Pratico. Ci guardiamo attorno: mendicanti?
Zero. Clandestini? Zero. Immigrati? Zero. Africani? Zero. Gente arrivata dalle
lontane province dell’ex impero? Sì, ma lavorano tutti come stagionali, qua c’è
da spalare neve e spaccare ghiaccio in continuazione, almeno fino a marzo
inoltrato. Polizia? Sì, ma meno che a S. Pietroburgo (che è una gigantesca
metropoli, in confronto a Murmansk). Senso della patria? Dappertutto: non è
solamente propaganda di Stato, qua la gente ci crede sul serio nell’identità di
popolo e nazione, basta vedere quanti automobilisti hanno sistemato sullo
specchietto retrovisore il nastrino a righe nero-arancio dell’ordine di S.
Giorgio, e quanti nastrini si vedono appesi nei negozi, sui calendari…
Spiritualità? Tantissima. Visitiamo la chiesa del Salvatore sulle Acque. Ricca
di icone e tombe di personalità eccellenti, ci sistemiamo sulle panchette ed
osserviamo chi entra; c’è di tutto: gente che passa un attimo, il
professionista con la ventiquattr’ore, la massaia con la borsa della spesa, la
giovane donna, tutti toccata e fuga, solamente per accendere una candelina, un
bacio all’icona, una preghierina al volo e poi via, a sbrigare le incombenze
quotidiane. Scolaresche attente e rispettose che ascoltano rapiti quanto
racconta loro la maestra. In questo avamposto artico, credenti di tutte le età
non mancano di trovare due minuti di raccoglimento; 70 anni di ateismo di Stato
non hanno intaccato la profonda fede di questo popolo, ora più che mai risorta
a nuova gloria. Cultura? Tanta, tantissima. Altra sorpresa, questa città offre
due teatri, un teatro per insegnare recitazione ai bambini, una filarmonica, un
conservatorio per gli adulti ed uno riservato ai ragazzi, biblioteche
dappertutto delle quali una dedicata esclusivamente ai bambini, tante librerie.
Diversi musei, purtroppo non visitati per mancanza di tempo. Nel regno del gelo
e del buio, far passare il tempo in modo intelligente è la soluzione migliore.
E, quando ci si stufa di studiare, o leggere, o suonare, si può passare qualche
oretta al caldo di un centro commerciale: tanti, sfavillanti, in confronto
quelli della Finlandia sono bottegucce. Ma con questo freddo, si pratica sport
all’aperto? Certo! La Russia è un paese che ha nell’inverno il suo asso nella
manica, pertanto c’è gente che si diletta con gli sci da fondo nel parco
pubblico oppure hockey; e, al tardo pomeriggio, vediamo tanti ragazzini, reduci
da una battaglia sui pattini che, sfiniti dalla stanchezza, si addormentano con
il mento parcheggiato sulla mazza da hockey oppure con la testa poggiata contro
il finestrino del tram che li riporta a casa… Al freddo ci si abitua fin da
piccoli. E quindi ecco che, nell’ora di ricreazione, i bimbi delle elementari
corrono nel giardino della scuola a sfogarsi a battaglia di palle di neve, o
corrersi dietro sotto alla nevicata. Giardinetti? Dappertutto, puliti, curati,
e anche se le attrezzature per i giochi dei bambini sono innevate, non fa
nulla: alle 16.00, col buio, a 9° sottozero e con un leggero nevischio, le
mamme ed i papà portano i figli a scaricare l’energia sulle altalene prima di
tornare a casa. Il pensiero corre inevitabile a chi vive in Siberia, ed
affronta temperature estreme; eppure anche a -30° o -40°, i ragazzini non
perdono occasione per sfogarsi con tutto quanto il magico inverno propone loro!
Cani: certo, quasi ogni famiglia ha il suo inseparabile cucciolo di casa.
Peccato che anche qua sia scoppiata la moda delle razze “toy”, tutto un viavai
di gente con tremanti pinscher o volpini o addirittura chihuahua al guinzaglio…
Giudichiamo sia quantomeno da irresponsabili scegliersi razze simili con questo
clima; almeno, in Lapponia, la gente adotta le proprie razze autoctone…
DRESS CODE
Signore e signorine non rinunciano a gonne e tacchi,
più o meno alti, soprattutto stivali e stivaletti di tutti i tipi, la neve ed
il ghiaccio non le fermano! La gente è molto alta anche qui, grosso modo come i
finlandesi. Pochi colbacchi, ma quasi sempre la gente gira a capo coperto (è
fondamentale!). Si cura molto l’immagine, anche se non sono poche le persone
che preferiscono abbigliarsi con pantaloni da trekking o tute da sci anche per
andare al lavoro. La fauna maschile, al contrario, non sembra dare molto peso
all’immagine, pertanto parecchi uomini si vestono come loschi faccendieri… le
scarpe a punta sono sempre un must, da queste parti.
MC-ASL
Nel nostro bighellonare, incrociamo un luogo di
ritrovo che è identico in qualsiasi paese d’Europa, dall’Atlantico agli Urali
e, probabilmente, anche nel resto del mondo; stesse finestrone, stesso mobilio,
stessi neon, stesse attrezzature… no, non è un McDonald, è un distretto
sanitario e consultorio femminile. Non serve nemmeno leggere la targa appesa
all’esterno per scoprirlo, basta rivolgere lo sguardo ai grandi finestroni che
danno sul marciapiede per ritrovare le stesse, identiche bottiglie di
disinfettante stivate sugli armadietti, le stesse carte e gli stessi schedari,
e le medesime piante d’appartamento con le fronde spelacchiate che penzolano
dalle finestre o dalle mensole e gli stessi annaffiatoi poggiati sui davanzali…
tutto il mondo è paese, dicono. E le finestrone, a qualsiasi latitudine si
trovino, sembrano un richiamo irresistibile per pothos e filodendri… E’ bello sentirsi
a casa, proprio come impone la filosofia del McDonald…
A GUARDIA DEL MONDO
Se Murmansk era il nostro traguardo, Alëša (o
Aljoscia) ne è il simbolo. Il gigantesco monumento in cemento al milite ignoto,
che raffigura un soldato sovietico alto 35 metri e mezzo che guarda truce verso
la Finlandia, era la meta del nostro viaggio. Nel mezzo di una bufera di neve,
raggiungiamo in auto la collina dove è installato il colossale monumento, parcheggiamo
vicino ad un van… e constatiamo, con disappunto, che è pieno di cinesi! Ma
anche qua! D’altronde, sono oltre un miliardo, da qualche parte dovranno pur
andare, no? Procediamo a piedi per l’ultimo tratto, non senza un po’ di fatica,
perché il vento artico soffia sostenuto: siamo avvezzi alla neve con vento vivace,
ma stavolta è un po’ difficile proseguire, perché bisogna scalare la collina
abbondantemente innevata e parecchi tratti sono ghiacciati. Ma ce la faremo,
costi quel che costi, anche mettendo in conto una caviglia slogata. Finalmente,
riusciamo ad arrivare in cima alla collina, all’ombra del gigante. Ci
emozioniamo, sarà magari sciocco, ma è così… Il nevischio ci punge occhi e
faccia, fare riprese e foto in queste condizioni è un’impresa, ma, come al
solito, siamo talmente felici di essere arrivati fin qua, che i 10° sottozero
(non calcolando il wind-chill!) e la neve che ti si infila come aghi nei pochi
centimetri di pelle scoperta, passano in secondo piano rispetto a quanto
vediamo da quassù. Purtroppo la vista non è ottimale perché la nevicata non
consente una grande visibilità, ma riusciamo ugualmente a scorgere il golfo di Kola,
il porto e la città. Facciamo il giro del monumento affondando nella neve alta,
osservando tutto il complesso dedicato ai caduti della Grande Guerra
Patriottica; la fiamma perenne che arde imperterrita da un basamento a forma di
stella giusto ai piedi del monumento; su una costruzione a forma piramidale è
scolpita la scritta “Ai difensori dell’Artico sovietico 1941-1945”;
prospiciente, un basso muretto con tutte le lapidi con i nomi delle città
martiri e la relativa medaglia al valore: ovviamente Murmansk, poi Leningrado,
Odessa, Sevastopoli, Stalingrado, Kerč, ecc.; un paio di pezzi d’artiglieria, un
monumento composto da una stella in granito sormontata da una falce e martello
stilizzate in pietra, a ricordo dei militari operai di Murmansk, il tutto a
perenne memoria di chi ha dato la vita per sconfiggere l’invasione nazista. Dopodichè,
scendiamo al monumento al faro, dove vengono commemorati i caduti in mare in
tempo di pace e, adiacente al faro, la torretta del sottomarino Kursk,
tragicamente affondato nell’agosto del 2000, portandosi sul fondo del Mar di
Barents tutti i suoi marinai (in totale erano 118, di questi solo 114 saranno identificati).
Sul retro della torretta, incisi in una lastra di bronzo, i nomi ed i gradi di
tutti gli sfortunati. Vogliamo rendere omaggio anche noi, come un ideale
gemellaggio tra città di mare che hanno visto i loro figli morire tra i flutti;
su un pezzetto di carta, ci scriviamo i nostri nomi, da dove veniamo, ed una
frase che è scolpita sul nostro Faro della Vittoria che illumina il Golfo di
Trieste: “Splendi e ricorda i caduti sul mare”, e lo fissiamo con un nastrino
tricolore. Ci soffermiamo un attimo in preghiera per questi uomini e le loro
famiglie colpite da una disgrazia che forse si poteva evitare… La tragedia del Kursk ci aveva profondamente
colpito allora ed ogni agosto non manchiamo di rivolgere un pensiero a queste
povere anime. Da queste alture affacciate sul mare, ormai ci rendiamo conto che
sono davvero tante le analogie con la nostra Trieste: città di mare col porto
laborioso, la ferrovia, i traffici, un Golfo che si insinua tra le collinette
brulle e con le industrie a filo d’acqua, refoli di vento gelido e nevischio
come nei nostri migliori inverni con la Bora, un monumento a ricordare i caduti
in mare in tempo di pace, una scalinata panoramica con vista sulla città che
ricorda vagamente la nostra Scala dei Giganti… Vagamente, ma ci sentiamo un po’
come a casa… Sopraggiunge il buio, e ne approfittiamo per fotografare,
all’ingresso ovest dell’abitato, il monumento col nome della città di Murmansk
completamente illuminato, col suo vascello simbolo svettante su un altissimo
palo, e le coordinate geografiche al neon: 68° 50’ N – 33° 03’ O e le cinque installazioni
in muratura e pannelli colorati che ricordano il ruolo di Murmansk quale martire
della Seconda Guerra Mondiale (Grande Guerra Patriottica, per i russi); ogni
installazione reca una scritta diversa: Murmansk città degli eroi, città
operaia, città guerriera, città portuale della Russia artica, per la difesa
dell’Artico sovietico, tutte senza un graffio o un pastrocchio…
QUANDO IL SALMONE SALTAVA E STALIN
COMANDAVA…
Il freddo ci mette addosso un languorino. Nel nostro
bighellonare pomeridiano (ma sarebbe più corretto dire notturno, visto il buio)
ci fermiamo per una birra (il tè caldo lo lasciamo agli astemi) al pub Pilgrim,
nome che c’entra poco con Murmansk, ma almeno stiamo un po’ al caldo; legni,
ottoni, tante foto e trofei delle giovani promesse di arti marziali ci fanno
compagnia mentre ci gustiamo un paio di tartine al caviale rosso e ottime birre
pils; ma la sorpresa è uscendo: un poster che ricorda il settantesimo
anniversario della vittoria dell’Unione Sovietica, con Stalin che occhieggia
sornione sopra alla foto del soldato dell’Armata Rossa che sistema la bandiera
sovietica sul Reichstag; ciò non deve sorprendere più di tanto: il georgiano,
dopo la sua demonizzazione avvenuta in epoca chruševiana, sembra essere stato
recentemente quasi “riabilitato”, in nome di un comune sentire di patriottismo
slavo-ortodosso, caldeggiato ormai da anni dal nuovo corso del governo. Alla
fin fine, chi comandava la Nazione che ha compiuto lo sforzo maggiore per
liberare l’Europa dal nazismo? Via dal pub, ancora due passi nei parchi
illuminati dalle luminarie a forma di cuore (ma quanto sono romanticoni, questi
russi!) e, in uno di questi, incontriamo il monumento al… salmone. Intuiamo
subito il perché di questo singolare bronzo: semplicemente, un torrente che una
volta scorreva libero verso il mare, con la costruzione della città è stato
quasi del tutto intombato, privando, purtroppo, i salmoni di uno spazio vitale.
A “compensazione” di ciò, sulla pavimentazione del pavè occhieggia un quadrato
ricoperto da una lastra di vetro, sotto alla quale si può scorgere il torrente
che scorre verso il porto mentre, qualche
metro più avanti, una struttura che rappresenta una rete da pesca ed un salmone
saltante sembrano rendere una sorta di omaggio a questa importante risorsa
ittica. Sempre sorpresi da queste estemporanee sensibilità verso il mondo
naturale (e meditando di proporre a Trieste un monumento alle alici),
rientriamo in albergo per la cena.
HOTEL AZIMUT
Due parole sull’albergo dove alloggiamo: fa il paio
con l’hotel Arktika, che fa parte del medesimo complesso situato in prospekt
Lenina, pieno centro; è un quattro stelle, e, tra i vari servizi proposti, c’è
pure la gladil’naja komnata (ironing room), cioè una saletta attrezzata con due
tavoli da stiro e relativi ferri, è la prima volta che ci imbattiamo in una
stanzetta appositamente dedicata allo stiro-fai-da-te! Il buffet per la
colazione è pantagruelico, c’è di tutto, praticamente pranzi completi. Anche doppia
scelta di uova sode: cotte 5 minuti o cotte 7 minuti, il massimo dei vizi! Come
sempre, ci rimpinziamo al mattino per non ritrovarci con un buco allo stomaco
all’ora di pranzo e conseguente perdita di tempo (e ore di luce!). In Finlandia
io mi sono abituata a far colazione con il salmone accompagnato dal tè. Ma non
il solito salmone affumicato, questo è un vero salmone intero, del peso di circa
3 kg, cotto al vapore e perciò sostanzioso e digeribilissimo, da accompagnare
anche col succo di pomodoro, e succo d’arancia… Max mi guarda un po’ schifato
per queste mie scelte gastronomiche mattutine, e preferisce concentrarsi sulle
uova, sui formaggi, sui prosciutti… Nonostante il notevole viavai di gente che
alloggia qui per lavoro ed affari vari, e la totale assenza di turisti (a ben
vedere, siamo gli unici!), l’albergo è estremamente silenzioso, e dobbiamo
notare l’educazione della clientela (quasi tutta russa): telefonini e
smartphone sono tutti rigorosamente in modalità “silenziosa” o vibro; non
abbiamo MAI sentito un solo squillo di telefono né il “bip” di una notifica e
tutti conversano a voce bassa. Ma bisogna arrivare fino all’Artico russo per trovare
un po’ di senso civico? Oltre al silenzio ovattato, questo albergo si segnala
anche per essere pulitissimo e caldissimo. In camera abbiamo abbassato il
termostato da 5 a 3, ed anche così si faceva fatica a dormire per il troppo
caldo! Il parcheggio interno è custodito, il personale è davvero cortese, la
reception è gestita da giovanissimi ragazzi freschi di scuola alberghiera, sempre
sorridenti e, a dirla tutta, entusiasti di lavorare (in tutta la Scandinavia,
invece, non è proprio così idilliaco, come abbiamo già riscontrato in diverse
occasioni…).
PROFONDO ROSS…IJA!
Purtroppo, dobbiamo già incominciare il viaggio di
ritorno. Di primo mattino lasciamo l’hotel per andare in stazione ed acquistare
le cartoline (ebbene sì, siamo dei sentimentali ed il rito delle cartoline è
sempre colmo di fascino, ed amici senza internet e smartphone sono la scusa per
adempiere a questo rito). Ne scegliamo diverse ed una, in formato panoramico,
la acquistiamo per noi perché raffigura una visione completa di Murmansk
dall’alto ed è splendida da mettere in cornice. I francobolli si acquistano in
posta. Bene, ci muoviamo tutto a piedi, col nevischio ed i soliti -7° ed il
consueto buio come fosse notte. In posta (modernissima, sembra una filiale
delle nostre, tutta in blu, bianco e rosso, con annesso piccolo museo postale
con le cassette postali di epoca zarista e dell’URSS), ci accomodiamo ai tavoli
per onorare questo rito, nel silenzio generale (3 pensionati in tutto); allo
sportello apposito, chiediamo i “marka” (francobolli), l’impiegata si informa
se li vogliamo “par avion” (certo!), li appiccichiamo tutti ed imbuchiamo.
Missione compiuta in un silenzio irreale. Recuperiamo l’auto al parcheggio
dell’albergo e partiamo, sempre col buio, ma fuori Murmansk i paesaggi che ci
si parano davanti vanno ben oltre il fiabesco! Il traffico è regolare,
scorrevole, rispettoso del codice della strada (8 anni fa ricordiamo che non
era proprio così ligio alle regole!), la temperatura scende fino a -9°, sempre
col nevischio; sorpassiamo una quantità industriale di laghi ghiacciati ed
innevati e ci rendiamo conto che qui, nella bella stagione, deve essere un
autentico paradiso naturalistico! Viaggiamo sempre nella taiga più pura, gli
abeti sono altissimi ed a forma di fuso, simili a quelli che vegetano in
Siberia, in Canada e negli USA, nella stessa fascia artica; causa il freddo e
le abbondanti nevicate, i rami sono molto corti perché altrimenti non potrebbero
sopportare il freddo intenso sommato al peso della neve che potrebbe schiantare
i rami e provocarne la morte. Proseguendo verso sud e dirigendoci alla volta di
Kandalakša, questa specie di abete comincia a farsi più rara per lasciare il
posto agli abeti rossi ed ai pini silvestri, sempre altissimi, vere muraglie
bianche e verdi a bordo strada; purtroppo, molti alberi sono rovinati dalle
piogge acide, vero flagello causato da impianti a carbone senza troppi filtri…
Avvicinandosi al margine del Circolo Polare, si fanno avanti sorbi e betulle,
la mitezza del clima si intuisce col cambiare della vegetazione. Viaggiamo in
territori che prima del 1945 facevano parte della Finlandia, poi l’avanzata
dell’Armata Rossa ha travolto i confini e, da vincitore, ha preteso parte di
questi territori. Lasciamo, con lacrimuccia, la selvaggia regione di Kola (che
comprende anche Murmansk) ed entriamo
nella Repubblica autonoma di Carelia. Le consuete 4 ore di luce ci accompagnano
per tutta la discesa verso sud, col buio arriviamo al nostro terzo monumento
che indica il Circolo Polare Artico (dopo quello svedese e finlandese incontrati
due anni fa); anche se non sembra, ma ci stiamo inesorabilmente dirigendo verso
il caldo e la luce… Foto ricordo, ed anche qui hanno sistemato una specie di
globo di tondini di ferro, ideato per lasciarci un ricordo; lo facciamo anche
noi, come purtroppo non abbiamo fatto in Siberia; leghiamo un nastrino
tricolore per buon auspicio, lasciato a sventolare assieme alle decine di altri
nastri in stoffa che ornano questo globo, per una consuetudine che affonda le
sue radici nella tradizione sciamanica che, ovunque, regna in questa terra
magica. Come da tabella, col buio “notturno” arriviamo al paese di Louhi e troviamo
una gastiniza (hotel), in via Sovietskaja, con annessa rivendita di generi di
prima necessità (cioè vino, birra, vodka, acqua minerale e patatine per
accompagnare la bevuta), con annesso meccanico, gommista, ecc. Entriamo in
questo edificio residuato sovietico, dove parlano solamente russo, ma ormai non
è un problema: le signore della reception (se così si può chiamare un bancone
in formica con pothos d’ordinanza che penzola da un lato e receptionist con
addosso il grembiule da donna delle pulizie) sono tutte molto gentili e pazienti,
capiscono il mio interloquire sghembo, ed in pochi minuti sbrighiamo il
check-in: camera con letti separati, però calda, pulitissima, confortevole, con
doccia e tv e acqua calda da boiler, però la colazione non è compresa.
Parcheggio ovviamente riservato e custodito sul retro, accanto alla rimessa dei
TIR, con triplo cancello; posteggiamo, poi, ricordandoci quanto ci ha spiegato
la receptionist-tuttofare, dobbiamo entrare nell’ufficietto apposito, dove la
signora addetta ci consegnerà la “qvietancija” di pagamento, da consegnare alla
receptionist. Per la cena, ci accomodiamo nella saletta ristorazione; non è un
ristorante, piuttosto un caffè-bar; abbiamo percorso 4.363 km da quando siamo
partiti da casa, ora davvero ci stiamo gustando questa singolare vacanza! Ordiniamo
le solite birre sciogli-stanchezza sotto lo sguardo compunto di un presidente Putin
che illustra le ultime riforme governative in tv, poi la cameriera ci porta
come antipasto due ciotole ripiene di pomodori, cetrioli, smetana ed aneto fresco.
Ma come fanno ad avere aneto sempre fresco? Evidentemente, è coltivato in serra
assieme ai pomodori ed ai cetrioli, che mai e poi mai avremmo pensato di
trovare freschi… quassù! Poi ci portano un piatto di riso in bianco, contornato
da un cucchiaio di piselli ed una specie di involtino di pollo impanato, il
tutto riscaldato al microonde. Almeno ci siamo saziati con qualcosa di caldo e
del tutto digeribile. Stanchi, ci arrampichiamo su per le scale dritti in
camera. Dalle “stelle” (l’hotel Azimut di Murmansk) alle “stalle” (la gastiniza
di stasera). E’ un problema? No, affatto. Anzi: sono proprio luoghi come questi
che ti permettono di vivere “da vicino” come un indigeno qualsiasi, a mangiare
gli stessi cibi loro, a scorgere nei loro occhi una curiosità che il personale
degli alberghi “internazionali”, giocoforza, non possiede. Basta un sorriso in
più, lo sforzo (che viene apprezzato) per parlare la loro lingua, e tutto
acquista più sapore, anche se è scaldato al microoonde….
PROFONDO ROSS…IJA/2
Col consueto buio pesto mattutino, scendiamo a far
colazione, composta da jogurt alla frutta, tè nero, uova all’occhio e due
salsicce a testa col ketchup, 2 brioches confezionate, pane e formaggini, il
tutto per circa 7 euro. Andiamo a recuperare l’auto e ci accorgiamo che nevica,
ma quella che cade non è volgarissima neve, noooo, è polvere di stelle! Il
cancello del parcheggio dei camion è ancora chiuso col lucchetto (giustamente
protetto dal gelo notturno con una mezza bottiglia di plastica calzata sopra);
ci accorgiamo che comunque il lucchetto è già per metà aperto e lo togliamo dal
supporto; in quell’istante arriva l’uomo del parcheggio che vuole la metà della
qvietancija, dopo di che possiamo anche andare. Siamo sempre a -7° e la
“stardust” che tanto ci sorprende è in realtà pulviscolo gelato dell’umidità
notturna, difatti dopo qualche ora, con più luce, realizziamo che quello che
vediamo nel cielo non sono nuvole, ma solo aria umida che viene compressa
dall’alta pressione nei bassi strati dell’atmosfera. Non dimentichiamoci che
questa è la patria dell’anticiclone russo-siberiano, un mostro di stabilità
atmosferica capace di produrre valori pressori che possono sorpassare
tranquillamente i 1050 hPa… Passiamo per la cittadina di Kem’, e ci fermiamo
giusto per dare uno sguardo al Mar Bianco e al suo monastero del 1700 costruito
tutto in legno e senza l’ausilio di chiodi, come da tradizione di queste parti.
In questo luogo sperduto, proteso sul mare color del piombo, nel 2006 hanno
girato un bellissimo film, intitolato “Ostrov” (“L’isola”), storia di monaci,
miracoli e “folli in Cristo”, ed in questa apparente desolazione ogni cosa
sembra assumere un significato diverso, a patto di lasciarsi alle spalle tutte
le nostre concezioni “occidentali”. Eccola, la profonda Russia del 2016:
parabole sui tetti ma c’è ancora gente che va a prendersi l’acqua dal pozzo in
strada, trascinandosi dietro ex bidoni del latte pieni d’acqua sistemati sugli
slittini; bambini in comitiva fuori dalla scuola tutti bardati coi giubbini
gialli ad alta visibilità; babuške in cappotto e valenki (stivali di feltro)
che fanno la spesa al mercatino del paese (cioè camioncini di ambulanti che
vendono pane, pesce, carne, verdure), palazzoni di stampo soviet accanto a
deliziose dacie restaurate, case in legno mezzo sprofondate nel terreno,
tantissima neve dappertutto, e la vita che scorre normale e tranquilla come in
un qualsiasi altro paese europeo innevato; il consueto mix di contraddizioni
che descrive meglio di tante parole che cosa è tutt’ora la Russia. Alla nostra
legittima domanda: “Ma perché ancora non si fa qualcosa per portare l’acqua in
tutte le case?” la risposta è la consueta: “Perché… siamo abituati così… e va
bene così.”. Aveva davvero ragione l’immenso Fëdor Dostoevskij quando affermava
che il popolo russo ha l’esigenza di soffrire, senza la quale sente la vita
meno degna di essere vissuta? Diceva questo pilastro della letteratura
mondiale: “… Io penso che la più
importante e fondamentale esigenza spirituale del popolo russo sia quella di
soffrire, in modo continuo ed insaziabile, dappertutto e in tutto (…) non
soltanto a causa delle sciagure e delle disgrazie esteriori, ma scaturendo dal
cuore stesso del popolo, il popolo russo persino nella felicità ha
immancabilmente una parte di sofferenza, altrimenti la sua felicità non gli
parrebbe piena…”. Nati per soffrire, dunque… Noi, invece, almeno stando
alla temperatura odierna, oggi non soffriamo: fa meno freddo, adesso qui il
termometro indica -6°. Non diciamo che si muore dal caldo, però rispetto ai -10°
di Murmansk, la differenza si sente, eccome! C’è una bellissima luce del giorno
pieno, e il sole continua a non dare cenni di presenza all’orizzonte; ci
avviciniamo a quella che supponiamo sia la spiaggia (e che ne sappiamo se è di
sabbia o ciottoli? E’ tutto coperto da una consistente coltre nevosa!) ed
osserviamo una propaggine del Mar Bianco, che pare una replica dell’Oceano
Artico, per tanto grigio e plumbeo si presenta ai nostri occhi di bambini
curiosi. Raggiungiamo la chiesa del 1700, purtroppo è chiusa per l’ennesimo
restauro. Che peccato! Attigua alla spiaggia, vicino alle ultime case del
paese, incontriamo una babuška (la nonnina) di almeno 80 anni, abbigliata con
fazzoletto in testa, cappotto, gonna tipo loden e caldissimi valenki in feltro
nuovissimi, che con questa neve che sembra ghiaccio secco sono l’ideale per
camminarci dentro senza che assorbano la poca umidità e che, con un’agilità
invidiabile, si piega a panino per cercare dei cuccioli di cane che si
nascondono tra le assi della stalla di casa sua; ci attacca bottone, incurante
del nostro essere stranieri che poco comprendono, ci parla dei cuccioli, della
splendida gattona a pelo lungo squama di tartaruga che ci studia sospettosa, ed
io ne approfitto per qualche scatto ricordo di questo che pare un frammento uscito
da un qualche racconto di Tol’stoj… Ciao Kem’, con le tue barche in secca e
quell’orizzonte grigio certosino che si fonde col mare dalla stessa tonalità,
una palette di colori neutri che non deprimono ma al contrario rilassano occhi
ed anima. Di nuovo in marcia, osserviamo il cielo plumbeo che ci si para
davanti. L’aria ha un colore? Sì: color piombo! L’aria compressa dalla
fortissima pressione atmosferica, assume questo colore tra il grigio e
l’indaco, ingannando l’occhio e dando così l’impressione di andare incontro al
brutto tempo! Verso le 17.00, ovviamente col buio pesto, arriviamo a
Medvežegorsk (traduzione spicciola: monte degli orsi, infatti il simbolo della
città è un orso) sempre sotto ad una fitta nevicata di fiocchi misti a
lustrini; cerchiamo un albergo, lo troviamo che si materializza sotto forma di
una specie di parallelepipedo sovietico denominato Onežskaja, rimesso a nuovo
(anni fa, però!), senza ristorante né colazione, ma con comodo parcheggio
custodito nel retro. Cerchiamo l’uomo del parking, arriva un ragazzo già
abbondantemente ripieno di vodka, però in grado di comunicarci che vuole il
“talòn” (tagliando) da fare in albergo. Anche qua l’inglese è un idioma
sconosciuto, ma non è un problema, la receptionist è molto paziente e mi comprende benissimo. La
sistemazione è veramente “sovietica”, letti separati, doccia nel linoleum e letti
con le federe ma senza sacco lenzuolo per il piumino. Pazienza… Almeno camera
calda? Il termometro dice 20 gradi, sufficienti per asciugare sui massicci
termosifoni in ghisa il bucato che ho fatto nel micro lavandino. Nonostante
l’aspetto dimesso e spartano, la camera è pulita e l’acqua bollente è
disponibile a volontà, ed è tutto quello che ci interessa. A lucro di tempo,
voglio asciugare una maglia tecnica col nostro phon da viaggio, compagno di
tante avventure in terra straniera, ma purtroppo il pusillanime mi pianta in
asso bruciandosi e quindi ora… siamo senza phon. In pieno inverno, è una
bellissima notizia. Medito di tagliarmi a forbiciate i capelli che, dopo tanti
giorni di berretto perennemente calcato sulla testa, hanno ormai assunto la
consistenza della lana da materassi. Soprassiedo all’idea e, sconfortati, ce ne
andiamo a dormire, e qui una sorpresa ci risolleva la serata: i nostri sono
letti in kit: cioè fai da te. Troviamo il sacco lenzuolo, pulito, stirato e ben
piegato, sotto alla trapunta fantasia, bisognava soltanto farsi il letto da
soli…
LA MACCHINA DEL CAPO HA UN BUCO NELLA
RUOTA…
Sveglia di mattina presto, colazione in camera coi
nostri biscotti, e poi partenza per Novaja Ladoga, per gustarci ancora quella
meravigliosa luce che dall’aurora (che dura circa un’oretta) passa alla luce
diurna; procedendo più a sud, rispetto a Murmansk ora abbiamo guadagnato due
ore di luce in più; pensandoci, è un patrimonio. Se in Occidente, di norma, la
vita trotta al ritmo di un metronomo posizionato sull’allegro vivace ed in
Russia è sistemato in genere sull’andante, quassù ci rendiamo conto che tutto
scorre ad un ritmo estremamente più pacifico, tra il lento e l’adagio, e che, a
dirla tutta, è il ritmo del battito del cuore, tra i 60 ed i 66 bpm; un ritmo
umano. E così anche la luce se la prende comoda… Procediamo dunque in questa
luminosità avvolgente sotto alla consueta cascata di lustrini ed attraversando
una taiga da incanto ma, in confronto alla Svezia ed alla Finlandia, in Carelia
c’è tanto più da vedere: rispetto a 8 anni fa, i russi si sono evoluti sul
turismo, quindi la segnaletica turistica è la stessa che si riscontra nel resto
d’Europa, crema-marrone, coi vari simboli dedicati, e scritte in russo ed in
inglese, pertanto il viaggiatore sa immediatamente che cosa c’è da visitare in
quel determinato luogo. A dispetto della vastità del territorio, (siamo pur
sempre in Carelia e tutto è immerso nella più profonda taiga), c’è davvero
tanto da vedere e qualsiasi vestigia del passato sono adeguatamente valorizzate:
che siano carri armati, monumenti, sacrari, linee del fronte, monasteri
(tanti!) o bellezze naturali, Svezia e Finlandia, per quanto riguarda la
storia, possono andare a nascondersi… Procedendo verso Novaja Ladoga, sul più grande
lago d’Europa, visto che siamo in orario favorevole rispetto alla tabella di
marcia, decidiamo di dare un’occhiata alla città di Petrozavodsk (significa “la
fabbrica di Pietro”, il Grande, ovvio) così ne approfittiamo anche per vedere
il secondo lago più grande d’Europa, l’Onega, dove su di un’isola posizionata
all’estremità di una lunga penisola, sorge la meravigliosa chiesa lignea di
Kiži, la meraviglia architettonica edificata senza nessun uso di chiodi! Non
avendo materialmente il tempo da dedicarle (altra meta di un prossimo viaggio,
con la bella stagione, magari!) ci dirigiamo verso le sponde del lago. Ma fatti
pochi chilometri all’interno del centro cittadino, un tizio dietro a noi ci
lampeggia coi fari e Max capisce che c’è qualcosa che non va: un attimo dopo,
brutti rumori… abbiamo bucato la ruota posteriore! E nevica, incessantemente,
col sereno. Sono le 11.10, ed abbiamo bucato proprio sulla strada principale,
logicamente sulla corsia dei filobus! Per recuperare il triangolo, la piastra
per il cric, il cuneo di legno e la chiave per i dadi delle ruote, bisogna
vuotare mezzo baule… quindi forza e coraggio, trasbordo di tutti i bagagli sul
marciapiede innevato, siamo a -6° ed il cielo continua a spolverizzarci di
perfetti cristallini bianchi, che ricoprono subito i bagagli come una
spolverata di zucchero a velo. Vado a posizionare il triangolo e Max inizia ad
alzare l’auto, coi filobus che ci fanno il contropelo, ma nessuno protesta né
si innervosisce, i conducenti dei filobus comprendono, e la gente,
dantescamente, non si cura di noi, ma guarda e passa… commentando qualcosa;
siamo comunque oggetto di curiosità, perché non è difficile notare degli
smartphone puntati verso di noi per uno scatto da commentare con gli amici… Io
non me la sento di documentare l’accaduto, perché devo tenere d’occhio sia il
triangolo posizionato lontano, sia i bagagli depositati sul marciapiede, però
registro tutto con lo sguardo: Petrozavodsk è una cittadina che, tra i
palazzoni real-socialisti, conserva molta architettura neoclassica dei tempi di
Pietro il Grande; diversi bambini portati in giro non su carrozzine ma su
comodi slittini, uno addirittura sta comodamente seduto su una morbida
pelliccia d’agnello, la soluzione migliore per tenere il sederino al caldo!
Cambiata la ruota e ributtati nuovamente tutti i bagagli alla rinfusa nel
baule, andiamo a cercare un gommista; chiediamo lumi ad un vecchietto intento a
spalare la neve nello spiazzo di un distributore di carburate, lui gentilmente
ci spiega dove trovarlo e come arrivarci in un profluvio di parole, capiamo un
quarto di quello che dice ma almeno cogliamo l’essenziale; le sue preziose
indicazioni ci permettono di scoprire che abbiamo bucato… a 50 metri dal
gommista! Il gommista, che in russo si dice šinomontaž, si materializza nella
persona di Igor, un carelo autentico, pelle nivea, zigomi da lappone, occhi
celeste slavato, il quale non batte ciglio davanti al mio russo telegrafico
(per favore, aiuto, gomma, grazie), niet problema, finisce con l’auto del
finlandese e sarà da noi. Allora lascio Max, che intanto ne approfitta per
rimettere a posto il baule dell’auto, e vado a fare due passi e scattare
qualche foto in questa luce che è sempre meravigliosa ed incantata; trovo un
robivecchi ricolmo di memorabilie del passato regime e oggettistica di tutti i
tipi, più o meno nuova, compreso un mercatino di abiti e divise usate, di
militari ed operai, di tutto e di più. La mancanza di tempo ci frega
l’opportunità di tornare qua e gustarci questo scrigno delle meraviglie! Nel
mio peregrinare trovo anche una pescheria, gestita da una corpulenta ed
imperiosa bionda dal trucco teatrale, che anziché dei pesci freschi, sui banconi
espone quelli che, ad un occhio attento, sembrano dei fossili… Anche qua ci
sono parecchi cinofili, ma almeno sembrano dotati di più buon senso dei
colleghi di Murmansk, pertanto i cani che vedo in giro sono quasi tutti razze
spitz, compreso un bellissimo esemplare di Cane da Orsi della Carelia,
inconfondibile con quella coda arrotolata e gli occhi azzurro ghiaccio su un
muso bianco e nero. Sempre cielo sereno, e sempre che da lassù qualcuno che si
diverte a setacciare le nuvole per far cadere su di noi la consueta cascata
luccicante. La magia continua! Alle 13.30, il gommista Igor dichiara concluso
il lavoro, accusando un bel chiodo quale responsabile della foratura del
pneumatico, pertanto paghiamo il dovuto (sarebbero 700 rubli, glie ne
allunghiamo 1000 con la mancia), ma la curiosità lo sprona a farsi loquace e ci
chiede da dove veniamo; gli indichiamo la malconcia bandiera italiana che
penzola dall’antenna del cb, allora comprende e ci sorprende con un
“buongiorno!” esclamato con gusto, poi vuole sapere da dove arriviamo di
preciso; recupero il nostro roadbook, gli indico tutto l’itinerario partendo da
Trieste (“moja doma!” gli preciso), lui sgrana gli occhi, ci dice che è
lontanissimo e che siamo proprio bravi ad arrivare fino qua. Igor, sei proprio
simpatico, ed è giusto che si festeggi l’incontro; Max tira fuori la bottiglia
di grappa acquistata per le occasioni speciali e, nell’angusto spazio della sua
micro-officina, brindiamo “all’amicizia tra i popoli!”, ci facciamo una foto
ricordo, lui ci scrive la sua mail e ce ne andiamo con la sua benedizione.
Purtroppo, questo inconveniente ci ha portato via 2 ore e mezzo di tempo (e
luce), per cui a malincuore ce ne andiamo senza aver visto né Petrozavodsk né
il lago Onega; riprendiamo, con un sospiro, la marcia verso sud, sempre sotto a
nevicate assurde, nella taiga sommersa da una coltre bianchissima, incidenti
paurosi, luce incantevole, ecc. ecc. Se la Carelia è così affascinante
d’inverno, non osiamo immaginarla d’estate … Ma che cosa è bella stagione, poi,
in Russia? A noi sembra che sia esattamente l’opposto di quanto intendiamo
noialtri “meridionali”…
IL MOTEL DELLE SORPRESE
Arriviamo nei pressi di Novaja Ladoga, ma complice il
buio-scuro-pesto ed un infinità di incroci, saltiamo quello giusto e finiamo in
un posto che non capiamo nemmeno come si chiama, però questa zona anonima
propone un motel, il Kipuja, nuovo di pacca con ancora il cappotto esterno da
rifinire; come da consuetudine russa, ci puliamo le scarpe piene di neve su
delle spazzole (sono tre scope senza manico, in sostanza) appositamente fissate
alla base della scala in metallo che ci conduce fino al primo piano, dove
troviamo una luminosa reception nonché scintillanti lavabi in comune; ci
accoglie una gioviale bionda robusta, che ci propone diverse camere, con letti
separati ed una con letto matrimoniale; ovviamente scegliamo quella col letto
matrimoniale, e la simpatica bionda mi fa subito segno d’intesa, ridendo e stringendomi
complice un braccio! Le consegniamo i passaporti per la registrazione e lei,
gentilmente, ci passa il modulo da compilare a nostra cura… tutto in russo. Bè,
ormai abbiamo acquisito una certa familiarità con i moduli alberghieri, per
cui, dopo una breve lettura e comprensione di quanto stampato, la registrazione
si fa in un momento. La nostra camera, pur nella sua semplicità, è veramente
accogliente e molto calda: il calorifero bollente si fa aiutare da una stufetta
elettrica, che possiamo tenere accesa durante la notte, quando il riscaldamento
centrale si spegne. E’ disponibile un ottimo collegamento wi-fi, i bagni sono
in comune, il tutto estremamente pulito; nella zona refettorio è sistemato un
bel tavolo grande con servizi all’americana, cestino con la frutta, e tavolo da
stiro nel sottoscala, più un mobile con acquaio, piatti, posate, sale,
zucchero, ecc, ed un boccione con l’acqua sia fresca sia calda per il tè. Nel
frattempo Max ne approfitta per farsi una bella doccia calda; il vano doccia è
una stanzetta con spogliatoio, dal quale si accede poi alla doccia vera e
propria che, sorpresa delle sorprese, contiene… UN CALORIFERO! In doccia!
Finita la doccia, non fa quasi nemmeno in tempo a chiudere la porta esterna che
dà sul corridoio che già la biondona entra rapida con secchio e mocio a pulire
ed asciugare tutto. Stupefatti da tanta efficienza, ci organizziamo per la
cena. Ceniamo in tutta tranquillità e comfort con le nostre provviste, e nel
contempo prepariamo un bel piattino con salame, grana padano, crostini e
bicchierino di grappa per il marito della bionda, che fa il turno di notte,
celato dal vetro a specchio della sua stanza-guardiola-reception. Il signore,
bruno e baffuto, quasi si commuove al nostro gesto, però declina a fatica il
bicchierino di grappa perché la sua signora non vuole… ah! mai dai! Insistiamo,
e lui accetta volentieri, eclissandosi nuovamente dietro il suo vetro a
specchio a consumare le nostre delizie e la grappa, al riparo da sguardi
indiscreti… A cena finita, si sparecchia, io lavo i piatti e nel frattempo il
motel si riempie di nuovi ospiti, una coppia e poi altri tre uomini. La coppia
si rintana in camera, mentre i tre uomini ci salutano e si accomodano al
tavolone per cenare. Immediatamente, e simultaneamente, ci presentiamo, uno di
loro ha già adocchiato il nostro Patrol posteggiato fuori ed ha capito che
siamo italiani. L’intesa scatta immediata, loro mettono sul tavolo la loro cena
(pesce di lago affumicato e strepitosamente buono), noi contraccambiamo col
nostro salame, il grana padano (che, non ce ne vogliano i puristi, ma per farci
comprendere meglio dichiariamo che è formaggio “tipo parmesan”), i crostini di
pane, la grappa e la bottiglia di limoncello. Davanti a questa tavola
imbandita, facciamo così conoscenza di Vadim, Alexei e Vladimir, camionisti di
Nižnij Novgorod, Alexei parla anche un po’ di inglese, così in un misto di
anglo-russo, ci facciamo una chiacchierata che prosegue anche ben oltre il
consentito, difatti il tizio che si era rintanato con la moglie in una delle
camere adiacenti, esce a protestare perché si è fatta mezzanotte e potremmo
anche andarcene a dormire, no? Mentre il limoncello cala, le chiacchiere
aumentano, Alexei ci chiede da dove veniamo (ecco pronto il nostro roadbook a
spiegare tutto!), come mai d’inverno, e tutti e tre apprezzano il nostro
dichiarato amore per la Russia e per il loro popolo; i discorsi scivolano su
Putin (“niet, niet, niet!” per carità, lasciamolo perdere!), poco amato dal
nostro camionista, che ama l’Occidente più di noi. Ci mostra le foto della sua
famiglia: moglie, cane e figlie bellissime, ci scambiamo gli indirizzi mail,
mentre Vadim e Vladimir ascoltano, mangiano, degustano il limoncello e lasciano
che sia Alexei a fare gli onori di casa (ci spiega che lui è solamente
dipendente, Vladimir è il “boss” della ditta di trasporti). Brindisi finale con
foto “all’amicizia tra i popoli”, il limoncello ormai è solamente un pallido
ricordo, i tre simpatici camionisti sparecchiano e lavano le stoviglie da loro
utilizzate, io lavo i restanti bicchieri e lasciamo la sala mensa linda e
lustra come l’abbiamo trovata. Mezzanotte passata, a nanna tutti, noi dobbiamo
partire, loro devono lavorare. Ci addormentiamo pensando ancora alla pulizia
trovata in tutti i luoghi dove siamo stati, all’educazione ed alla gentilezza
riscontrata dappertutto…
VERSO IL SOLE (PURTROPPO…)
Abbiamo dormito come pupe nel bozzolo, i termosifoni
erano spenti, ma il piccolo calorifero elettrico, messo sul minimo, ha
mantenuto la camera in un confortevole tepore. Stamattina il cielo è coperto, fuori
il termometro indica -8° e nevica, una nevicata vera! C’è un viavai nelle zone
in comune, le docce già occupate, i camionisti sono tutti in piedi, ed io vado a
lavarmi i denti nei lavabi all’ingresso, con Vladimir che si fa la barba
accanto a me… una cameratesca condivisione degli spazi comuni, un reciproco
“dobroe utro” (buon giorno) condito da sinceri sorrisi e naturalezza di gesti
da toeletta. In camera abbiamo fatto colazione con i nostri biscotti ed i
succhi di frutta, siamo già pronti per partire quando la signora bionda ci dice
che ha preparato una polentina di mele e che possiamo anche farci il tè caldo!
Un tè caldo non si rifiuta, e ne approfittiamo per riempirci un po’ di più lo
stomaco. Sono partiti tutti, siamo gli ultimi ad andarcene, con davvero un
bellissimo ricordo di ospitalità russa. Facciamo il punto nave, siamo nei
pressi di Staraja Ladoga (per la precisione, siamo ad un centinaio di km. da S. Pietroburgo ed
a 13 km da Gorgala). Stavolta partiamo con comodo, osserviamo la neve che cade
e copre tutto: fiocchi così perfetti da sembrare fatti con lo stampino: di ogni
fiocco si possono nettamente distinguere i bracci e i minuscoli aghetti che ne
spuntano, davvero sembrano finti. Qualche km più a sud, direzione S.
Pietroburgo, il cielo schiarisce fino a diventare velato, ma la neve continua a
cadere a larghe falde. Nel nostro peregrinare, siamo sempre accompagnati da
Radio Dorožnoe (Radio Strada) una specie di Isoradio in salsa russa, udibile da
S. Pietroburgo a Vladivostok, poca pubblicità e tanta musica vera, russa ed
internazionale, compresi vecchi successi di Sanremo! Verso le 10.30, nei
dintorni della riva meridionale del lago Ladoga, spuntano i primi raggi di
sole. Praticamente, ormai erano 10 giorni che non li vedevamo! Bisogna
immortalare l’avvenimento, le lame di luce che colpiscono le cime degli abeti
sono uno spettacolo al quale non eravamo più abituati. E già cominciamo ad
esserne un po’ infastiditi… Giunti al ring esterno per S. Pietroburgo, il sole
è già alto (si fa per dire, ovvio) e, con questa palla luminosa in faccia,
nevica a larghe falde! Continuiamo a stupirci per queste magie! Fa freddo, in
alcuni punti tocchiamo i -11°, le strade sono una lastra di ghiaccio e si
scivola con facilità (noi e tutti gli altri, chiodi o non chiodi); ad un
semaforo rosso in centro città, non riusciamo a mantenere aderenza e, nella
nostra corsia, scivoliamo con la grazia di una pattinatrice, e soltanto
l’esaurirsi della forza d’inerzia ci evita di andare ad appoggiarci al paraurti
del camion che ci precede… fiuu! Stavolta ci è andata bene! Questo sole, oltre
che averlo sempre in faccia, disturba non soltanto perché non si è più
abituati, ma le strade velate dal ghiaccio sono un immenso specchio
riflettente, per cui il riverbero è accecante ed è davvero un’impresa riuscire
a vedere qualcosa più in là del cofano. Infatti, non riusciamo a vedere il
cartello con l’uscita per Pskov, per cui siamo costretti a farci tutta SPB, con
le sue trafficatissime prospettive e sciossèe (stradoni a 6 corsie), prima di
riuscire ad imboccare un’altra uscita per Pskov. SPB si conferma nuovamente
come una splendida città, ed anche l’architettura sovietica dei primi anni ’30
merita di essere rivalutata per la sua “modernità”. La maggioranza degli
edifici sono stati restaurati, per cui pare tutto nuovo, e pulito. Nota linguistica:
ricordarsi che STOP qua si pronuncia STAP. Fuori dal centro, in provincia, ci
sono numerosi baracchini che vendono rami di betulla ancora verdi, necessari per la “banja” (la
sauna), oppure bottiglioni di antigelo per parabrezza, che stanti le continue
nevicate e le pozzanghere in strada, vanno via come acqua fresca nel deserto.
Via dalla città, che anche in questa stagione è un’ “isola di calore” la
temperatura scende a -12°, sempre col sole che spacca e col nevischio di
lustrini. Passiamo per la cittadina di Medved (orso, un nome, una garanzia),
situata in mezzo alla foresta, e poco dopo incrociamo numerosi cartelli che
ammoniscono: “Occhio all’orso!”. Attraversiamo una selva di paesini grosso modo
tutti uguali, le dacie e le izbe si assomigliano tutte, però, a differenza
della Svezia (2000 km di casette identiche rosse e bianche), qui la gente si
diverte a dipingere le casette con vari colori, quindi in questo universo bianco
smalto almeno si rileva un po’ di vivacità. Quasi tutte, però, non hanno
l’acqua in casa… Sacche di povertà e miseria si rilevano ancora un po’
dappertutto, soprattutto tra la gente anziana: infatti lavorano tutti per
rimpinguare la misera pensione, chi spala la neve, chi fa il guardiano dei
parcheggi… I disastri di un impero perduto. Tra le decine di cose interessanti
che non riusciamo a vedere per la solita maledetta mancanza di tempo,
incontriamo anche la casa museo del compositore Nikolaj Rimski Korsakov!
UN TRAMONTO DI MADREPERLA
Proseguendo verso sud, ritroviamo un tramonto
classico, ma il colore che assume il cielo è particolarissimo: è di una
stupefacente tonalità di madreperla, tra il rosa ed il grigio perlaceo, la
stessa sfumatura che si ritrova nelle migliori scatole di Palekh! Il “russkij mir” non finisce di sorprenderci
con le sue magie, anche un tramonto ci riempie il cuore di struggimento come un
trascinante valzer di Čaikovskij… Il fiabesco crepuscolo ci accompagna lungo
tutta la strada per Pskov, che raggiungiamo ormai col buio inoltrato (ma siamo
ancora in pieno pomeriggio!).
HOTEL TRANZIT
Seguiamo le indicazioni per l’albergo “Tranzit”,
adiacente ad una stazione di polizia ed al locale aeroporto, scalo così
scalcinato da sembrare l’aeroporto della “Piccione Airlines”. Il Tranzit è un
albergo che, ai tempi dell’URSS, era destinato agli operai dell’attigua fabbrica
di materiale elettrico (lo intuiamo dalla targa posta sopra l’ingresso). La
camera è decente, color albicocca, il mobilio risale a vent’anni fa, è calda, ha
il wi-fi, un bel letto coi cuscini in piume, il bagno è spazioso e tutto in
azzurro, ma il piatto doccia ha una perdita, trasformando così il pavimento in
un lago dei cigni… I termosifoni, sempre di pesantissima ghisa (ed ormai
lubrico oggetto di desiderio per noi “occidentali”) in bagno sono celati in una
nicchia coperta da un copricalorifero tipo paglia di Vienna; dato che ho fatto
il bucato e voglio approfittare dei termosifoni per asciugare i panni, tolgo la
copertura e… vicino ai pesanti manufatti in ghisa, abbondantemente impolverati,
dalla muratura spunta un pulsante con una lucina rossa… un mezzo sorriso mi corre
per la faccia, pensando ai microfoni che, ai bei tempi, potevano celarsi
ovunque; ma forse, più semplicemente, è solamente il pulsante on-off dei
termosifoni elettrici… mettendo da parte complottismi da 007 “de’ noantri”, rimetto a posto la copertura, rassegnandomi a
tirare lo spago da bucato tra la doccia ed il porta-asciugamani; c’è già un
lago sul pavimento, il bucato gocciolante non farà poi questa grande
differenza…
Ceniamo (da soli) nel ristorante dell’albergo, al
piano terra, una sala lunga dal soffitto basso a mo’ di volta, con un’atmosfera
molto intima; ogni tavolo è illuminato da uno spot alogeno sovrastante mentre
il resto è tenuto in penombra, così che vediamo la cameriera solo all’ultimo
momento; dietro alle mie spalle, un albero di Natale (vero) con tante lucine,
addobbato con semplicità. Siamo decisamente affamati, quindi vai di tartine col
caviale rosso, soljanka bollente, šašlik (spiedini di carne) e patate fritte
passate nella salsa di funghi, le consuete 4 birre giganti alla spina, acqua, gelato
e vodka (cui segue la consueta domanda della cameriera: razione da 50 o 100
grammi?). Il tutto a meno di 30 euro. Rinfrancati, ce ne andiamo a poltrire tra
le piume, domani ci aspetta una giornata di relax, con visita del cremlino.
PSKOV, TRA CREMLINO, MONASTERI E…
PIOGGIA
Ci alziamo col frastuono dello spazzaneve, tutte le automobili
qua sotto ne sono ricoperte, ma, purtroppo, le previsioni del sito di ru-meteo
indicano per oggi… pioggia! Ma come! Nell’unica giornata che potevamo goderci
quattro passi! Il sito purtroppo ha ragione, ed infatti, poco dopo, la pioggia
arriva sul serio… Colazione nella zona bar (prosciutto, uova, tè forte, burro e
marmellata), con un vecchio cartone animato sovietico in tv. Usciamo
dall’albergo, non senza aver consegnato al vecchietto del parcheggio
dell’albergo (che fa tutt’uno col parcheggio della fabbrica) il consueto talòn,
che se lo conserva per poi restituircelo al nostro ritorno. Pioviggina, con un
cielo marzolino, gonfio di nubi baltiche. Parcheggiamo agevolmente vicino alle
mura del cremlino e comincia a piovere, con vento da sud-ovest, carico di
umidità marina. La temperatura si alza e arriva quasi a + 4°, rischiamo
seriamente di morire dal caldo! Purtroppo la pioggia non ci dà tregua, per cui
ci ripariamo all’interno della Cattedrale della Trinità (fondata nel 1138) e circondata
dal suo cremlino. Pskov è una meravigliosa cittadina risalente addirittura
all’anno 903, ed il suo centro storico è formato da una cerchia di 4 mura che costituiscono
i suoi cremlini (dal russo kreml’, fortezza), ed è punteggiata da una dozzina
di splendide chiesette, alcune anche risalenti al XV° e XVI° secolo. Il
cremlino, nel corso del XV° secolo, fu sottoposto a ben 26 assedi! Ecco dunque
la necessità di dotarlo di ulteriori murature sì da rendere la cittadina
impossibile da espugnare! La cupola della cattedrale della Trinità,
completamente dorata, nelle belle giornate di sole si può intravvedere anche a
30 km di distanza, tanto qua attorno è tutto piatto! L’interno è impreziosito
dalle due splendide tombe dei santi principi reggenti della città, Vsevolod e
Dovmont, vissuti nel XII° e XIII° secolo. Proprio in questa città, vennero
creati degli elementi di architettura che successivamente sarebbero stati
adottati da molte altre città di tutta la Rus’! La città è pulita, ordinata, e
molto trafficata, grande grosso modo, anche questa, come Trieste, con la sua
grande università e tanti palazzi storici rimessi a nuovo. Davanti
all’università, con un Lenin ispirato che regge delle carte in mano, c’è uno
studente impegnato nella realizzazione di un pupazzo di neve… ci sentiamo
ridicoli, noi infagottati nei giubbotti e calzoni imbottiti, lui in jeans e
semplice maglia leggera… è giovane ed è nato qui, è ovvio che per lui questa
temperatura è quasi primaverile! Ovviamente, con l’improvviso “disgelo” la neve
caduta fino a stanotte si scioglie, trasformando le strade ed i marciapiedi in
un dedalo di torrenti in piena, e la neve ridotta in poltiglia, mantecata dalle
automobili in transito, inzacchera tutto e tutti. E’ facile intuire che marzo
ed aprile, col vero disgelo, devono essere i mesi peggiori! All’ora di pranzo, anche
per ripararci dalla pioggia insistente, ci concediamo uno spuntino ai piani
alti del centro commerciale con vetrata panoramica sul giardino pubblico,
abbellito dalla statua di santa Ol’ga, una nobile locale andata in sposa a Igor
di Kiev, matrimonio che si fa risalire all’epoca della fondazione della città.
Rinfrancati, e constatato che la pioggia ci concede una finestra di tregua, ne
approfittiamo per due passi per la Oktjabrskaja Uliza, la via principale di
Pskov; attraversiamo il giardino
pubblico rendendo spiritoso omaggio ad un simpatico monumento al fabbro,
vediamo gli operai impegnati nel montaggio delle luminarie di Capodanno,
curiosiamo le vetrine e qualche negozio alla ricerca di qualche souvenir particolare,
ma purtroppo non troviamo niente che ci ispiri; passiamo accanto all’ufficio
delle poste e telecomunicazioni, involucro in cemento squadrato, ma dai
singolari altorilievi decorativi in simil-bronzo illustranti tutte le fasi
della comunicazione umana, dai “primitivi”, alla prima forma di parola diventata
legge, passando per il teatro antico, fino ai tempi bellici, ai primi
telegrafi, al satellite che permette la comunicazione tra persone distanti nel
mondo, per finire con un “ukas”, cioè un decreto scolpito in tutta la sua
gloria sulla facciata principale dell’edificio, che recita (con spicciola
traduzione) questo: “Decreto del Presidium del Soviet Supremo dell’URSS sulla
attribuzione, alla città di Pskov, dell'Ordine della Bandiera Rossa del Lavoro
per i successi conseguiti dai lavoratori della città per la gestione economica e
lo sviluppo culturale, notando il loro contributo al movimento rivoluzionario
nella lotta contro gli invasori fascisti tedeschi durante la Grande Guerra
Patriottica, premia Pskov con l’Ordine della Bandiera Rossa del lavoro. Mosca,
Cremlino, 19 marzo 1984”. Meglio tardi che mai, pensiamo noi… Proseguendo nel
nostro giretto, entriamo in una carto-libreria alla ricerca di qualche idea;
lasciamo lo zainetto negli appositi scaffetti e seguiamo delle orme di scarpe
sistemate sul pavimento a mò di percorso obbligato, sempre sotto l’occhio
vigile non solo delle telecamere di videosorveglianza, ma anche di severissimi
sguardi di ghiaccio delle commesse, quasi fossimo in una gioielleria.
Bighellonando tra gli scaffali ricolmi, seguiamo sempre le impronte impresse
sul pavimento, senza avvederci che stiamo entrando nella zona del magazzino; su
una parete, in alto tra gli scaffali, c’è la foto ufficiale del presidente
Putin, noi proseguiamo e subito ci viene il sospetto che siamo ormai nel
retrobottega; una zelante commessa in grembiule ci viene incontro, ed alle
nostre pronte scuse, ci risponde con un sorridente “nicevò, nicevò!”: significa
“niente, non fa niente”, ed in questo semplice avverbio si condensa tutta la
pazienza e la fatalità del popolo russo: “nicevò, non fa niente” pronunciato di
fronte alle avversità, ai ribaltamenti della fortuna, alle disgrazie di vario
genere, alle durezze di una vita che sembra sempre improntata al sacrificio.
“Nicevò”, non fa nulla, si tira avanti e si sopporta. Ma non si molla…
Prima che faccia buio, torniamo alla nostra auto, riprende
a piovere e non mi accorgo di aver perso il paraluce nella neve (che oggi mi
serviva per proteggere l’obiettivo dalla pioggia). Altro obolo per Matuška
Rossija… Rapido giro della Pskov by-night, forse ancora più suggestiva, con le
sue luminarie, le chiese ed i palazzi che si specchiano nel fiume Velikaja.
Ormai la giornata è finita, per cui rientriamo in albergo; il sito ru-meteo.ru
ci informa che domani avremo pieno sole e saremo nuovamente sottozero, a -8°
per la precisione; ottimo, così con tutta l’acqua che oggi inonda le strade,
domani ci ritroveremo a pattinare sul pack… Non ci resta che andarcene a cena
qui sotto, stavolta in tuta e ciabatte (come i locali…). Questa è l’ultima
notte in terra russa, e domani saremo nuovamente nelle sperdute lande baltiche.
Finito di cenare (stavolta, in compagnia di un’altra coppia ciabattata, in
fondo alla sala), tiriamo un po’ le somme e ci perdiamo in brindisi: al pilota,
all’auto, a noi due per l’organizzazione, la tenuta fisica e morale (5.743 km
di freddo, buio e neve continua, il tutto in un traffico bestiale fino in
Estonia), alla sottoscritta quale poliglotta da barzelletta, ed alla nostra
eterna madre Russia, che anche stavolta ci ha accolto nel suo abbraccio fatto
di strepitoso e rutilante inverno degno di questo nome, di cortesia,
educazione, gratificanti incontri, paesaggi da fiaba, ordine, pulizia, e la
soddisfazione di aver nuovamente visitato un minuscolo spicchio di questo Stato
che marcia spedito nella sua idea di progresso (anche se, purtroppo, spesso si
dimentica di qualcuno per strada) e prosegue nella sua personale visione della
vita, della società, del mondo. E’ chiaro che terminiamo i brindisi con un
groppo in gola. E’ logico che ci porteremo nel cuore tutto di questo viaggio,
come non abbiamo dimenticato nulla della nostra prima volta in terra russa, 8
anni fa, nulla abbiamo scordato della toccata e fuga a SPB di 4 anni fa. Nulla
verrà tralasciato, anche le piccole cose che sembrano di scarsa importanza,
tutto contribuisce a far cumulo di esperienze e, soprattutto, di emozioni, che
rimarranno marchiate a fuoco dentro di noi. E pensiamo già a quanto poterci
ritornare ancora, ancora, ancora e, rammentando nuovamente Majakovskij…
Come volevasi dimostrare… Il precisissimo sito ru-meteo
ieri sentenziava: per oggi a Pskov avrete un sole che spacca e 8° sottozero.
Infatti: durante la notte l’anticiclone russo-siberiano ha ripreso il
sopravvento, scacciando con la sua forza pressoria il cuneo ciclonico e
ributtandolo nel Baltico, per cui qua fuori il sole si fa largo in un cielo
terso e blu cobalto, il termometro indica -8° e le strade sono tutte un pack.
Stamattina abbiamo intravisto uno spargisale, pertanto i marciapiedi e le
strade laterali sono bloccate dalla morsa del ghiaccio, mentre le strade
principali sono sgombre. Scendiamo con i bagagli ed è una vera impresa
raggiungere la nostra auto senza rischiare di romperci una gamba. E’ tutto una
lastra di ghiaccio! Perfino il Patrol è stretto nella morsa del gelo: portiere,
maniglie, tergicristalli, vetri… tutto un blocco. Perderemo un po’ di tempo per
“sghiacciarlo” senza grossi problemi. Prima di andarcene dal parcheggio, si
avvicina il consueto vecchietto che rivuole il “talòn”, ci fa un sorriso a
rastrelliera e, in perfetto italiano, ci dice “arrivederci!”. Non abbiamo più
altro da dargli se non l’ultimo pocket-coffee rimastoci… L’alba arriva poco
dopo le 9.30, allontanandoci dal centro città passiamo pure davanti ad una
scuola Montessori, filiale di Pskov… mah. Ancora profonda, profondissima
Russia: dacie di tutti i tipi, izbe idem, qualcuna sprofondata nel fango,
qualche altra ben tenuta, ma tutte abitate, perfino una casupola che si
intuisce, dalla metratura, essere di una sola stanza, ma col numero civico ben
in vista all’ingresso e cavo della luce che arriva fin sul tetto. Crisi degli
alloggi? Boh… Senza ombra di dubbio, resistenza e tenacia non mancano a questo
popolo. Cerchiamo, purtroppo senza successo, di trovare il monumento,
recentissimo, eretto a S. Alexandr Nevskij, patrono di tutte le Russie, colui
che, nel marzo del 1242, in un’epica battaglia sul lago Pejpus/Čudskoje
completamente ghiacciato, sconfisse le armate teutoniche e protesse così la
sacralità del suolo ortodosso dall’invasione protestante; il regista Sergej
Eiženstejn gli ha dedicato un appassionato film, tutt’ora insuperato per la forza
ed il nitore di quelle splendide immagini in un bianco e nero accecante. Il
monumento sappiamo essere enorme, purtroppo le indicazioni stradali sono
inesistenti, le persone interpellate sono vaghe ed ognuno spara km a
piacimento, per cui non ci resta che fare dietrofront per avvicinarsi al
confine con la Lettonia, col sole ormai padrone incontrastato di questi cieli.
Arriviamo al confine alle ore 13.35, ora di Mosca, controllo dei documenti coi
soliti ragazzi in colbacco, poi arrivano le doganiere in gonna, stivali e
specchietto telescopico per controllare il fondo del Nissan. Siamo a -7° e tira
un vento gelido da tagliarci le dita. Siamo scesi con solamente addosso un
maglione ed un giubbino senza maniche, e così svestiti facciamo la trafila in
dogana, ma resistiamo stoicamente. All’ennesimo controllo documenti, la severa
doganiera ci fa cenno che possiamo anche rimetterci in auto per ripararci dal
freddo! Ne approfittiamo per indossare giubbotto e berretto, perché veramente
il vento è tagliente. Possiamo proseguire per l’ultimo controllo ai documenti,
dietro allo sportello (ma lo fanno apposta?) c’è la sorella russa di Cate
Blanchett, una bellissima donna dai capelli rossi e la frangetta rubacuori, due
fiori di lino al posto degli occhi, e ci sorride, mentre sfoglia i nostri
passaporti, si sincera dalle foto che siamo proprio noi quelli nascosti sotto
ai berretti, sempre con il sorriso pronuncia i nostri nomi, ritira la carta
d’immigrazione, ci appone il timbro d’uscita, ci saluta con un “goodbye” e sempre
con questo sorriso da pubblicità di dentifricio… ed a noi ci viene da piangere.
Sì, Matuška Rossija, abbiamo condiviso il freddo con te, e mai potremo smettere
di amarti.
BENVENUTI IN E.U. (sì, come no…).
Guadagniamo il confine lettone, controllo dei
documenti, poi possiamo procedere con la dogana; siamo in EU, quindi è
necessario compilare la dichiarazione di importazione: vodka, liquori,
sigarette, vino. Noi non abbiamo niente di tutto ciò. Non ci credono: due
italiani che tornano dalla Russia senza nemmeno una bottiglia di vodka? Una stecca di sigarette? Impossibile! Altra
domanda (sempre in inglese): ma non avete proprio niente? Ripetiamo di no.
Allora ci fanno aprire il baule; solito controllo sommario del contenuto, poi
il biondino anglofono ci domanda che cos’è questo, indicando il contenitore
grigio; il frigo, rispondo. Lo apriamo, il biondino tira fuori il “ghiacciolo”
di plastica blu e ci domanda cos’è (argh!). Poi si accorge che dentro al frigo
riposano un salame, un pezzo di grana padano sigillato, un trancio di
prosciutto crudo ancora sigillato, praticamente le nostre provviste per le
emergenze. Ci dice che non si possono importare in Lettonia. Gli spieghiamo che
non stiamo importando niente, questa è roba italiana, ancora sigillata, che ha
fatto andata e ritorno sempre richiusa nella propria busta, non è roba russa, e
gli mostriamo le etichette con le scritte in italiano ed il prezzo in euro…
Inutile. No, risponde lui irremovibile, dalla Russia non si può importare né
carne, né latte, né derivati, e mi indica un cartello in 4 lingue dove dai
pittogrammi a stento si riesce a distinguere un cartone del latte, per il resto
bisogna armarsi di notevole fantasia per indovinarne il significato… Insistiamo
col mostrargli che è roba italiana per giunta sigillata. Niente da fare, “law
is law”, ci ripete fermamente, per cui il tutto diventa semplicemente “trash”.
Ah, sì? Bene: allora Max prende una taglierina, va verso i bidoni del “trash”,
apre la confezione del prosciutto crudo, lo taglia a pezzi e butta tutto nel
bidone, idem col salame. Se li volete voi, ripescateveli dai rifiuti. Benvenuti
in UE. Quello che ci sfugge, però, è il motivo per il quale ci hanno lasciato
il grana padano… Sensi di colpa? Disattenzione? Ah, misteri. Intanto che
attendo in restituzione i passaporti, mi si avvicina un distinto sessantenne
russo in loden, in attesa di entrare nel suo Paese, mi chiede in inglese da
dove veniamo, se siamo andati in Russia per lavoro… di norma vedo di non dare
troppa confidenza se l’interlocutore non fa il camionista e non si chiama
Alexei, pertanto rimango sul vago e gli dico che siamo semplici viaggiatori
innamorati della Russia… ribatte che siamo davvero coraggiosi, per essere
arrivati fin là e d’inverno… poi aggiunge, con aria greve e partecipata, che ha
sentito che in Italia è un brutto momento, per il governo (si è da poco tenuto
il referendum costituzionale, con conseguente batosta per la maggioranza)…
abbozzo, ma se sapesse lui quanto ci frega del referendum a noialtri in questo
momento, se pensiamo al prosciutto crudo ed al salame intonsi buttati in
discarica per idiote ed assurde regole europee che proprio tutti i nostri
governi hanno tacitamente approvato! A sapere un tanto, li avremmo regalati al
vecchietto parcheggiatore di Pskov, così da far contento lui e la sua famiglia
per le feste di Capodanno! Argh!
DISCARILAND
Ore 13.50 (ora di Riga), siamo in Lettonia, strade in
pessime condizioni e cumuli di immondizia dappertutto. Che bel biglietto da
visita, bella immagine evoluta che diamo ai russi! Davvero edificante, c’è da
andarne fieri. Sorpassiamo lo Stato-francobollo ed arriviamo in Lituania, dove
ci accorgiamo, dai tabelloni stradali, che per transitare qui, non serve la
vignetta. Chiediamo lumi alla tizia del baracchino apposito (parla solamente in
lituano e un po’ di russo, e non si sforza di più); Max viene avvicinato da un
camionista ucraino, il quale gli conferma che per le automobili la vignetta non
è necessaria, realizziamo così che all’andata la tizia ci ha fregato 11 euro…
Nel buio, oltrepassiamo Vilnius per fermarci a metà strada tra Vilnius e
Kaunas, alla ricerca di un posto qualsiasi dove buttare le nostre carcasse,
ormai con 6.300 km alle spalle. Un cartello dice “Tony resort”. Non è il “Tony”
ad insospettirci, quanto l’abbinamento tra il nomignolo confidenziale e rustico
con la parola “resort” che tutto sta ad indicare all’infuori di una sistemazione
popolare… Stiamo a 6° sottozero, la strada è tutta un pack, seguiamo le indicazioni
che ci portano ad inerpicarci in una splendida pineta completamente glassata di
ghiaccio, e per raggiungere la reception dobbiamo lasciare l’auto in un
parcheggio sottostante (tutta una crosta gelida) e salire una scalinata in
legno precariamente illuminata, completamente ghiacciata anche questa.
Rivolgendo silenziose preghiere a S. Cristoforo, patrono dei viaggiatori,
perché ci salvi da una frattura assicurata, ci inerpichiamo agguantati al
corrimano. Finalmente, arriviamo in cima al monticello e facciamo il nostro
ingresso alla reception, modernissima. Scopriamo che siamo in bassa stagione,
periodo di sconti, per cui con poco più di 60 euro ci assegnano una camera al
primo piano con colazione inclusa. Chiavi in mano, ci dirigiamo verso la nostra
camera, che non sta in questo edificio, ma in singolari costruzioni ellittiche,
coi muri esterni ricoperti da centinaia di scandole in legno, da raggiungere
attraverso la pineta, ovviamente ghiacciata. Entriamo nell’ingresso, saliamo
una stretta scala a chiocciola e ci troviamo in una modernissima camera,
dall’impronta maschile, tutta in legno grigio e testa di moro, arredamento
Calligaris, lenzuola italiane grigio perla in rasatello, riscaldamento a
pavimento, illuminazione soffusa ad incasso, mega vetrata con vista sulla
pineta. Davvero stupendo. Ah, c’è una pecca: il cristallo del
tavolino-scrivania è stato montato al contrario… Allarghiamo le braccia e
facciamo un sospirone, vabbè, pazienza, ci passeremo sopra… J Scendiamo per la cena, la sala ristorante è situata
nell’edificio con la reception, in un piano ribassato che segue la morfologia
della collinetta sul quale è costruito l’edificio; enormi vetrate anche qui,
grande uso di legno al grezzo e vetro, ottima illuminazione. Ci concediamo due
bistecche di angus serviteci ancora sfrigolanti direttamente nella loro
padellina in ghisa, verdure alla piastra e birre locali, forse un pochino
troppo amarognole, ma decisamente beverine… Ovviamente, ci pregustiamo una
dormita da papa, nonostante il cruccio del ripiano del tavolino montato al
contrario…
BENVENUTI IN ABSURDISTAN!
Dopo una sazia colazione nella medesima sala di ieri
sera, gustandoci anche il panorama della foresta ghiacciata che intravvediamo
dai finestroni (sì, indubbiamente questo posto è fantastico!), a 9 gradi
sottozero raggiungiamo il povero Patrol, ormai diventato un iceberg. Giornata
splendida, e, come talpe, facciamo ancora fatica ad abituarci a tanta luce!
Aiuto! Partiamo alla volta della Polonia. Per quanto ci riguarda, questi stati
baltici, al di fuori delle capitali (che non abbiamo visto) per il momento sono
stati una mezza delusione, dato che non sembrano offrire null’altro che
campagna povera e qualche foresta. Peccato, magari un giorno ci ritorneremo per
cercare una smentita. Siamo sempre all’interno dello spazio Schengen, per cui
il nostro ingresso in Polonia risulta liscio e tranquillo. E si vede che siamo
in Polonia: più pulizia, strade ottime, cartelli stradali enormi che li
vedrebbe anche un orbo (TIR ostruisci-visuale a parte), paesaggio interessante
anche d’inverno. Ma col solito traffico pesante bestiale e snervante. Verso le
17.00 la stanchezza di Max inizia a farsi sentire, per cui approfittiamo di uno
dei tanti motel che si trovano a bordo strada, ad un centinaio di km da
Lublino. Farsi capire è dura, l’inglese anche qua, come in Russia, è poco
frequentato, ma non ci perdiamo sicuramente d’animo: se ci metti dentro due
parole di russo, con sollievo generale, ti vengono incontro col polacco che un
po’ ci rassomiglia, poi ci si comprende anche a gesti e, nonostante sia stanca
anch’io, mi sovviene anche qualche parola di polacco imparata nel 2009, così
riusciamo a capirci per la camera, la colazione, la cena, dove andare a pagare,
il tutto senza difficoltà, i polacchi sono pazienti. Ceniamo là, il menù è
rigorosamente in polacco, ma sempre di lingua slava si tratta, per cui, convertendolo
in russo con un poco di fantasia, ecco che salta fuori una cena composta da
zuppa di pomodoro, insalata mista con petto di pollo grigliato, uova, pomodori,
salsa tartara e per Max una bistecca, via di mezzo tra una milanese ed una
ljublijanska… le birre solo in bottiglia, purtroppo a temperatura ambiente,
perciò… calde! Aarghh! Le birre calde no! Che orrore… peggio del tavolino
montato al contrario. Saliamo in camera, semplice però munita di bagno spazioso,
e caldissima, con vista direttamente sulla pompa di benzina e pattuglia della
polizia stradale che controlla minuziosamente i documenti di un carro bestiame che
trasporta vitelli vivi, tristemente mugghianti. Domani ci attende la
Slovacchia.
ŻIWIEC POLSKA!
Massì, sempre viva Polonia, anche se ti lasciamo col
poco felice ricordo del tuo essere un cantiere infinito, con una selva di
strade in rimessaggio e la costruzione di nuovi svincoli, sottopassi, rotonde,
bretelle, collegamenti, raccordi, mezzerie, cavalcavia, ecc ecc ecc, dei quali
due quinti si perdono nelle statali, altri due quinti si diluiscono nelle
campagne ed il restante quinto muore nelle strade mai rimesse a nuovo dai tempi
di Jaruzelski; tanto sono fondi UE, pertanto per non perdere i fondi strutturali,
si asfalta pure in dicembre, col buio delle 16.00, a 4° sottozero…
SLOVACCHIA, TRA LUSSO E DEGRADO
Arriviamo al confine slovacco per acquistare la
vignetta, ora siamo a 6 gradi sottozero sotto ad una impercettibile nevicata. A
Prešov troviamo un alloggio di fortuna incassato in città: trattasi dell’hotel
Enchantè, cortesissimo personale anglofono tutto al maschile. Tanti quadri naïf
dappertutto, in vendita. Dopo una piccola battaglia con la chiave elettronica
(difettosa), entriamo in quella che non è una camera, ma una vera e propria
suite: divano di pelle bianca, tappeti, mega letto, finestrone panoramiche,
architettura moderna ma decisamente accattivante e molto accogliente nel
mescolare legno, metallo, vetro; c’è un vano guardaroba, poggiolo, e, meraviglia,
un bagno a mosaico con doccia da un lato ed una mega vasca biposto, biancheria
da bagno come se piovesse… davvero, quest’anno più degli altri passiamo dalle
stelle alle stalle e viceversa. Questo posto è sul serio un incanto! Decidiamo
di scendere subito per la cena, dove scegliamo un succulento gulaš (troppe
carote, sentenzia Max, io aggiungo che nel gulaš – secondo la vera ricetta ungherese
- non ci vanno le carote…) e ci rinfranchiamo con le sempre ottime birre
slovacche, in un ambiente intimo e tranquillo, con una rosa (finta) gentilmente
sistemata nel portatovagliolo, sempre circondati da questi quadri naïf con
soggetti campestri e contadini; le pietanze vengono servite con classe e con
molto gusto nella presentazione. E anche qua, sconto perché siamo in bassa
stagione! Uh! Finita l’ottima cena, ci concediamo, finalmente, un meritatissimo
e rilassantissimo bagno bollente con birretta della staffa a bordo vasca
perché, giusto per amor di cronaca, abbiamo oltre 7.200 km sotto al sedere, di
cui 3.500 su neve e ghiaccio… Il giorno dopo partiamo, riposatissimi e
coccolati dall’Enchantè, alla volta di Bratislava, ma quello che ci si para
incontro non è uno scenario troppo accattivante: già in periferia della
capitale, il casino è impossibile, troppo traffico e davvero troppi, troppi individui
poco raccomandabili, non vogliamo rischiare, a questo punto del viaggio, un
furto o un danno all’auto. Durante la discesa verso l’Austria, lungo la strada
incontriamo una sequela di locali e localini che propongono “hot experience” e
“strip-bar”; giusto per ribadire il concetto, ci imbattiamo perfino in una
cittadina che di nome fa “Figa”. Un nome, una garanzia! Si ritorna in un certo
degrado del quale, fino a questo momento, non sentivamo certo la mancanza,
pertanto ci dirigiamo direttamente alla volta di Graz, dove ci fermeremo per
due notti a riposarci ancora e magari trastullarci nei mercatini di Natale.
“ALLE IN GRAZ!”
Sembra che mezza Mitteleuropa abbia deciso di venire a
trastullarsi qua, pertanto il traffico è disumano, spostarci col nostro mezzo
nelle stradine ZTL è un’impresa improba, e non ci resta che cercare alloggio
fuori città. Troviamo un motel insignificante nei pressi dell’aeroporto, coi
letti talmente addossati all’ingresso della camera che sembra di stare a
dormire in corridoio, sentiamo i rumori di tutti gli altri clienti, la doccia
ha la spaziosità di una cabina telefonica, ma siamo davvero troppo stanchi per
cercare altro… d’altronde, per 26 euro a cranio con colazione a buffet e wi-fi
gratis, non possiamo certo pretendere di più…
“MA CHE COSA CI FACCIAMO QUI?”
Ci svegliamo intontiti, il nostro sonno è stato
interrotto più volte da manipoli di ragazze ubriache schiamazzanti per i
corridoi. Le pesanti tende sui finestroni della nostra camera celano una luce
solare violenta, alla quale facciamo davvero fatica ad abituarci. Scendiamo a
far colazione nella veranda, ammiccando gli occhi perché davvero, dopo 10
giorni di buio totale, la normalissima aurora austriaca ci fa sentire come
pipistrelli tirati fuori a forza dalla loro grotta. Fatta una colazione del
tutto trascurabile, ci dirigiamo al parcheggio per raggiungere Graz e ci
accorgiamo che l’altra ruota posteriore del nostro Patrol è completamente a
terra. Di nuovo! Col compressore portatile, gli diamo una pompata, necessaria
almeno per raggiungere un gommista, ma oggi è sabato e sono tutti chiusi.
Constatato che la gomma non perde troppo, in un distributore di benzina,
pompiamo meglio la ruota, perché tenga almeno fino al nostro ritorno a casa, in
attesa di portarla dal gommista. Igor di Petrozavodsk, dove sei? Assicurandoci nuovamente
che la gomma tiene, ci dirigiamo alla volta del centro storico di Graz per
gustarci un po’ di spirito natalizio, qui davvero sentito e glorificato, nel
senso che la città è un immenso filare di lucine e stelline a santificare il
dio commercio… Sabato di inizio dicembre, il momento migliore per girare per il
centro storico di Graz: troppa gente, un brulicare di persone alla quale non
siamo più abituati; fila dappertutto, fila mostruosa alla funicolare per
raggiungere il castello, fila inumana alla scalinata attigua; rinunciamo. In
compenso, però, di bancarelle natalizie ne troviamo pochissime! Ci facciamo
largo nella folla di italiani chiassosi, troviamo un gasthof dove facciamo uno
spuntino (all’aperto, ovvio!) con birra e patatine; che vuoi che siano 9 gradi
positivi per noi? Col sole, poi! Ormai siamo temprati! Quello che non ci torna,
invece, è come mai siamo nella città patria della Puntigamer e dove ci
voltiamo, ci offrono soltanto Gösser… Finito lo spuntino, altro giro per il
centro storico, ci infiliamo nel fiume umano e, sinceramente, ci sentiamo un
po’ spaesati da tanta folla e, dato che il mondo è davvero piccolo, in tutta
questa moltitudine incontriamo anche la titolare della ditta di Max, rapita
dallo shopping pure lei! Foto di rito! Girovagando, ammiriamo i tram che
sembrano navette spaziali per tanto sono moderni, lustri ed aerodinamici. Un
paio di ricordini natalizi li acquistiamo anche noi per amici e parenti. In serata, per la cena, andiamo a farci
coccolare nella birreria Puntigamer, bellissima, enorme, affollata. Ripensiamo,
tra un boccale e l’altro, a tutto il nostro viaggio; al difficile riabituarsi
alla luce, al caldo, alle strade senza neve, alla gente; che da domani
torneremo alla vita di tutti i giorni. Al fatto che siamo sempre coi giorni
contati e facciamo i salti mortali per infilarci dentro quanti più km
possibili, purtroppo sacrificando tonnellate di cose da vedere perché non
abbiamo il tempo materiale per godercele.
TORNANDO A CASA
Si parte con un sole che giudichiamo ancora
fastidioso, sempre ormai verso sud, inesorabilmente verso sud, quasi che una
forza superiore di gravità ci attiri a sé, verso casa. Di voglia di parlare ce
n’è poca, un po’ per la stanchezza, un po’ perché abbiamo la testa infarcita di
migliaia di chilometri stratificati sulle emozioni, un po’ perché… l’avventura
è finita e quindi il senso di malinconia ci attanaglia, come al solito. Perciò
ci lasciamo trasportare, come una palla da biliardo, sulle autostrade
austriache per poi scollinare al valico di Tarvisio, e siamo nuovamente in
Italia. In tutto questo immenso andare, il cupo rombo del motore è stata la
nostra colonna sonora. Niente finestrini aperti, stavolta. Siamo andati e
tornati praticamente sigillati nel nostro abitacolo, ma con l’orecchio attento
a percepire ogni singolo cambio di rumore dovuto al fondo stradale più o meno
innevato, più o meno ghiacciato, ogni vibrazione ci raccontava qualcosa in più
della strada che avevamo sotto le ruote, con la neve che giocoforza attutiva
tutto; e l’abitacolo (tolte le ore notturne) è stato praticamente la nostra
casa per 18 giorni consecutivi, tutto a portata di mano, un confortevole nido
tiepido che ci ha consentito di trasformare questa avventura in un ennesimo
sogno realizzato. Col buio del pomeriggio nostrano, non possiamo non chiudere
il nostro viaggio con una foto scattata, come da tradizione, nelle vicinanze di
casa nostra; siamo andati e siamo tornati, come sempre. Ma andare e tornare
dall’Artico russo, in pieno inverno, non è cosa da tutti i giorni, non è cosa
da tutti gli anni. Ci concediamo un autoritratto assieme al nostro Patrol, il
vero protagonista di tutte le nostre avventure, senza il quale non saremmo mai
riusciti a macinare quasi 8.500 km. E stavolta ci sentiamo anche noi un po’… eroi
di Murmansk.
A CASA
E’ lunedì, un qualsiasi lunedì di metà dicembre; con
difficoltà si riprende con il lavoro, la routine; lo sappiamo già, per qualche
tempo vivremo ancora di rendita, tutto il nostro essere è ancora in modalità
viaggio, non è semplice chiudere con quest’esperienza intensa, magica, unica; e
dentro noi in questi giorni si affaccia, chiara e limpida, la consapevolezza di
scoprire che ogni cosa che ci circonda, per il momento, assume scarsa
importanza. Max sparisce già prima dell’alba ed io lo ritrovo solamente alla
sera, quando sono l’ultima a ritornare dal lavoro. Non ci vediamo da più di 12
ore, dopo 18 giorni passati (finalmente!) assieme h/24. Siamo tutt’ora in
“surplace”, abbiamo le pupille ancora a forma di fiocco di neve. Non faccio in
tempo a togliermi il giubbotto che ci abbracciamo stretti in silenzio e ci
guardiamo negli occhi senza dirci nulla, ma sorridendoci complici per lunghi
istanti, telegrafandoci con lo sguardo una sola frase: “CE L’ABBIAMO FATTA!”
TTT
25.12.16
Nemmeno 15 giorni dopo il nostro ritorno, un’ennesima
immane tragedia colpisce nuovamente il popolo russo: proprio nel giorno del
nostro Santo Natale, il famosissimo Coro dell’Armata Rossa viene praticamente
sterminato dal disastro aereo di Soci. Basiti ed increduli, da questo blog
vogliamo rendere omaggio alle povere ed innocenti vittime: il nostro pensiero e
le nostre preghiere vanno a chi non c’è più ed alle loro famiglie, vi siamo
vicini nel profondo dolore. Con le vostre magnifiche voci sarete sempre nei
nostri cuori. Slava, Rossija!
15 commenti:
io penso che un diario di viaggio, affinché sia stimolante, deve riuscire ad essere coinvolgente, racchiudere cioè nelle sue righe la capacità di includere il lettore nell'avventura che racconta
questo, alternando la paesaggistica a "briciole di simpatici pettegolezzi" del luogo, è riuscito nell'intento
non esito perciò a complimentarmi con chi,prima ha vissuto l'impresa e poi l'ha raccontata
ornella
Ciao Ornella, ti ringraziamo davvero di cuore per aver letto il nostro racconto e complimenti per la tenacia! Ci sforziamo davvero per far sentire chi ci legge come nostro compagno di viaggio, sia pur “in differita”. L’intento è proprio questo: coinvolgere il lettore nelle nostre avventure di viaggiatori curiosi, evitando il più possibile i luoghi comuni e le banalità che, giocoforza, si annidano dappertutto. Riteniamo perciò che anche “i simpatici pettegolezzi del luogo” possano fornire un’idea dei posti da noi attraversati, forse più di tante fotografie!
semplicemente stupendo .... siete dei avventurieri ... e una coppia fantastica ... avanti cosi :) maria grazia
Carissima Maria Grazia, il tuo commento non può che farci piacere, soprattutto per quanto riguarda la "coppia fantastica"... è che tu non conosci i retroscena! Ma per due individui che non si vedono praticamente mai per tutto il corso dell'anno, e che si ritrovano,una tantum, a condividere la vita chiusi in un abitacolo per 150 ore (e mezzo) di seguito, e senza possibilità di fuga... credimi, è dura! Ma chi la dura, la vince, e noi, modestamente... l'abbiamo vinta! Pertanto, fino a quando ne avremo la possibilità, continueremo a condividere i nostri viaggi con voi!
Certo che questo viaggio è incredibile. Si sta avvicinando la stagione invernale.... quasi da non credere! Complimenti, non so se riuscirò a pensarci .... seriamente.... vorrei imitarvi ma ... è molto difficile.
Hai ragione Erik, è stato proprio un viaggio incredibile, e alla fine, è risultato il più intenso, sotto tutti i punti di vista! Quello che ci ha tolto più energie fra quelli affrontati finora. E’ stato anche però, quello che ci ha regalato le emozioni più forti, a pari merito solo al nostro primo viaggio nel lontano 2008.
Fra pochi giorni capiterà, e sarà inevitabile, ripassare mentalmente i luoghi e tutte le persone incontrate un anno fa. E so benissimo fin d’ora, che ci assalirà una sorta di malinconia.
Se posso permettermi di darti un consiglio, quando hai un progetto in atto e ci stai lavorando sopra, piuttosto ridimensionalo un pochettino se non ti senti sicuro al 100% di portarlo a termine, ma non rinunciarci mai. Un sogno, non dovrebbe mai essere spezzato.
Imitare qualcuno… in qualche frangente, potrebbe diventare addirittura pericoloso, o inutile, o senza senso. Fatti piuttosto una tua esperienza personale e vedrai che senza ombra di dubbio, diventerà unica nel suo genere e ne sarai orgogliosissimo.
A presto
Max
Che viaggio, ragazzi!! Ma come vi è venuto in mente di andarci in inverno? Ah, sì: per farci vedere le foto! E avete fatto bene! Foto così non se ne vedono facilmente, la vita quotidiana in mezzo ad un colore solo. Il BIANCO. Mi avete fatto venire voglia. Non di partire (non ce la farei...) ma di una bella e abbondante nevicata, che avvolga tutto, che smorzi i rumori della città e di sentirmi un po' anche qui, a casa mia, nel grande Nord, sperando che le difficoltà che il ghiaccio impone alla vita di tutti riporti un po' di solidarietà e cameratismo pure tra vicini di casa.... Ciao!
Grazie Giorgia.
Ci siamo andati per vedere l’effetto che fa! Perché era una sfida enorme per noi, per vedere di che cosa siamo capaci e perché la Russia stessa è sinonimo di inverno, e non si può omaggiarla che così! E speriamo davvero che stavolta nevichi anche qua! Grazie per il commento e continua a seguirci!
Fantastico viaggio, per tutta la lettura ho avuto l'impressione di viaggiare con voi. Le descrizioni così puntuali e magnifiche mi hanno fatto vedere quei luoghi, sentire con veri brividi quel freddo, provare le stesse emozioni ad una caduta di polvere di stelle, all'alba di madreperla, ai fiocchi di neve così ben disegnati. Ho conosciuto luoghi di cui non sapevo l'esistenza. E le bellissime foto che sembrano cartoline e inquadrature di film, hanno completato il viaggio. Grazie davvero, è stato un piacere viaggiare con voi.
Grazie Francesca, siamo felicissimi di averti fatto viaggiare con noi in luoghi e destinazioni dei quali non sapevi l'esistenza! Scegliere mete e destinazioni insolite e poco conosciute dal grande pubblico ci dà grande soddisfazione, ma ancora più grande soddisfazione è sapere che chi ci legge è parimenti entusiasta delle nostre scelte, e l'entusiasmo dimostrato nei commenti come il tuo e degli altri lettori ci sprona a continuare nella ricerca di mete insolite che possano stupire e meravigliare! Ancora grazie per aver letto il nostro racconto di viaggio e saremmo felici di ricevere i tuoi commenti anche sugli altri viaggi da noi affrontati! Approfittiamo inoltre, di augurare una buona e serena Pasqua a te e alla tua famiglia!
Abbiamo inseguito per ben due anni il sogno di scoprire questa città, posizionata sulla costa settentrionale della Penisola di Kola. Infatti, durante il viaggio a Capo Nord, avevamo sfiorato il confine che poi successivamente ci avrebbe permesso di raggiungere Murmansk in solitaria. Per noi era veramente un sogno arrivarci! La Russia è sempre un Paese meraviglioso da visitare, ma senza neve, forse, perde un po’ del suo tradizionale fascino. Siamo partiti sperando di incontrare un inizio inverno degno del suo nome. E’ stato veramente il viaggio più stancante, il più misterioso, quello che ci ha tolto più energie, ma sicuramente quello che ci ha regalato le soddisfazioni maggiori.
Abbiamo scoperto che vivere e lavorare nella più grande città al mondo situata ben 220 km. oltre il Circolo Polare Artico, non comporta nessun tipo di disagio. Abbiamo visto squadre di operai asfaltare strade alle 10 di sera, persone che spalano la neve a mano con grandi pale e senza l’ausilio meccanico, negozi aperti e funzionali, allegri bambini che giocano senza nessun problema nel giardino della scuola con un forte vento ed una nevicata a -10°C! In Italia tutto ciò è quasi inconcepibile! Tutto quanto abbiamo visto è stato incredibile ai nostri occhi non abituati a queste latitudini. Ma sappiamo per certo che un giorno ci ritorneremo!
Grazie per aver letto il nostro blog!
Jeg elsket å lese om Murmansk, jeg bodde ikke der, men livet i nord er fantastisk og vi kan gjøre alt om vinteren: sykle, gå
Barbara
(commento ritrovato dall'amministratore del blog, postato il 04 luglio 2019 14:39)
Ho trovato tutto in questa frase: "tornare a casa non con il conteggio delle cose viste, quanto con la consapevolezza del "peso" delle stesse".
Bravissimo/a chi ha scritto questa frase....
Sara
Ciao Sara, e grazie per averci letto e scritto!
Questa frase, che ci è venuta così spontanea, riflette e condensa tutta l'esperienza maturata in questi anni di viaggi, non da semplici turisti, ma da viaggiatori consapevoli, che affrontano orizzonti inusuali e faticosi, smarcandoci appunto da quella "leggerezza" tipica di chi in vacanza ci va solamente per staccare e poi ritorna con il conteggio delle cose viste e fatte da raccontare ad amici e parenti; in tutte le "cose" noi cerchiamo il significato, che si manifesta appunto nel valutare il "peso" delle stesse, cioè l'importanza che assumono nel luogo attraversato, nei suoi aspetti sociali, ambientali, esistenziali e, in definitiva, di quanto queste "cose" influiscano pure su noi stessi, forse cambiandoci, forse maturandoci, sicuramente lasciando traccia nei nostri cuori e, speriamo, in quelli di chi si imbarca con noi leggendo le nostre avventure.
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