Incontri coi popoli

Incontri coi popoli
Incontri coi popoli

Murmansk 2016

8.472 Km in 19 giorni, 159,50 ore di guida fra 10 Stati, 8 capitali, Circolo Polare Artico e 2 fusi orari
rilevazioni effettuate con il navigatore cartografico GARMIN GPSMAP 60CS
(clicca sulla cartina per ingrandire)



L'avventura artica in foto   (clicca qui)


MURMANSK 2016


NON C’E DUE SENZA TRE

Non ne potevamo più. Fermi. A casa. Per due anni, causa grosso imprevisto. E dopo 14 mesi dall’ultimo periodo di ferie, anche questo passato a casa. La voglia di partire - come sempre, tanta - stavolta si è fatta urgente, vitale, inderogabile. Siamo caduti e ci siamo rialzati. Abbiamo affrontato dei sacrifici. E questi sacrifici non potevano non avere come coronamento se non il Paese che più di tutti ci ha rapito l’anima: la Russia. D’inverno. In macchina. Oltre il Circolo Polare Artico. Ed un nome che profuma di vittoria e di riscatto: Murmansk! La città più grande al mondo oltre il Circolo Polare. Due anni prima, ne avevamo intravisto il nome su un cartello stradale in Finlandia, ed avevamo sognato il momento nel quale ci saremmo arrivati sul serio, a Murmansk. Due anni per elaborare quanto accadutoci e maturare l’idea di questo viaggio, davvero un “pensiero stupendo”. Raggiungere quell’avamposto artico da soli, con le nostre sole forze, senza guide, senza sponsor, senza agenzie turistiche alle spalle. A distanza di oltre 24 mesi dall’ultima avventura, questo doveva essere il nostro meritatissimo premio. Rimetterci in gioco, dimostrare quanto siamo capaci di organizzare una spedizione artica in invernale, quanto siamo disposti a spenderci in sacrificio, sapendo in anteprima che non sarà un viaggio facile, né di piacere: sempre al freddo, sempre al buio, sempre di corsa. Mai come stavolta, siamo stati ostaggio dell’ansia da partenza, tramutatasi in pensieri oscuri, con corollario di mille dubbi e timori: il timore di affrontare migliaia di km su strade con neve e gelo; il pensiero della fatica, mentale ed anche fisica; il dubbio dell’affrontare ore ed ore di guida nel buio e in condizioni atmosferiche precarie; il timore (mai provato prima) di non farcela, fosco sentimento che si faceva più denso e colloso man mano che si avvicinava il giorno della partenza. Per contrappasso, la razionalità lucida che, per reazione, si incuneava tra i pensieri negativi mettendoci davanti al fatto compiuto: troppo tardi per tirarsi indietro; se lo facessimo, ora, non ne saremmo più venuti fuori dal brutto incubo nel quale eravamo precipitati. Non possiamo sapere come andrà, possiamo solamente immaginarlo, e l’unica risposta ai nostri dubbi ce la darà la strada, chilometro dopo chilometro; solamente sul campo scopriremo se e quanto i nostri timori saranno fondati. Gli ultimi giorni a casa li abbiamo passati in “surplace”, respiri profondi e bocce ferme. Riflettiamo sulle motivazioni che ci spingono ad affrontare questa avventura: la voglia di non dargliela vinta alle avversità della vita sarà il nostro motore, l’entusiasmo il nostro carburante, la fascinazione per questa terra sconfinata e fuori scala il vettore, il motivo principe e sovrano. Se la Russia si può paragonare ad un immenso oceano e le sue città come a delle isole, allora possiamo a ben ragione considerarci dei navigatori di terra, ed è proprio la terra, quella terra, che irresistibilmente ci chiama a sé, a quattro anni dall’ultima volta che ne abbiamo calpestato il suolo. “Ma perché d’inverno?” ci è stato chiesto da più parti. Ah, chissà… Sarà perché noi due siamo nati nel pieno dell’inverno e la “brutta stagione” ce l’abbiamo dentro? Sarà perché ci piace il gusto della sfida, soprattutto della sfida con noi stessi? Perché ci piace metterci in gioco e vedere di cosa siamo capaci? Perché le cose facili non hanno lo stesso sapore? Perché dici Russia ed immediatamente ti viene un brivido di freddo? Sarà che forse noi dalla Russia non riusciamo a starne lontani troppo a lungo… e chissà, forse anche la Russia non riesce a star troppo tempo senza di noi? In fondo, ci piace pensarlo…

TTT

UN VIAGGIO NEL BUIO E NEL SILENZIO

Diciotto giorni. Come al solito, non riusciamo a raggranellarne di più. La sfida nella sfida: ce la faremo a raggiungere l’estremo Artico russo in inverno, con condizioni meteo proibitive, “toccare con mano”  la città di Murmansk ed avere il tempo necessario per tornare indietro rispettando la tabella di marcia, e, magari, anche a vedere qualcosa? Le incognite sono numerose, ma non ci facciamo scoraggiare: solamente partendo ed affrontando questo ennesimo raid sulla verticale d’Europa potremo scoprirlo; sono 10 gli Stati da attraversare tra andata  e ritorno. Una sfacchinata, come al solito, e per la maggioranza sono mere tappe di avvicinamento; il traguardo è nella mitica penisola di Kola, mare di Barents, e per goderci la città almeno una giornata intera dobbiamo galoppare attraverso mezza Europa con qualsiasi condizione climatica. Siamo attrezzati, l’inverno non ci spaventa, anche perché ormai sembra quasi la nostra dimensione. Il portabagagli è strapieno di attrezzi: oltre al solito materiale (cinghie, cavi, compressore, accessori per il verricello, ecc. ) che occupa un baule enorme, stavolta ci aggiungiamo anche le catene da neve per le 4 ruote, avvitatore a batteria e chiodi per le gomme, potenti lampade per rischiarare il buio più profondo, pala per spalare la neve all’occorrenza, due borsoni di abiti pesanti e sacchi a pelo (che purtroppo portano via molto spazio) e, immancabile, il nostro frigo, ripieno di generi di conforto altamente sostanziosi, casomai non trovassimo un posto dove dormire o dove mangiare. Come al solito, nulla è lasciato al caso, l’improvvisazione e l’approssimazione non trovano posto tra le nostre masserizie. Se i nostri viaggi sono sempre calcolati al millimetro, a maggior ragione la spedizione artica di quest’anno dev’essere ancora più meticolosa. Per strada, ripensiamo a quanti, nei pressi della partenza, ci dicevano: “Ma chi ve lo fa fare?”. Mah, non lo sappiamo se dietro alla nostra decisione c’è un “chi” o un “cosa”. Quello che sappiamo è che ce la mettiamo tutta per dare qualcosa di noi stessi e lasciare una traccia del nostro passaggio, sia pure solamente con un modesto blog; i nostri sforzi tesi a cercare di distinguerci non per snobismo, ma per contribuire, nella blogosfera, a fornire una visione non banale e non inficiata da pregiudizio alcuno di quanto obiettivamente registriamo; certo, siamo in vacanza, ma come sempre cerchiamo di non essere in vacanza dalla realtà, quella edulcorata dei dépliant turistici, di non metterci in ferie dalla responsabilità di raccontare obiettivamente quanto vediamo e viviamo, evitando come e per quanto possibile di fare “il turista con l’aquilone in mano”, deresponsabilizzati come i bambini; alla ricerca di quell’etica del viaggiatore che procede con una direzione, una meta da raggiungere ma, soprattutto, da conquistare con le proprie forze. Tornare a casa non con il conteggio delle cose viste, quanto con la consapevolezza del “peso” delle stesse.
  
SCHENGEN, MON AMOUR?

Riempito il bagagliaio di tutto quanto il necessario, mercoledì 23 novembre 2016, ore 6.30, con 12° di temperatura esterna, partiamo. La prima tappa prevista è Vienna. Imbocchiamo subito l’autostrada slovena direzione Maribor, poi Graz ed infine Vienna. Ma, considerato il fatto che le condizioni meteo sono favorevoli (da giorni mezza Europa è preda di un anticiclone, quindi niente pioggia, solamente nuvole, un po’ di nebbia ma fondo stradale perfettamente asciutto), decidiamo di proseguire fin dove possiamo. Benedetto (o maledetto?) Schengen, non troveremo più confini fino alla Russia artica. Se viaggiare in un spazio libero è sicuramente pratico e conveniente in termini di tempo, la mancanza di frontiere rende il passaggio tra uno Stato e l’altro quasi svuotato del suo significato, uno spazio troppo fluido che sembra sfuggirci dalle mani. Per darci una dimensione, ci aggrappiamo perciò ai nomi esotici e fascinosi che recuperiamo sugli atlanti: la meraviglia di scoprire che attraverseremo la Moravia, la Piccola Polonia, poi la Masovia, la Masuria, la Prussia orientale, la Lituania, la Curlandia, la Livonia, l’Estonia, la Salpausselka, la Suomenselka, poi la Maanselka, la mitica Lapponia, e poi la Russia con la penisola di Kola e scivolando a sud incontreremo la Carelia, e l’Ingria per poi ripescare la Lituania, la Masuria… Ci mancano le frontiere? Forse sì. Qua finisco io e qua cominci tu. Frontiera intesa non come muro che separa, ma come confine della propria identità, nella quale riconoscersi e, con la consapevolezza di cosa si è, riuscire a comprendere meglio la diversità del confinante. Noi abbiamo l’impressione che, con le frontiere in piedi, le cose funzionassero meglio…
Superiamo in poche ore l’Austria, che pare sempre felix e ridanciana (aspetto che manca nella vicina Germania) e facciamo il nostro ingresso in Repubblica Ceca, in un clima di pesante mestizia: strade malmesse, paesi dimessi, un senso di generale trascuratezza come nelle migliori periferie bulgare, lavori pochi ma casino tanto. Il traffico pesante passa anche per i paesini e sembra che nessuno protesti per le centinaia di TIR che sgusciano a stento tra decadenti edifici art-déco. Viaggiamo in costante compagnia dei camionisti. Acquistiamo la vignetta, facciamo gasolio e la benzinaia si sbaglia pure col resto e ci regala 10 euro in più… Nonostante siamo ormai alle soglie dell’inverno, la Moravia è ancora abbastanza verdeggiante, punteggiata di castelli da fiaba. Il fondo stradale è sempre ottimo (nel senso di asciutto), e pertanto ne approfittiamo per “portarci avanti col lavoro”; sorpassate Brno e Ostrava, ormai vediamo profilarsi la frontiera con la Polonia. Viaggiamo sempre in area Schengen, vestigia di confini non ce ne sono più ma nemmeno facce extraeuropee: la Cechia fa parte di quel gruppo di Visegrad (Repubblica Ceca, Slovacchia, Polonia, Ungheria) che rifiuta categoricamente di prendersi la sua “quota migranti”, perciò (contrariamente a quanto osservato due anni fa in territorio finno-scandinavo) per il momento per strada non vediamo nessun tipo di “profugo”. Il buio avanza di questa stagione, e ci dovremo abituare ben presto: sarà la cifra stilistica di quest’avventura, freddo, buio pesto e silenzio irreale. Come passare le vacanze in una cella frigorifera, istruzioni per l’uso. Alle 16.30 appaiono già le prime, brillantissime, stelle in cielo. Nel tardo pomeriggio arriviamo in Polonia, dovremmo fermarci ma ne approfittiamo per proseguire ancora un po’, almeno fino all’ora di cena. Se la Repubblica Ceca sembra persa in un limbo post-tutto, la Polonia si svela per quella che è: un Paese che, dal 1991, non è mai andato in recessione. Se nel 2009, anno nel quale ci siamo stati la prima volta, sembrava un enorme cantiere a macchia di leopardo, stavolta i cantieri sono dappertutto. I fondi strutturali dell’Europa qui vengono spesi al centesimo, ed è tutto un fiorire di rampe, svincoli, superstrade, sottopassi, rotatorie, una colata cementizia da far spavento in quello che era un Paese a grande vocazione agricola, ora strade al posto dei campi, il progresso comunitario travolge tutto e tutti, senza rispetto per il paesaggio e chi lo lavora. Ed il progresso viaggia su TIR, anche qua i bestioni della strada ci circondano, ci sorpassano, ci precludono la visuale, noi e ad altri sparuti automobilisti, il trasporto merci su rotaia, in Est Europa, è ancora una chimera. Tra micidiali rotatorie e camion portacontainer che nascondono la cartellonistica, nel buio tra Gliwice e Katowice ci incasiniamo in un girone infernale di svincoli e sottopassi, ci perdiamo l’unica uscita per Czestochowa e… addio patria. Non riusciamo a venirne fuori, si incasina pure il navigatore e perdiamo due ore per sbucare, snervati, sulla strada giusta. Finalmente, nei pressi di Piekari Slaskie, riusciamo a trovare un albergo, però non accettano euro, poi ci dicono che è pieno. Stanchi morti, cerchiamo un altro posto e finiamo all’hotel Rezydencja Luxury Hotel, sono pieni anche qua ma, se vogliamo, è disponibile un appartamento. Guardiamo l’ora (sono le 19.40), siamo in viaggio dalle 6.30 di stamattina ed abbiamo percorso la bellezza di  963 km! Ovviamente, accettiamo: nel 4 stelle super lusso, ci assegnano un appartamento new-barocco con tanto di tappeto di zebra (pelle di vacca pitturata, in realtà), mega orchidee, cristalli, letto 200x200, vasca di due metri e lavabo in cristallo, però niente wi-fi, nemmeno connessione a pagamento! Protesto, per il prezzo richiestoci vogliamo almeno il massaggiatore in camera! Dopo aver cenato lautamente a lume di candela, coccolati dalle ovviamente strepitose birre locali e strappato un sorriso al fascinoso cameriere-modello hipster (“io avere lavorato in Milano-bella Italia”), ci arrampichiamo sul letto-catafalco per uno strameritato riposo. Domani ci aspetta un altro tour-de-force sulle strade polacche, che hanno abdicato ai trattori in favore dei camion.

IL MONDO VIAGGIA SU T.I.R.

Partenza dalla stanza zebrata alle 8.20, con 7°, cielo coperto. Ci immettiamo subito nel traffico bestiale della Masovia e della Masuria, due regioni molto belle ma stravolte dal trasporto pesante e pesantissimo. Da noi è in via di ultimazione il trasporto intermodale definito corridoio Adriatico-Baltico, quel Trieste-Kiel che permette di togliere dalla strada fino a 40 container per ogni convoglio che viaggia su rotaia; 40 container significa grossomodo 40 TIR in meno su strade e paesi. Immaginiamo come per incanto che tutto ciò venga applicato anche qua… e magicamente, il paesaggio nella sua intera bellezza ci si spiega davanti come un meraviglioso catalogo turistico… senza essere soffocato dai camion. Ogni tanto, causa ennesimi lavori stradali, siamo tutti costretti a procedere quasi a passo d’uomo, e ciò ci consente di riflettere sui nostri compagni di cammino. La vita del camionista è senza dubbio massacrante; lontano da casa per settimane, anche per mesi, ed è peggio che andar per mare; chi naviga per lavoro ha comunque sempre un “tetto” sulla testa, è al sicuro in un bastimento, pasti caldi, letto e toilette abbastanza confortevoli. Il camionista è costretto spesso a fermarsi per ore, se non per giorni, in attesa dell’ordine di un carico, e di solito sosta in “non luoghi” quali piazzole autostradali perse nel nulla, solo cemento ed asfalto; deve farsi i pasti da sé, dormire nel suo camion ma comunque “in strada”, lavarsi precariamente. La bella stagione aiuta, ma d’inverno, come ora, magari sulle rotte del nord Europa ed in Russia, con temperature abbondantemente sotto lo zero, buio perenne, fitte nevicate e strade ghiacciate, la vita si fa giocoforza più dura. Li osserviamo, quando passiamo affiancati: noi la strada la percorriamo in vacanza, loro la percorrono per lavoro, di solito malpagato, magari trasportando nel container un carico di addobbi natalizi provenienti dalla Cina piuttosto che attrezzature biomedicali. Pertanto non sbuffiamo troppo quando ci troviamo soffocati da questi bestioni, e portiamo rispetto al loro durissimo lavoro, nella speranza che il treno Trieste-Kiel, un domani non troppo lontano, diventi realtà e si trasformi in un Kiel-Istanbul, o un Varsavia-Lisbona… a beneficio di tutti.
Intanto, i TIR e noi, attraversiamo i caratteristici paesini dell’Est europeo, dove tutte le casette rurali ed i condomini sono a luci spente. Motivo? Ma è ovvio, qua lavorano tutti! E difatti il movimento veicolare è spaventoso, non c’è un’auto parcheggiata sotto casa perché sono già tutti in giro, solamente le vecchiette rimangono nell’orto di casa a zappare cavoli e patate. Gli operai stradali sono tutti europei, polacchi ed ucraini in maggior parte. Da’ da pensare, abbiamo percorso oltre 1000 km sempre nel medesimo gruppo etnico, non abbiamo visto un solo “siriano”, a differenza della Scandinavia di due anni fa, con gruppetti di immigrati vaganti, avulsi dalla realtà che li circonda. Non siamo più abituati a vedere solamente facce europee. Come non riusciamo ancora ad abituarci ad essere sovrastati davanti, dietro, di fianco, dai bestioni della strada, che intasano il già congestionato traffico stradale e ci danno l’impressione di calzare dei paraocchi. Ci sentiamo come l’elefantino Dumbo, attaccati al mastodontico fondoschiena delle elefantesse… Galoppiamo tutto il giorno, non ci fermiamo neppure per uno spuntino per non perdere preziosissime ore di luce, fin che c’è. Perdiamo il conto dei cantieri stradali che obbligano tutti a continui salti di corsia, rallentamenti, deviazioni. Viaggiare così è uno strazio, ma almeno le condizioni atmosferiche sono soddisfacenti. Al tramonto ormai siamo nei pressi del confine lituano. Ciao Polonia, che ci hai accolto con la consueta gentilezza, la pazienza e la calma olimpica del tuo popolo, strangolato dal traffico pesante e dai lavori in corso.

GLI STATI-FRANCOBOLLO

Il tramonto in queste baltiche marche di frontiera arriva attorno alle 15.45, alle 16.15 è già buio, alle 16.30 è notte fonda. Primo fuso orario, avanti di un’ora. Siamo in Lituania, la prima delle minuscole Repubbliche baltiche, estremo confine occidentale dell’ex impero sovietico, enclave di lingue a sé stanti nell’universo slavo. Siamo in provincia di Kaunas, a 0° e sicuramente stanotte si andrà sottozero. Acquistiamo la vignetta nel consueto baracchino, ma la tizia scambia Max per un camionista e ci rifila la vignetta per camion, 11 euro per 24 ore! Vabbè che il nostro Patrol è della stazza di un furgone, passi che è pieno come un camion, ma qua si esagera! Se in Polonia, nelle regioni della Masuria e della Masovia da dormire si trova dappertutto e posti bellissimi, in Lituania… il vuoto. Niente di niente. La periferia è totalmente aliena da qualsivoglia percorso turistico. Non ci scoraggiamo, un buco magari si rimedia; in questo posto oscuro contornato da foreste di conifere le stelle sono talmente basse all’orizzonte che sembrano tocchino i tetti delle case. Sì, un buco lo troviamo, Motel Armenija. Gestito da una famiglia di armeni, camera pulita e con connessione wi-fi che arriva da chissà dove. Però non si può gettare la carta igienica nel wc altrimenti si intasa, c’è un avviso in tre lingue che ce lo spiega. La carta usata va in un cestino a fianco!! Scendiamo per la cena e ragioniamo in che lingua rivolgerci agli armeni di Lituania; per il check-in abbiamo usato l’inglese, che è stato compreso con difficoltà. Probabilmente, comprendono anche il russo, ma per non creare imbarazzi, proseguiamo con l’inglese. Poi ci accorgiamo che parlano anche russo. Averlo saputo prima, ci saremmo capiti meglio. Retaggio dell’ex URSS... Riepilogando, 30 euro per la sola stanza, con gabinetto a mezzo servizio e niente colazione. Però wi-fi gratis. Ore 19.30, chiediamo da mangiare: ah, kitchen closed, ci dicono nelle due parole di inglese che sanno, pertanto possono offrirci solamente una “soup” soljanka riscaldata al microonde, due birre giganti, pane azzimo all’armena. Ceniamo praticamente da soli, contornati da fotografie alle pareti che ritraggono il monte Ararat ed i monasteri armeni. Il gestore del motel sembra un ex pugile o ex lottatore, ci serve la minestra la figlia, capelli nerissimi ed occhi azzurro cielo. Gentili, ma alle 21.00 fuori dai piedi. Ci rintaniamo in camera, piacevolmente tiepida, dove passeremo la notte a battagliarci una trapunta da una piazza e mezza per un letto da due.

BALTOSFERA

Alle 7.30, col buio pesto ma cielo stellatissimo, siamo in auto a far colazione con tè e biscotti. L’Armenija è ancora addormentato. Brina dappertutto, 0° e l’alba lituana si preannuncia… come la nostra. Tanta, piattissima campagna piena di oche, potrebbe essere una qualsiasi campagna danese oppure olandese, se non fosse per i consueti tanti, tantissimi TIR che ci scortano nel nostro andare. Ci ritroviamo nelle parole di un autore lituano, Romualdas Granauskas che nel suo romanzo “La vita sotto l’acero” sembra dipingere perfettamente quanto vediamo stamane: “Ora fino al nuovo abitato non ci sarà più lungo la strada nemmeno un cespuglio, soltanto campi nudi pianeggianti da entrambe le parti: alcuni sono grigiastri per le stoppie dell’anno scorso, altri neri, altri ancora cominciano ad inverdirsi per i germogli della segala. E quel verde sarà l’unica cosa che carezzerà lo sguardo…”. Effettivamente, è così. Dopo la Lituania, oltrepassiamo la Lettonia (uguale alla Lituania, cambia solamente la lingua) e ci accorgiamo che c’è ancora tanta gente che non ha l’acqua in casa (Europaaaaa, dove sei?!?) quindi al mattino si va a recuperarla dal pozzo… Come sempre ascoltiamo la radio per immergerci nella realtà locale; dall’abbastanza familiare ceco del giorno della partenza, siamo passati all’ostico polacco, al confinante bielorusso più comprensibile, mentre le lingue baltiche sono per noi totalmente sconosciute: lituano e lettone all’ascolto si assomigliano ma sono decisamente incomprensibili. Verso le 13.00, con un bel sole radente ed un vento da Nord-Ovest che ci taglia le dita, arriviamo in Estonia, e tra una teoria di bisarche ed una fitta pineta bluastra, riusciamo ad intravvedere un pezzetto del golfo di Riga; uno scrittore locale, Emil Tode, nella sua opera “Terra di confine” ben descrive questo microcosmo che sembra essere freddo tutto l’anno: “… Vengo da una terra dove il sole è un diamante raro (…). In autunno si mette via il sole in cantina, insieme alle patate e ai cavoli, e quando lo si ritira fuori, a primavera, diffonde il velenoso odore dei bianchi germogli di patate su tutta la fattoria fino al bosco. Fino al bosco, sì, perché c’è sempre un bosco freddo ed oscuro che ha inizio subito dietro la fattoria…”. C’è il sole e la giornata è splendida, però l’aria gelida ci intirizzisce dita ed orecchie e tutto, qualunque cosa intorno a noi, trasmette freddo. E c’è sul serio un bosco freddo ed oscuro dietro ad ogni casa e fattoria! Ascoltando la radio, ci approcciamo alla loro lingua, ceppo ugro-finnico. Se alla scrittura è simile al finlandese, all’ascolto ci sembra più vicina all’ungherese. Comunque incomprensibile, alle nostre orecchie, ma tutti e tre gli idiomi baltici sono curiosi da ascoltare. Le facce che vediamo, in questi piccoli Stati, appartengono però ai residui dell’ex-impero sovietico: non solo baltici anseatici, ma slavi, caucasici, siberiani, centro-asiatici… Viaggiamo su una tavola da biliardo in compagnia degli onnipresenti TIR che arrivano da tutte le parti d’Europa, dalla Turchia, dalla Russia e fino dal Kazakhstan e dall’Iran. Ce ne sono così tanti che oscurano il paesaggio ed è un miracolo riuscire ad intravvedere un cartello od uno svincolo in tempo. Nonostante il traffico pesante, tutto è molto pulito, ordinato, persino i bagni delle stazioni di servizio profumano di fiori, lindi, lustri e con acqua bollente. Alle 16.00 arriviamo a Tallin e ci dirigiamo dritti al porto. Sbrighiamo il check-in senza problemi, il nostro traghetto parte alle 19.30 ora locale. In attesa dell’imbarco, passiamo il tempo nella sala d’aspetto del terminal traghetti, ed osserviamo chi salperà con noi. Tanti studenti estoni e finlandesi, pendolari, manovali, ma soprattutto tanti finlandesi sbarcati qua solamente per acquistare gli amati alcolici senza la supertassazione al quale sono soggetti in patria; gente che acquista casse intere di birra, di alcolici e superalcolici da portare in Finlandia e farsi una bevuta senza svenarsi e senza sensi di colpa… Osserviamo i ragazzi estoni: belli, alti, carnagione bianchissima, ma anche qua intravvediamo la prima pecca di una società immobile ed ipertecnologica: l’obesità incalzante. Belle ragazze, ma alte come alci, mani come padelle, spalle da lottatrici, guai a farle arrabbiare… Finalmente si avvicina il momento di imbarcarci, la stiva della motonave “Star” si apre per noi tutti e siamo tra gli ultimi ad entrare, assieme agli onnipresenti TIR. Alle 19.30 precise salpiamo, e per due ore abbondanti ci faremo cullare in questa che sembra una crociera d’altri tempi, tra legni ed ottoni tirati a lustro. Il traghetto è pieno, non solamente di pendolari, ma anche di sparuti turisti, qualche saccopelista finlandese già abbondantemente ubriaco e, immancabili, di cinesi in gita. La navigazione è allietata da un duo ambosessi voce/chitarra, che, col repertorio di superclassici del pop-rock, fa quel che può per farci passare il tempo mentre fuori il buio pestissimo del golfo di Finlandia ci inghiotte nel silenzio di un mare denso come petrolio.

LA FAMOSA ACCOGLIENZA NORDICA

Riposati e rinfrancati, poco dopo le 21.30 sbarchiamo ad Helsinki, che ci accoglie con un traffico abbastanza sostenuto. Ovviamente, ci mettiamo subito alla ricerca di un posto dove buttare le nostre carcasse per la notte. Un primo albergo è situato subito alle spalle della darsena sbarchi, ma per raggiungerlo bisogna arrischiarci in una inversione a 180° nel traffico… Lasciamo perdere, ne troveremo altri di alberghi, no? Certo: Hilton, Holiday Inn, Scandic… vista l’ora, cerchiamo comunque qualcosa di più abbordabile, ma nel buio non riusciamo a trovare nemmeno l’indizio di un cartello che dica hotel o, almeno, B&B, niente di niente. Beh, troveremo di sicuro qualcosa via dal centro, no? Due ore e mezzo a cercare un buco qualsiasi fuori dalla capitale, intanto ci troviamo a poco meno di metà strada tra Helsinki e Jyvaskilä, comincia a nevicare fitto e, in quanto a gasolio, stiamo messi maluccio. Dubbio amletico: che facciamo? Se torniamo indietro, finiamo col perdere altro tempo (e carburante) prima di raggiungere Helsinki, se andiamo avanti ci aspetta l’incognita e, soprattutto, non sappiamo se riusciremo a trovare un distributore di gasolio (il nostro navigatore non è prettamente stradale ma cartografico). Ci fermiamo in una piazzola di servizio, circondati dalla taiga silenziosissima e avvolti da una nevicata sempre più fitta. La nostra cartina stradale ci avvisa che sì, ci sono delle aree di servizio, ma… riusciremo a raggiungerle senza rimanere a secco per strada? Per mancanza di spazio, abbiamo dovuto lasciare a casa le due taniche per il gasolio, utilissime in caso di emergenze simili… Ormai il traffico è inesistente, e siamo soli da quando abbiamo lasciato la periferia di Helsinki. Si prospetta l’idea di dover dormire in auto. A parecchio sotto zero, sepolti dalla neve che cade incessante a larghe falde. Da mangiare c’è, all’occorrenza il frigo può riscaldare il cibo; i sacchi a pelo sono a portata di mano. Siamo vestiti abbastanza pesantemente. Abbiamo pure delle coperte per le emergenze. L’idea di passare la notte in auto in queste condizioni ci fa riflettere molto, tanto. Ci scambiamo uno sguardo d’intesa: tentiamo. O la va o la spacca! Ci raccomandiamo a San Cristoforo, patrono dei viaggiatori, a San Michelin, patrono dei pneumatici, ed a qualsiasi altro che, da lassù, ci ama e, nel silenzio ovattato di questa profondissima notte finnica, ci mettiamo in marcia, cullati solamente dal “tuf-tuf” dei tergicristalli che faticano per spostare la neve dal parabrezza. La preoccupazione c’è, ma la magia della notte finlandese ci sprona a proseguire fino ad incontrare, bramata come un’oasi nel deserto, una stazione di servizio. Pieno di gasolio, e ci sembra di essere sazi pure noi. Ora possiamo proseguire fino al mattino, se vogliamo! Ma è molto tardi, il pilota tiene duro anche se denuncia un po’ di stanchezza e la nevicata da fitta si fa abbondante ed ormai abbiamo gli occhi come due fari aggiuntivi. Certo, con tutti questi moderni dispositivi che ormai infarciscono le nostre vite, avremmo anche potuto scaricare una app per lo smartphone con l’elenco degli alberghi… ma in questo modo, ci saremmo privati di quel sano brivido dell’avventura e dell’incognita che insaporisce ogni nostro viaggio! Nella notte più buia e nella nevicata più fitta, finalmente giungiamo alla cittadina di Lahti, dove troviamo un albergo in pieno fermento da movida del venerdì sera. E’ mezzanotte e tre quarti ma sembra mezzogiorno, a giudicare dal viavai di gente dentro e fuori dall’hotel. Il prezzo è, more solito, esorbitante (il Sokos hotel si fa pagare, ma veramente non abbiamo alternative) e, per la soluzione B&B ci sembra davvero eccessivo. Protesto, per questo prezzo vogliamo lenzuola di lino, ancelle adoranti e il servetto che ci fa vento con le piume di struzzo! La receptionist, piuttosto infastidita dal dover ricevere clienti stranieri a quell’ora, ci spiega che per il parcheggio sotterraneo (prezzo non incluso!) bisogna fare il giro dell’intero caseggiato (quasi mezzo rione). Vabbè, non ci resta che rimetterci in auto, raggiungere il parcheggio, recuperare qualche vettovaglia e goderci questa camera lusso, col letto così alto che per raggiungerlo dobbiamo praticare un salto alla Fosbury! Ed è l’1.30…

TEQUILA BUM-BUM-BUM

Goderci la camera lusso si fa per dire. Fino alle due inoltrate del mattino, dobbiamo sorbirci la movida da tequila bum-bum, solo che il bum-bum non è riferito alla tequila quanto al casino da discoteca che si propaga fino in camera; casino in albergo, casino fuori, dove parecchia gioventù sfatta e palesemente ubriaca si rotola tra lampioni e marciapiedi, in una nevicata che per noi è epocale e per loro è normale amministrazione novembrina, il tutto condito da schiamazzi alcolici urlacchiati tra cadillac cabrio e limousine da 20 metri… ragazze così ciucche da andare, barcollando, a fumarsi una sigaretta, sotto la fitta nevicata, coperte soltanto da quelli che appaiono dei negligè in nylon… il tutto sotto alle nostre finestrone; e la magia delle luminarie natalizie (a dirla tutta, così insignificanti e schematiche che sembrano stare là solamente per dovere civico) e della neve che cade lenta ed incessante come in una fiaba nordica, viene spappolata dai rottami umani che si trascinano bercianti e ruttanti qua sotto… La mattina seguente, scendendo per la colazione, ci imbattiamo in rifiuti d’ogni genere abbandonati nei corridoi e pure un fazzoletto abbondantemente insanguinato… Mano ferita da bicchiere rotto? Scazzottata in strada? Ah, saperlo… Corposa colazione per rimpinzarci lo stomaco ed evitare di pranzare, e poi di nuovo in marcia.

TOPONIMI

Strada facendo, non possiamo fare a meno di sorridere davanti a certi toponimi finnici; se due anni fa ci eravamo imbattuti nel cognome “Majala” ed avevamo mantenuto il contegno solo perché stavamo in un cimitero, stavolta non possiamo non sghignazzare quando leggiamo il cartello che recita “Pizzeria Putaana” (dal nome del paese), o Porkkala, oppure passiamo dal villaggio di Kokkola (immaginiamo i suoi abitanti coccolosi) e poi per quello di Puppola (per noi triestini particolarmente simpatico) ed ancora Piippola, poi arriva la cittadina di Mämme, ed altri ancora, tutti ugualmente spiritosi. Un po’ di allegria, visto che ormai il paesaggio è decisamente cupo…

LA FAMOSA ACCOGLIENZA NORDICA/2

Non nevica più, però la neve aumenta di spessore man mano che si procede verso Nord. Direzione Kärsämäki, ma dato che siamo in anticipo, potremmo arrivare anche ad Oulu, no? Infatti arriviamo in provincia di Oulu, il sole ormai sta tramontando e di alberghi nemmeno l’ombra. Ah, no, c’è un hotel, si chiama Otello, è della catena Western Union, ma è indicato solamente un numero di telefono… Niente Oulu. Per strada, veniamo informati che forse c’è qualcosa a Kemi… fiduciosi, cerchiamo un albergo a Kemi: come no, ci sono i campeggi con bungalow, ma sono chiusi e ben si guardano dall’avvisare qualche km prima di arrivarci che sono chiusi dal 23.11 al 23.2…  Ma no, dai, guarda che c’è un cartello che dice albergo, 200 mt a destra… e poi prosegui per altri 32 km! Nel crepuscolo, ci fermiamo per consultare cartina e navigatore: la ridente cittadina di Tornio è solamente a 65 km da qua. Sappiamo per certo che là c’è un albergo grande e sempre in funzione, a questo punto… Ok, si va a Tornio. Strada facendo, rimangono le luci tenui di questo crepuscolo straordinario ed incredibile. Se ai tropici, o all’equatore, il sole quando tramonta lo fa subito e la notte arriva immediatamente, alle nostre latitudini mediterranee la luce del tramonto digrada fino al crepuscolo che dura una mezz’oretta; ma quassù, il crepuscolo dura ORE, quindi alle 15.30 il sole tramonta, però la luce intensa del tramonto dura fino a dopo le 18.00… sono queste le famosi luci del Grande Nord? E’ davvero magico e straniante insieme, e ritorna alla mente un detto francese, che definisce l’imbrunire “entre chiens et loups”, tra cani e lupi, quando ciò che ci circonda ancora si riesce a distinguere anche se non perfettamente. Finalmente, arriviamo a Tornio, a cavallo del cambio di fuso orario; in città sono le 18.00, fatti 100 metri oltre il ponte si è in Svezia e sono le 17.00… Tornio, meno male che ci sei, con la tua gaiezza di cimitero a novembre, però ti fai perdonare perché produci una birra strepitosa! Al Park Hotel, la receptionist, stavolta simpatica e paziente nell’interloquire con due stranieri stravolti dal chilometraggio e che nell’intercalare in inglese ci ficcano dentro anche tre parole di tedesco e due di russo, ci comunica che, sì, hanno posto, ma purtroppo la camera non sarà “quiet” perché… c’è movida in ristorante. Anche qua?!? Pazienza, abbiamo i tappi in cera, eventualmente… e meno male che la Finlandia è il regno del silenzio! Più tardi ci accorgiamo che non è la movida del ristorante a disturbare, quanto le derapate dei ragazzoni in strada, che a bordo di Mercedes e BMW si divertono a fare il giro del piazzale del parcheggio innevato in controsterzo… Ha ripreso a nevicare con insistenza, siamo a – 4°. Non siamo gli unici forestieri: con noi, a fare il tragitto in macchina, ci sono anche frotte di cinesi arrivati in aereo ad Helsinki, dove hanno noleggiato capienti van, e si fanno Helsinki-Rovaniemi tutta una tirata guidando a turno per andare a trovare Babbo Natale… Dopo aver cenato nel ristorante dell’albergo ed osservato la vivace fauna locale (gioventù altissima, slanciatissima e bellissima si fonde con adulti di varie età dagli inconfondibili e massicci tratti lapponi), ce ne torniamo nel tepore della camera ed approfittiamo del wi-fi per cercare “alberghi ad Helsinki”; salta fuori che ce ne sono 132. Ma doveeeee??!?!?!??! Metterci a dormire nemmeno a parlarne, finchè i finnici qua sotto sono ancora impegnati nel karaoke stonatissimo ad ugole spiegate, così, dalle finestrone della nostra camera, osserviamo la Tornio by night: dato il buio, la nebbia, le nevicate, vestirsi con qualcosa di fosforescente è il minimo. Quindi praticamente girano tutti con addosso un giubbottino ad alta visibilità, oppure giacconi e pantaloni con strisce catarifrangenti e addirittura c’è chi porta a spasso il cane indossando il giubbino ad alta visibilità, reggendo un guinzaglio fosforescente, ed il collare del cane… è a led lampeggianti! In questo buio che avvolge tutto per mesi, farsi vedere non solo è necessario, ma sembra indispensabile per sentirsi ancora vivi. Epilogo della giornata: stando al nostro piano di viaggio, oggi in teoria dovevamo essere a Riga…

MISSIONE BABBO NATALE

Dopo la consueta, abbondantissima colazione energetica, lasciamo Tornio di buon mattino, sono già -8° ed il cielo è sereno. C’è un chiarore diffuso, una luce tenue eppure chiara che non disturba per niente; verso le 11.00 si intravvede qualcosa all’orizzonte: è il sole che spunta e… resta là. Non si alza dall’orizzonte, e viaggiamo immersi in una meravigliosa luce diffusa, riposante ma in grado di farti vedere tutto, come quelle lampade ad incasso. Luce sì, ma non diretta. Il paraluce sull’obiettivo è perfettamente inutile ormai, sembra di stare in uno studio fotografico! Verso le 11.30 arriviamo a Rovaniemi, stavolta solamente per sbrigare una commissione: imbucare la letterina per Babbo Natale per conto di un’amica! Il “Santa Village” è abbastanza affollato di gente, ma meno di quanto ci aspettavamo. Tanti italiani e, soprattutto, tantissimi cinesi, armati pure di drone per riprese aeree. Come pronosticato, incontriamo gli stessi cinesi visti ieri che viaggiano col van: probabilmente si fermeranno qui un paio di giorni, foto di rito col vecchio barbuto e poi nuovamente ritorno ad Helsinki ed aereo per la Cina… Dopo aver ammirato le slitte trainate dalle renne ed aver assistito al loro pasto (blocchetti di licheni gettati loro dagli addetti del “Santa Village”) ci rimettiamo in marcia, sempre per non perdere le preziose ore di luce. La temperatura scende, siamo a -11° e la strada, nonostante sia costantemente pulita dagli spazzaneve, rimane sempre bianca; gli automobilisti corrono tutti, grazie alle gomme da neve oppure alle gomme chiodate. Il gasolio nei distributori è di tipo invernale e sopporta anche temperature fino a – 34°, senza bisogno di additivi. Tanta, tantissima neve sugli abeti della taiga, e più si prosegue verso nord e più le conifere si piegano per il peso. Tento di fare un paio di scatti del tramonto, ma non è semplice farlo a bordo strada pesantemente innevato, col cavalletto che sprofonda; accendiamo le 4 frecce per segnalare la nostra posizione e subito si fermano  in sequenza un paio di automobilisti, chiedendoci se abbiamo bisogno di aiuto. A queste latitudini, il menefreghismo non trova appigli. Dopo il tramonto rossastro, che sopraggiunge alle 14.45, la luce dura grosso modo fino alle 16.00, poi comincia a farsi davvero scuro, ma c’è ancora quel chiarore sufficiente che permette di vedere dove sei senza la necessità di accendere i fari (comunque, sono obbligatori giorno e notte).  Il paesaggio è strepitoso, la maestosità della taiga finlandese è accentuata dai quintali di neve candida, cristallina, asciutta, meravigliosa, che ricopre ogni cosa come una trapunta fatata. Via dai centri abitati (ormai pochissimi) si ripiomba in un silenzio irreale e forse ancora più intenso di quanto apprezzato nell’autunno di due anni fa; la neve si comporta da gigantesca spugna per suoni ed odori, ed in questo paesaggio, asettico e muto come una camera anecoica, ci sembra di essere quasi fuori posto coi rumori del nostro fuoristrada… Sono le 17.00, ormai è notte fonda quando arriviamo ad Inari, capoluogo finlandese del popolo Sami. Anziché approdare all’hotel Inari, ci concediamo il lusso di dormire nell’altro albergo del paese, l’hotel Kultahovi, struttura tradizionale gestita dalla comunità Sami, dove si mangia la vera cucina lappone. La receptionist è anche una delle animatrici della locale comunità lappone: pelle diafana, occhi blu genziana, zigomi alti, capelli biondi come le betulle d’autunno, la signora gentilissima ci propone diverse sistemazioni, tutte molto piccole a dir la verità, ma confortevoli e, soprattutto, calde! Come ospiti a cena, siamo in 8: noi due e… sei cinesi! Anche qua! Decidiamo di fermarci qui per due giorni, un po’ per riposarci, un po’ per goderci questo inverno oltre il Circolo Polare e per prepararci spiritualmente all’incontro con la dogana russa. Scendiamo subito per la cena, noi ed i cinesi; il menu propone: pesce del lago Inari, cioè un magnifico filetto di luccio con crema di carote e spuma di limone. Sul momento, la spuma di limone sembrava della schiuma da detersivo per i piatti sistemata sul pesce, poi ci accorgiamo che trattasi di spuma di albume aromatizzata al limone! Ottima! Poi ragout di renna con purè di patate e salsa di mirtilli rossi, e tagliata di renna arrosto. Tutto davvero squisito ed annaffiato dalle ottime birre Kahru (orso). Il menù proponeva anche lingua di renna affumicata, bistecca con sanguinaccio di renna e verdure varie, perfino licheni come contorno! Poi funghi dei boschi circostanti, ed altro pesce del lago… Un menù insospettabilmente vario, la foresta boreale, i suoi laghi ed i suoi fiumi offrono davvero di tutto! Finita la cena, ci godiamo gli ultimi sorsi di birra quando uno dei cinesi, che era uscito per fumarsi l’ennesima sigaretta, torna dentro precipitosamente esclamando qualcosa nella sua lingua, ma tra i vari sino-dittonghi una parola la comprendiamo anche noi: AURORA! Allora ci precipitiamo di corsa anche noi e… sorpresa! Una specie di sipario verde fosforescente sta calando esattamente dietro agli abeti del parcheggio. Lo stesso colore opalino dei pulsanti fosforescenti che nei condomini di quarant’anni fa indicavano la luce delle scale! Il sipario dura pochi minuti, per essere poi sostituito da tante righe verticali, come tanti spaghetti, che scendono dalla volta celeste, che è una trapunta di stelle fino a toccare le cime degli alberi! Il colore varia dal verde fosforescente al biancastro pallido, sempre meglio dell’aurora “dei poveri” (cioè in bianco e nero) vista due anni fa! Preparo macchina fotografica e cavalletto, siamo a -9° e c’è pure una leggerissima brezza: non demordo, imposto la Nikon con l’autoscatto a  30 secondi e via, lascio che lavori per conto suo. E ce la faccio! Non sarà un granchè, ma almeno abbiamo catturato finalmente l’Aurora Boreale! E se pensiamo che c’è gente che spende fior di quattrini per il viaggio organizzato per vedere l’Aurora e poi… questa marca visita! Alle 21.00 decidiamo di rientrare in camera, non tanto per il freddo (ci siamo attrezzati per questo) quanto perché siamo distrutti dalla stanchezza. In camera, che lusso! abbiamo l’Aurora Service: se accendi la TV ed imposti il canale giusto, puoi gustarti l’Aurora Boreale direttamente dalla comodità del tuo letto! Proviamo a vedere che cosa ci propone la web-cam piazzata sul tetto dell’albergo, direzione Nord-Est… ma a parte una curiosa finestra nerastra, non riusciamo a percepire altro…

LUCE SENZA SOLE, NEVICATA SENZA NUVOLE

Giornata finalmente dedicata al relax; dalla finestrona panoramica della nostra camera, ci godiamo, nel tepore lappone e nella frugalità dell’arredamento finnico, gli splendidi abeti completamente innevati ed il fiume che tenta di scorrere impetuoso, nonostante ormai si stia ghiacciando del tutto. Scendiamo con calma a fare colazione in un silenzio claustrale; i corridoi di questo bell’albergo dall’architettura minimalista sono completamente ricoperti da tappeti rustici e moquette e ci stupiamo per il meraviglioso contrasto che le splendide e gigantesche piante “d’appartamento” (monstere, ficus elastica, croton, felce a corna d’alce, ecc) producono quando le vediamo addossate ai finestroni, rigogliose come a casa loro, mentre fuori il paesaggio non è tropicale ma pesantemente sub-artico… Un sottile velo di malcelata invidia serpeggia tra noi, ripensando al triste pothos che stentatamente vegeta nel nostro salotto esposto a sud-est… Il buffet della colazione è un po’ sottotono, rispetto agli standard dei normali alberghi, ma ugualmente troviamo di che rimpinzarci… Evitiamo però le aringhe in salamoia, a tutto c’è un limite! Usciamo ben bardati, abbiamo già foderato i nostri scarponi con le solette di vero feltro in lana da 5 mm, l’isolante migliore; la temperatura registra sempre un -9°, niente vento e tante, tante gazze chiassose, probabilmente gli unici uccelli che riescono a sopravvivere tutto l’inverno in queste condizioni climatiche. Ci muoviamo a piedi, tanto le distanze tra un luogo e l’altro in paese sono minime. C’è un chiarore diffuso ed il sole non è ancora apparso, siamo immersi in una luce color albicocca irreale che proviene da nord est, mentre a nord ovest il cielo assume una specie di sfumatura indaco. Verso le 10.00 il chiarore si fa più intenso ed il sole c’è, ma si rifiuta di spuntare oltre la linea dell’orizzonte! Verso le 11.00 è giorno pieno: tanta luce diffusa dappertutto ed assoluta mancanza di ombre nette! Gli occhiali da sole sono inutili, le lenti fotocromatiche rimangono bianche, il paraluce sull’obiettivo è del tutto superfluo… anche gli occhi qui si riposano dalle violente luci meridionali. In aggiunta a questa atmosfera, che dire fiabesca è poco, ci si mette anche una nevicata… senza nuvole! Fa talmente freddo, nella colonna d’aria lassù, che la poca umidità cristallizza e scende a terra in minuscoli cristalli, luccicanti come diamanti. Una nevicata di lustrini e microscopici fiocchetti di neve, talmente perfetti da sembrare finti! Nota sulla neve artica: è semplicemente f-a-n-t-a-s-t-i-c-a. Farinosa, estremamente asciutta, non si attacca da nessuna parte né imbibisce nulla, non ti fa scivolare con le scarpe né con i pneumatici, ma è ottima per sciare oppure per girare in slittino. Quanto sarebbe bello portarcela a casa come souvenir!

LA DEA ANGERONA ABITA QUI!

L’abbiamo stanata. Ecco dove si nascondeva! La Dea del silenzio, colei che presiede un periodo fondamentale come il solstizio d’inverno, ormai divinità dimenticata da una società che ha fatto del rumore, sinonimo di progresso, il suo nuovo dio, ha trovato rifugio quassù. In questa marca boreale, tutto sembra consacrato a lei. Già i finnici dell’estremo Nord non sono un popolo particolarmente chiassoso; se poi ci aggiungiamo una pesante coltre nevosa che tutto copre ed assorbe i pochi rumori della vita, abbiamo il quadro della situazione. Ne avevamo avuto percezione due anni fa, era il principio dell’autunno e di gente in circolazione ce n’era di più; ma oggi, al 29 di novembre, ormai in piena notte artica, di gente in giro ce n’è davvero poca: noi, gli onnipresenti cinesi, e gli sparuti abitanti di Inari. Basta. Il chiarore diffuso è un paradiso per gli occhi sensibili e stanchi da troppe luminarie, artificiali e non, i pochi rumori attutiti ed ovattati sono balsamo per orecchie strapazzate da ogni genere di frastuono della cosiddetta “civiltà”. Pertanto, ci sentiamo in perfetta sintonia di pensiero e diamo ancora una volta ragione a quel Grande Vecchio, quasi uno “starez”,  figlio della Russia più profonda ed eterna, quando affermava che: “La civiltà del frastuono ci ha completamente privati di una vita interiore raccolta”. Parole santissime. Chissà, forse estensione di territorio equivale ad estensione di pensiero…
Facciamo un giretto per il paese: rispetto a due anni fa, è leggermente migliorato: demolita una scalcinata ed insignificante costruzione, al suo posto è sorta una dependance del nostro albergo lappone; qualche attività commerciale in più e, purtroppo, anche qualcuna in meno. La vita si svolge con la consueta calma: le signore vanno a far la spesa con lo slittino. Siccome qui è tutto dritto, basta caricare le buste della spesa sulla slitta dai lunghi pattini, e poi via, come su un monopattino, senza fatica e si fa pure esercizio fisico! Ci viene in mente la nostra Trieste, quando ogni tanto viene raggiunta dalle nevicate. Le nostre donne sì che sono vere eroine, a trascinarsi le borse della spesa su per strade ghiacciate dalla pendenza oscena e sferzate dalla Bora! Giriamo incantati da tanta calma, nella magia invernale. L’aria di paese (artico) si respira anche nei piccoli gesti quotidiani: nessuno corre in macchina, bambini piccoli che girano tranquillamente da soli, un senso di generale tranquillità. Ne osserviamo gli abitanti: rimaniamo sempre piacevolmente colpiti da queste facce lapponi, fisionomie selvatiche di occhi blu, zigomi alti, nasi appuntiti, pelli nivee con capelli dal biondo scuro al castano; figli di elfi, senza alcun dubbio. E non ci stupiremmo poi tanto se, nascoste sotto ai berretti, spuntassero anche orecchie a punta… Le donne anziane denunciano un passato non facile, tante infatti presentano gambe storte dal rachitismo. I ciclisti non mancano, robuste mountain-bike munite di gomme da neve procedono sciolte tra le stradine innevate; ma c’è anche chi fa jogging, o si muove in slittino, quasi tutti con qualcosa di fosforescente addosso… L’inverno, qua, è una stagione come un’altra. Poche lucine natalizie, in un clima festoso piuttosto dimesso, forse il rigore luterano si riflette anche sugli addobbi. Il freddo e la passeggiata mettono fame. E dove rifugiarci se non nell’unico pub del paese? Il Pa-pa-na offre un bell’ambiente ampio e rustico, pizze ottime, birre Kahru alla spina, wi-fi gratis e ci godiamo un po’ il calduccio in compagnia. Questi gli avventori: due italiani (noi), tre ragazzi lapponi spaparanzati sui divanetti con bottiglie di birra in mano e… 14 turisti cinesi, alti, grandi e robusti. Ma almeno chiacchierano senza far casino. Sono più rumorosi i tre indigeni! Ci gustiamo la pizza guardando il paesaggio innevato e prossimo al precoce tramonto. Tutto così silenzioso, quieto, ordinato, perbene… ma chi ha detto che sotto a questa immacolata coltre nevosa non si celi un cuore passionale e goliardico? Ne trovo un esempio nel recesso più insospettabile: il bagno delle signore. Nel posto più privato, osservo un poster realizzato con le fotografie di bellezze maschili locali, impegnate nelle rispettive attività della zona: boscaioli, falegnami, carpentieri, ma tutti in rigoroso costume adamitico, immortalati in atletiche pose plastiche e… con gli attrezzi del mestiere strategicamente posizionati in zona Cesarini! Ma quello che mi colpisce non è la trovata goliardica, quanto il colore della pelle dei prestanti maschioni: il più “abbronzato” è della tonalità della carte da fotocopie… Nel primo pomeriggio, raggiungiamo la periferia del paese, dove troviamo la locale chiesa luterana, una costruzione in legno, frugale, severa ed aguzza, purtroppo chiusa. Il sole tramonta, il silenzio è irreale ed alle 16.00 è quasi notte. Non ci resta, noi anime sparute, ma piene di rilassatezza e serenità, avvolte in questa neve bambagia, che tornarcene in camera e prepararci spiritualmente per quello che domani sarà il giorno tanto atteso: affronteremo un altro cambio di lingua, in aggiunta al cambio di alfabeto, al cambio di moneta ed al cambio di mentalità, e la prima dogana da una settimana a questa parte, a 3.560 km da casa… tutto ciò che è necessario per entrare in un mondo “altro”. La cena è un piccolo spuntino consumato in camera con le nostre provviste, osservando la foresta notturna, addormentata sotto alla coperta nevosa; mangiamo in silenzio, ma un silenzio pregno di pensieri e di promesse per l’indomani. Domattina lasceremo l’Europa per la Russia. Ci lasciamo alle spalle un’Europa obesa, sazia, viziata, che a tratti ci sembra sempre ripiegata su sé stessa e stanca di vivere, senza memoria del passato e concentrata solamente sul presente, sul soddisfacimento di bisogni materiali ed individuali, sul “qui ed ora”; un Occidente che per definizione è la terra del tramonto, ma, in questo scorcio di terzo Millennio, a noi sembra il tramonto di tutto - di cuori ed anime - per approdare ad Oriente, quell’ “ex Oriente lux” come già si diceva nel Medioevo; volgere lo sguardo ad Oriente per noi non significa tornare indietro, bensì andare avanti verso il Sole nascente, in un risorgere di nuove motivazioni e significati, alla ricerca del più vero ed autentico senso della vita.
  
VERSO L’INFINITO, E OLTRE…

Partiamo da Inari verso le 9.30, durante la notte ha nevicato e così ci troviamo l’auto completamente imbiancata. In queste contrade, lo spazzaneve passa in continuazione, per cui ci troviamo le strade con fondo leggermente innevato ma perfettamente percorribile. Ancora non abbiamo montato i chiodi sulle gomme perché il fondo stradale, con questa neve strepitosa, tiene perfettamente. Il termometro segna sempre -9°, il cielo oggi è coperto. Un leggero traffico infrasettimanale scorre in ambo i sensi di marcia, ma appena imbocchiamo il bivio per Raja-Jooseppi ed il confine russo, siamo quasi da soli. Sono circa 40 i km da percorrere fino ad incontrare la dogana. Per strada incrociamo più renne che automobili, e spesso le simpatiche bestiole sbucano improvvise ed è un poco pericoloso frenare sulla neve. Il paesaggio, anche qui, è fiabesco, la taiga è sommersa dalla neve ed ancora facciamo fatica a credere di esserci arrivati; simili scenari li avevamo visti solamente sulle riviste naturalistiche, nei documentari in tv, su Youtube; ora i protagonisti siamo noi, e l’emozione è grande e totalizzante. Arriviamo al confine finlandese che è circa mezzogiorno. Siamo da soli. Scendiamo e seguiamo le indicazioni, che ci conducono in una costruzione bassa dove sono ubicati gli uffici della polizia di frontiera e la dogana. Un giovane doganiere guarda i nostri passaporti, ci chiede dove siamo diretti e per quanti giorni, in cinque minuti siamo liberi di proseguire. Dopo pochi metri fatti in auto, si arriva alla dogana russa, costruzione moderna verde e bianca, incredibilmente vuota; prima ci accoglie un giovane doganiere col colbacco che controlla i passaporti, poi ci fa proseguire fino alla dogana vera e propria; non è chiarissimo dove dobbiamo dirigerci con l’auto per scendere; sotto alla pensilina vediamo due corsie, una a sinistra è di asfalto, l’altra a destra ha delle pedane in metallo a filo strada: dico a Max di posizionarsi sulle pedane: arriva il doganiere e ci dice che non va bene, perché quelle pedane non sono altro che la bilancia per i camion! Ops… ma, considerato che siamo soli soletti, possiamo anche lasciar l’auto là. Scendiamo per il controllo documenti in ufficio, dove un bel giovanotto ci consegna dei documenti da compilare, composti da: 1) talòn, cioè la carta d’immigrazione (bilingue russo-inglese), sempre valida anche per la Bielorussia; compilate tutte e due le copie, si passa davanti all’ennesimo ragazzo che controlla ciò che abbiamo compilato, controlla i passaporti, se li sfoglia per sentire con le dita se la carta è autentica, poi li passa al lettore (per i visti e per la lettura del chip contenuto all’interno) e, finalmente, timbro con tanti auguri di buon viaggio in Russia; al contrario del 2008, qua sono tutti molto gentili ed educati (forse perché il traffico frontaliero è minimo? mah..); 2) talòn po avto, cioè carta da compilare (bilingue) esclusivamente a cura di chi guida, dove chiedono nome, cognome, nazionalità, marca, modello e cilindrata del veicolo, ipotetico valore (visto che, in effetti, importiamo un veicolo sul suolo russo), dati del libretto di circolazione… però guai a sbagliare riga, altrimenti si rifà tutto d’accapo. Fatto tre volte… Io intanto attendo accanto a Max per supporto morale e mi guardo attorno; passa una doganiera dallo sguardo sbieco e glaciale, gonna, stivali e colbacco e già temo una perquisizione corporale… Scampato pericolo. Compilato definitivamente il questionario doganale, io passo per la corsia verde, mentre Max passa per la corsia rossa  (sotto al metal detector) in quanto conducente. Poi ci fanno attendere nella saletta d’attesa, ed intanto che i funzionari controllano tutti i dati, noi ne approfittiamo per mandare avanti gli orologi di un’ora per adeguarci al fuso orario russo; sono le 13.15 e, per il momento, tutto va bene. Ci chiedono la destinazione e per quanti giorni rimarremo in Russia, sempre con fare cortese e tranquillo. Dopo pochi minuti, ci fanno uscire fuori per il controllo del bagagliaio: controllo del motore e del vano portaoggetti, controllo del baule con cenni di apprezzamento per come abbiamo ingabbiato tutti i bagagli con la rete di protezione (così in caso di malaugurato tamponamento, i bagagli evitano di finirci addosso) e, finalmente, possiamo accomodarci per l’ultimo controllo. Tempo impiegato: poco meno di quaranta minuti.
Nel 2008, un paio d’ore, coi doganieri nevrastenici… Finito coi doganieri, montiamo in auto e, percorse poche centinaia di metri, ci fermiamo nuovamente, dove una serissima gospožà in gonna, stivali, colbacco e kalašnikov ci domanda nuovamente i documenti, compreso il libretto di circolazione, controlla tutto e finalmente, con un impercettibile sorriso, ci lascia proseguire. E SIAMO IN RUSSIA!

MATUŠKA ROSSIJAAAA!

Ore 13.30 di martedì 29 novembre 2016, esattamente ad otto anni, tre mesi e 15 giorni dalla nostra prima volta in Russia, la soddisfazione è immensa e totale! Come nel 2008, ci si entra con rispetto, senza pregiudizi di sorta, col cervello vuoto per accogliere solamente le cose positive. Davanti a noi si spalanca la taiga sommersa da neve freschissima, strada in rettilineo che non ha visto uno spazzaneve da ieri, soli in un silenzio irreale. Ci vengono le lacrime agli occhi. Non abbiamo il tempo di commuoverci perché dopo pochi chilometri ci troviamo la strada chiusa da un cancello con garitta. Dalla garitta salta fuori l’ennesimo ragazzo, stavolta in mimetica e kalašnikov, che ci chiede nuovamente i documenti, sincerandosi che siamo proprio noi (è stato avvisato del nostro arrivo dai colleghi via radio), alza la sbarra e possiamo proseguire. Crediamo che questo sia l’ultimo dei controlli. Illusi! Giunti alla biforcazione con la strada che a destra porta a Murmansk ed a sinistra prosegue fino a Kirkenes, Norvegia, ci troviamo un’altra sbarra, un altro controllo documenti, sempre con gentilezza e pazienza… avessimo noi simili controlli, al nostro confine orientale… Concluse le formalità, siamo liberi di viaggiare: avendone la possibilità, potremmo proseguire, dopo nove fusi orari, fino al Pacifico rimanendo all’interno del medesimo Paese! Un’idea che dà le vertigini, a pensarci bene, lo Stato più grande del mondo si spalanca sotto alle nostre ruote. QUESTA è la vera Eurasia! Bisogna festeggiare! E quindi è d’obbligo stappare il prosecchino e brindare a noi, all’auto, alla Russia e per buon auspicio. Siamo finalmente nella regione di Kola, in pieno inverno, raggiunta con passione e tenacia, con le nostre sole forze ed i nostri sacrifici. Adesso comincia il viaggio vero e proprio, ora comincia l’avventura e, a 10° sottozero, sotto un cielo che promette nevicate, ci abbracciamo gridando “matuška Rossija!” Intanto lo spessore della neve sulla strada aumenta e si corre seriamente il rischio di perdere aderenza…

TAIGA, MOJA LIUBOL’  

Guardiamo il navigatore e l’atlante stradale russo: dobbiamo percorrere ancora circa 200 km per arrivare a Murmansk ed incomincia a farsi buio (cioè il sole sparisce del tutto, ma c’è ancora il consueto chiarore sufficiente). Di spazzaneve, nemmeno l’ombra, e ciò ci lascia un po’ perplessi. Procediamo sulla strada innevata, con neve candida e compatta, la taiga fa da quinta oscura, abeti altissimi e ricoperti dalla neve fresca sembrano scrutarci mentre avanziamo preceduti dal fascio di luce dei nostri fari, chilometri e chilometri nell’oscurità silenziosa, nessuna città né paese ad interrompere la foresta. Meravigliosa, irreale taiga, muta ed innevata, un nostro sogno si è avverato! Ormai è buio pesto quando arriviamo a Verhnetulomskij per fare gasolio ed abbiamo ancora dei rubli cambiati a S. Pietroburgo 4 anni fa; Massimo allunga 1000 rubli (circa 14 euro) alla cassiera e la signora gli chiede: “tutti?”. Sembra che per i russi sia ancora un lusso spendere 1000 rubli di carburante tutti insieme. Saziato il serbatoio, si prosegue, col traffico stradale praticamente inesistente, mentre sparute figure scure appaiono e scompaiono nei fiochi coni di luce dei lampioni, tra neve ovunque e leggerissimo nevischio nell’aria. Che atmosfera da film di spionaggio! Verso le 16.15, come un’oasi nel deserto, intravvediamo le prime luci della cittadina di Kola, che dà nome all’intera regione ed alla omonima penisola protesa tra Mar di Barents, Mar Bianco e Golfo di Arcangelo. Verso le 16.45, in una leggera pendenza, con traffico sostenuto e sfavillìo di luci e luminarie, scritte celebrative e monumenti lustri, facciamo il nostro ingresso trionfale a Murmansk: nel 100° anniversario dalla fondazione, tutta la città è ornata a gran pavese! Sempre a 9 gradi sottozero, brezza leggera e nevica. Foto di rito per immortalare il Nissan ed il suo strepitoso pilota con la scritta Murmansk alle spalle. Ora il nostro primo pensiero è di trovare un albergo ed un cambia valute. Cambia valute non ne vediamo, però la città è piena di banche. Il centro offre parecchi hotel: finiamo all’Azimut, grattacielo a due ali con due alberghi distinti. Alloggio al 16° piano, vista sulla città e sul porto. La camera, tutta in bianco e grigio, è caldissima (25° dice il termostato), offre un bel lettone con vero materasso matrimoniale, piumino matrimoniale anch’esso, wi-fi free, tutti i comfort. Silenziosissima. Ma, nonostante gli spessi vetri termici, riusciamo ugualmente a percepire in sottofondo gli stessi rumori del porto che sentiamo a casa nostra: gru, navi, sirene, ecc. Nostalgia di casa? Ma nemmeno un po’! E per la terza volta, appena messo piede in Russia, non vorremmo tornare indietro per molto, molto tempo. Una rapida rinfrescata, prosecchino di rito perché abbiamo conquistato la nostra meta e siamo nuovamente in strada per cercare una banca e cambiare la valuta. Purtroppo arriviamo che lo sportello ha chiuso da cinque minuti! Pazienza, cambieremo domani. Pertanto, rientriamo in albergo e ceniamo nel ristorante interno, al 3° piano. Arredamento moderno, finestroni panoramici su due lati. Le cameriere parlano inglese, ma poi, quando vengono da noi, ci si rivolgono in russo (col menù in inglese), pertanto io replico col mio modestissimo russo, suscitando in loro ampi sorrisi di sollievo… Bisteccona sostanziosa per Max, pel’meni (ravioli) di pesce e salmone per me: sono sorpresa, invece delle consuete mezzelune, stavolta i ravioloni sono piccoli come tortellini e conditi con una salsina di smetana (panna acida) e ikra, il tradizionale caviale di salmone, e sono davvero ottimi! Ovviamente, birra alla spina, fresca e ben spillata. Dopo cena non resistiamo alla tentazione di gustarci una Murmansk by night, ed usciamo per due passi nella ghiacciaia. C’è ancora tanta gente in giro, il traffico è sempre abbastanza sostenuto, e tanta neve dappertutto. Visitiamo la stazione dei treni, passando attraverso il metal detector che suona di continuo e lo sguardo attento della polizia di guardia, dislocata un po’ dappertutto. La gente attende il treno guardando un film trasmesso dal primo canale nazionale, le sale d’aspetto sono ordinate e pulitissime. Come in strada. Per oggi basta, domani in programma giro turistico, a scoprire come si vive nella città più grande del mondo oltre il Circolo Polare Artico!

MODUS VIVENDI

Durante il viaggio d’andata, ci eravamo immaginati Murmansk come un avamposto sperduto nell’artico, stile Klondike. Non avevamo voluto approfondire di più per non toglierci il gusto della scoperta; sapevamo che è grande grosso modo come Trieste, ma la pensavamo pesantemente militarizzata, con tantissime zone off-limits, praticamente una città caserma, in quanto base della flotta dell’Artico. Invece, a dirla tutta, sembra un po’ proprio come Trieste, una normalissima città, trafficata, che vive col suo porto ed i suoi traffici. Come si vive d’inverno nella città più grande al mondo oltre il Circolo Polare Artico? Come in qualsiasi altro posto del nord Europa… ma un po’ più al buio. Si può ben dire che qui le ore effettive di luce sono 3: dalle 11.00 alle 14.00. Basta. Prima è notte fonda, poi verso le 10.00 arriva l’aurora, poi c’è luce ma il sole, ovviamente, non sbuca da oltre l’orizzonte (e, se nevica, è ancora più buio), poi arriva il tramonto, seguito da due ore di crepuscolo, alle 15.00 si accendono i lampioni e le originali luminarie di Capodanno (il Natale, in terra ortodossa, si festeggia il 7 gennaio), alle 16.00 nuovamente notte. Giriamo a piedi sotto una leggera nevicata e rubiamo con gli occhi tutto quello che ci si para davanti. Le carrozzine per i neonati hanno i pattini al posto delle ruote, che altrimenti si incastrerebbero nella neve, pur compatta, così il pupo può essere scarrozzato senza problemi. Ciclisti? Ovvio, e chi li ferma? Circolano dappertutto, con gomme da neve. Incidenti stradali? Diversi, qua corrono tutti come se al posto della neve compattata ci fosse un bell’asfalto asciutto… E non serve frenare, ci si ferma direttamente sull’auto davanti. Pratico. Ci guardiamo attorno: mendicanti? Zero. Clandestini? Zero. Immigrati? Zero. Africani? Zero. Gente arrivata dalle lontane province dell’ex impero? Sì, ma lavorano tutti come stagionali, qua c’è da spalare neve e spaccare ghiaccio in continuazione, almeno fino a marzo inoltrato. Polizia? Sì, ma meno che a S. Pietroburgo (che è una gigantesca metropoli, in confronto a Murmansk). Senso della patria? Dappertutto: non è solamente propaganda di Stato, qua la gente ci crede sul serio nell’identità di popolo e nazione, basta vedere quanti automobilisti hanno sistemato sullo specchietto retrovisore il nastrino a righe nero-arancio dell’ordine di S. Giorgio, e quanti nastrini si vedono appesi nei negozi, sui calendari… Spiritualità? Tantissima. Visitiamo la chiesa del Salvatore sulle Acque. Ricca di icone e tombe di personalità eccellenti, ci sistemiamo sulle panchette ed osserviamo chi entra; c’è di tutto: gente che passa un attimo, il professionista con la ventiquattr’ore, la massaia con la borsa della spesa, la giovane donna, tutti toccata e fuga, solamente per accendere una candelina, un bacio all’icona, una preghierina al volo e poi via, a sbrigare le incombenze quotidiane. Scolaresche attente e rispettose che ascoltano rapiti quanto racconta loro la maestra. In questo avamposto artico, credenti di tutte le età non mancano di trovare due minuti di raccoglimento; 70 anni di ateismo di Stato non hanno intaccato la profonda fede di questo popolo, ora più che mai risorta a nuova gloria. Cultura? Tanta, tantissima. Altra sorpresa, questa città offre due teatri, un teatro per insegnare recitazione ai bambini, una filarmonica, un conservatorio per gli adulti ed uno riservato ai ragazzi, biblioteche dappertutto delle quali una dedicata esclusivamente ai bambini, tante librerie. Diversi musei, purtroppo non visitati per mancanza di tempo. Nel regno del gelo e del buio, far passare il tempo in modo intelligente è la soluzione migliore. E, quando ci si stufa di studiare, o leggere, o suonare, si può passare qualche oretta al caldo di un centro commerciale: tanti, sfavillanti, in confronto quelli della Finlandia sono bottegucce. Ma con questo freddo, si pratica sport all’aperto? Certo! La Russia è un paese che ha nell’inverno il suo asso nella manica, pertanto c’è gente che si diletta con gli sci da fondo nel parco pubblico oppure hockey; e, al tardo pomeriggio, vediamo tanti ragazzini, reduci da una battaglia sui pattini che, sfiniti dalla stanchezza, si addormentano con il mento parcheggiato sulla mazza da hockey oppure con la testa poggiata contro il finestrino del tram che li riporta a casa… Al freddo ci si abitua fin da piccoli. E quindi ecco che, nell’ora di ricreazione, i bimbi delle elementari corrono nel giardino della scuola a sfogarsi a battaglia di palle di neve, o corrersi dietro sotto alla nevicata. Giardinetti? Dappertutto, puliti, curati, e anche se le attrezzature per i giochi dei bambini sono innevate, non fa nulla: alle 16.00, col buio, a 9° sottozero e con un leggero nevischio, le mamme ed i papà portano i figli a scaricare l’energia sulle altalene prima di tornare a casa. Il pensiero corre inevitabile a chi vive in Siberia, ed affronta temperature estreme; eppure anche a -30° o -40°, i ragazzini non perdono occasione per sfogarsi con tutto quanto il magico inverno propone loro! Cani: certo, quasi ogni famiglia ha il suo inseparabile cucciolo di casa. Peccato che anche qua sia scoppiata la moda delle razze “toy”, tutto un viavai di gente con tremanti pinscher o volpini o addirittura chihuahua al guinzaglio… Giudichiamo sia quantomeno da irresponsabili scegliersi razze simili con questo clima; almeno, in Lapponia, la gente adotta le proprie razze autoctone…

DRESS CODE

Signore e signorine non rinunciano a gonne e tacchi, più o meno alti, soprattutto stivali e stivaletti di tutti i tipi, la neve ed il ghiaccio non le fermano! La gente è molto alta anche qui, grosso modo come i finlandesi. Pochi colbacchi, ma quasi sempre la gente gira a capo coperto (è fondamentale!). Si cura molto l’immagine, anche se non sono poche le persone che preferiscono abbigliarsi con pantaloni da trekking o tute da sci anche per andare al lavoro. La fauna maschile, al contrario, non sembra dare molto peso all’immagine, pertanto parecchi uomini si vestono come loschi faccendieri… le scarpe a punta sono sempre un must, da queste parti.

MC-ASL

Nel nostro bighellonare, incrociamo un luogo di ritrovo che è identico in qualsiasi paese d’Europa, dall’Atlantico agli Urali e, probabilmente, anche nel resto del mondo; stesse finestrone, stesso mobilio, stessi neon, stesse attrezzature… no, non è un McDonald, è un distretto sanitario e consultorio femminile. Non serve nemmeno leggere la targa appesa all’esterno per scoprirlo, basta rivolgere lo sguardo ai grandi finestroni che danno sul marciapiede per ritrovare le stesse, identiche bottiglie di disinfettante stivate sugli armadietti, le stesse carte e gli stessi schedari, e le medesime piante d’appartamento con le fronde spelacchiate che penzolano dalle finestre o dalle mensole e gli stessi annaffiatoi poggiati sui davanzali… tutto il mondo è paese, dicono. E le finestrone, a qualsiasi latitudine si trovino, sembrano un richiamo irresistibile per pothos e filodendri… E’ bello sentirsi a casa, proprio come impone la filosofia del McDonald…

A GUARDIA DEL MONDO

Se Murmansk era il nostro traguardo, Alëša (o Aljoscia) ne è il simbolo. Il gigantesco monumento in cemento al milite ignoto, che raffigura un soldato sovietico alto 35 metri e mezzo che guarda truce verso la Finlandia, era la meta del nostro viaggio. Nel mezzo di una bufera di neve, raggiungiamo in auto la collina dove è installato il colossale monumento, parcheggiamo vicino ad un van… e constatiamo, con disappunto, che è pieno di cinesi! Ma anche qua! D’altronde, sono oltre un miliardo, da qualche parte dovranno pur andare, no? Procediamo a piedi per l’ultimo tratto, non senza un po’ di fatica, perché il vento artico soffia sostenuto: siamo avvezzi alla neve con vento vivace, ma stavolta è un po’ difficile proseguire, perché bisogna scalare la collina abbondantemente innevata e parecchi tratti sono ghiacciati. Ma ce la faremo, costi quel che costi, anche mettendo in conto una caviglia slogata. Finalmente, riusciamo ad arrivare in cima alla collina, all’ombra del gigante. Ci emozioniamo, sarà magari sciocco, ma è così… Il nevischio ci punge occhi e faccia, fare riprese e foto in queste condizioni è un’impresa, ma, come al solito, siamo talmente felici di essere arrivati fin qua, che i 10° sottozero (non calcolando il wind-chill!) e la neve che ti si infila come aghi nei pochi centimetri di pelle scoperta, passano in secondo piano rispetto a quanto vediamo da quassù. Purtroppo la vista non è ottimale perché la nevicata non consente una grande visibilità, ma riusciamo ugualmente a scorgere il golfo di Kola, il porto e la città. Facciamo il giro del monumento affondando nella neve alta, osservando tutto il complesso dedicato ai caduti della Grande Guerra Patriottica; la fiamma perenne che arde imperterrita da un basamento a forma di stella giusto ai piedi del monumento; su una costruzione a forma piramidale è scolpita la scritta “Ai difensori dell’Artico sovietico 1941-1945”; prospiciente, un basso muretto con tutte le lapidi con i nomi delle città martiri e la relativa medaglia al valore: ovviamente Murmansk, poi Leningrado, Odessa, Sevastopoli, Stalingrado, Kerč, ecc.; un paio di pezzi d’artiglieria, un monumento composto da una stella in granito sormontata da una falce e martello stilizzate in pietra, a ricordo dei militari operai di Murmansk, il tutto a perenne memoria di chi ha dato la vita per sconfiggere l’invasione nazista. Dopodichè, scendiamo al monumento al faro, dove vengono commemorati i caduti in mare in tempo di pace e, adiacente al faro, la torretta del sottomarino Kursk, tragicamente affondato nell’agosto del 2000, portandosi sul fondo del Mar di Barents tutti i suoi marinai (in totale erano 118, di questi solo 114 saranno identificati). Sul retro della torretta, incisi in una lastra di bronzo, i nomi ed i gradi di tutti gli sfortunati. Vogliamo rendere omaggio anche noi, come un ideale gemellaggio tra città di mare che hanno visto i loro figli morire tra i flutti; su un pezzetto di carta, ci scriviamo i nostri nomi, da dove veniamo, ed una frase che è scolpita sul nostro Faro della Vittoria che illumina il Golfo di Trieste: “Splendi e ricorda i caduti sul mare”, e lo fissiamo con un nastrino tricolore. Ci soffermiamo un attimo in preghiera per questi uomini e le loro famiglie colpite da una disgrazia che forse si poteva evitare…  La tragedia del Kursk ci aveva profondamente colpito allora ed ogni agosto non manchiamo di rivolgere un pensiero a queste povere anime. Da queste alture affacciate sul mare, ormai ci rendiamo conto che sono davvero tante le analogie con la nostra Trieste: città di mare col porto laborioso, la ferrovia, i traffici, un Golfo che si insinua tra le collinette brulle e con le industrie a filo d’acqua, refoli di vento gelido e nevischio come nei nostri migliori inverni con la Bora, un monumento a ricordare i caduti in mare in tempo di pace, una scalinata panoramica con vista sulla città che ricorda vagamente la nostra Scala dei Giganti… Vagamente, ma ci sentiamo un po’ come a casa… Sopraggiunge il buio, e ne approfittiamo per fotografare, all’ingresso ovest dell’abitato, il monumento col nome della città di Murmansk completamente illuminato, col suo vascello simbolo svettante su un altissimo palo, e le coordinate geografiche al neon: 68° 50’ N – 33° 03’ O e le cinque installazioni in muratura e pannelli colorati che ricordano il ruolo di Murmansk quale martire della Seconda Guerra Mondiale (Grande Guerra Patriottica, per i russi); ogni installazione reca una scritta diversa: Murmansk città degli eroi, città operaia, città guerriera, città portuale della Russia artica, per la difesa dell’Artico sovietico, tutte senza un graffio o un pastrocchio…

QUANDO IL SALMONE SALTAVA E STALIN COMANDAVA…

Il freddo ci mette addosso un languorino. Nel nostro bighellonare pomeridiano (ma sarebbe più corretto dire notturno, visto il buio) ci fermiamo per una birra (il tè caldo lo lasciamo agli astemi) al pub Pilgrim, nome che c’entra poco con Murmansk, ma almeno stiamo un po’ al caldo; legni, ottoni, tante foto e trofei delle giovani promesse di arti marziali ci fanno compagnia mentre ci gustiamo un paio di tartine al caviale rosso e ottime birre pils; ma la sorpresa è uscendo: un poster che ricorda il settantesimo anniversario della vittoria dell’Unione Sovietica, con Stalin che occhieggia sornione sopra alla foto del soldato dell’Armata Rossa che sistema la bandiera sovietica sul Reichstag; ciò non deve sorprendere più di tanto: il georgiano, dopo la sua demonizzazione avvenuta in epoca chruševiana, sembra essere stato recentemente quasi “riabilitato”, in nome di un comune sentire di patriottismo slavo-ortodosso, caldeggiato ormai da anni dal nuovo corso del governo. Alla fin fine, chi comandava la Nazione che ha compiuto lo sforzo maggiore per liberare l’Europa dal nazismo? Via dal pub, ancora due passi nei parchi illuminati dalle luminarie a forma di cuore (ma quanto sono romanticoni, questi russi!) e, in uno di questi, incontriamo il monumento al… salmone. Intuiamo subito il perché di questo singolare bronzo: semplicemente, un torrente che una volta scorreva libero verso il mare, con la costruzione della città è stato quasi del tutto intombato, privando, purtroppo, i salmoni di uno spazio vitale. A “compensazione” di ciò, sulla pavimentazione del pavè occhieggia un quadrato ricoperto da una lastra di vetro, sotto alla quale si può scorgere il torrente che scorre verso il porto  mentre, qualche metro più avanti, una struttura che rappresenta una rete da pesca ed un salmone saltante sembrano rendere una sorta di omaggio a questa importante risorsa ittica. Sempre sorpresi da queste estemporanee sensibilità verso il mondo naturale (e meditando di proporre a Trieste un monumento alle alici), rientriamo in albergo per la cena.

HOTEL AZIMUT

Due parole sull’albergo dove alloggiamo: fa il paio con l’hotel Arktika, che fa parte del medesimo complesso situato in prospekt Lenina, pieno centro; è un quattro stelle, e, tra i vari servizi proposti, c’è pure la gladil’naja komnata (ironing room), cioè una saletta attrezzata con due tavoli da stiro e relativi ferri, è la prima volta che ci imbattiamo in una stanzetta appositamente dedicata allo stiro-fai-da-te! Il buffet per la colazione è pantagruelico, c’è di tutto, praticamente pranzi completi. Anche doppia scelta di uova sode: cotte 5 minuti o cotte 7 minuti, il massimo dei vizi! Come sempre, ci rimpinziamo al mattino per non ritrovarci con un buco allo stomaco all’ora di pranzo e conseguente perdita di tempo (e ore di luce!). In Finlandia io mi sono abituata a far colazione con il salmone accompagnato dal tè. Ma non il solito salmone affumicato, questo è un vero salmone intero, del peso di circa 3 kg, cotto al vapore e perciò sostanzioso e digeribilissimo, da accompagnare anche col succo di pomodoro, e succo d’arancia… Max mi guarda un po’ schifato per queste mie scelte gastronomiche mattutine, e preferisce concentrarsi sulle uova, sui formaggi, sui prosciutti… Nonostante il notevole viavai di gente che alloggia qui per lavoro ed affari vari, e la totale assenza di turisti (a ben vedere, siamo gli unici!), l’albergo è estremamente silenzioso, e dobbiamo notare l’educazione della clientela (quasi tutta russa): telefonini e smartphone sono tutti rigorosamente in modalità “silenziosa” o vibro; non abbiamo MAI sentito un solo squillo di telefono né il “bip” di una notifica e tutti conversano a voce bassa. Ma bisogna arrivare fino all’Artico russo per trovare un po’ di senso civico? Oltre al silenzio ovattato, questo albergo si segnala anche per essere pulitissimo e caldissimo. In camera abbiamo abbassato il termostato da 5 a 3, ed anche così si faceva fatica a dormire per il troppo caldo! Il parcheggio interno è custodito, il personale è davvero cortese, la reception è gestita da giovanissimi ragazzi freschi di scuola alberghiera, sempre sorridenti e, a dirla tutta, entusiasti di lavorare (in tutta la Scandinavia, invece, non è proprio così idilliaco, come abbiamo già riscontrato in diverse occasioni…).

PROFONDO ROSS…IJA!

Purtroppo, dobbiamo già incominciare il viaggio di ritorno. Di primo mattino lasciamo l’hotel per andare in stazione ed acquistare le cartoline (ebbene sì, siamo dei sentimentali ed il rito delle cartoline è sempre colmo di fascino, ed amici senza internet e smartphone sono la scusa per adempiere a questo rito). Ne scegliamo diverse ed una, in formato panoramico, la acquistiamo per noi perché raffigura una visione completa di Murmansk dall’alto ed è splendida da mettere in cornice. I francobolli si acquistano in posta. Bene, ci muoviamo tutto a piedi, col nevischio ed i soliti -7° ed il consueto buio come fosse notte. In posta (modernissima, sembra una filiale delle nostre, tutta in blu, bianco e rosso, con annesso piccolo museo postale con le cassette postali di epoca zarista e dell’URSS), ci accomodiamo ai tavoli per onorare questo rito, nel silenzio generale (3 pensionati in tutto); allo sportello apposito, chiediamo i “marka” (francobolli), l’impiegata si informa se li vogliamo “par avion” (certo!), li appiccichiamo tutti ed imbuchiamo. Missione compiuta in un silenzio irreale. Recuperiamo l’auto al parcheggio dell’albergo e partiamo, sempre col buio, ma fuori Murmansk i paesaggi che ci si parano davanti vanno ben oltre il fiabesco! Il traffico è regolare, scorrevole, rispettoso del codice della strada (8 anni fa ricordiamo che non era proprio così ligio alle regole!), la temperatura scende fino a -9°, sempre col nevischio; sorpassiamo una quantità industriale di laghi ghiacciati ed innevati e ci rendiamo conto che qui, nella bella stagione, deve essere un autentico paradiso naturalistico! Viaggiamo sempre nella taiga più pura, gli abeti sono altissimi ed a forma di fuso, simili a quelli che vegetano in Siberia, in Canada e negli USA, nella stessa fascia artica; causa il freddo e le abbondanti nevicate, i rami sono molto corti perché altrimenti non potrebbero sopportare il freddo intenso sommato al peso della neve che potrebbe schiantare i rami e provocarne la morte. Proseguendo verso sud e dirigendoci alla volta di Kandalakša, questa specie di abete comincia a farsi più rara per lasciare il posto agli abeti rossi ed ai pini silvestri, sempre altissimi, vere muraglie bianche e verdi a bordo strada; purtroppo, molti alberi sono rovinati dalle piogge acide, vero flagello causato da impianti a carbone senza troppi filtri… Avvicinandosi al margine del Circolo Polare, si fanno avanti sorbi e betulle, la mitezza del clima si intuisce col cambiare della vegetazione. Viaggiamo in territori che prima del 1945 facevano parte della Finlandia, poi l’avanzata dell’Armata Rossa ha travolto i confini e, da vincitore, ha preteso parte di questi territori. Lasciamo, con lacrimuccia, la selvaggia regione di Kola (che comprende anche Murmansk)  ed entriamo nella Repubblica autonoma di Carelia. Le consuete 4 ore di luce ci accompagnano per tutta la discesa verso sud, col buio arriviamo al nostro terzo monumento che indica il Circolo Polare Artico (dopo quello svedese e finlandese incontrati due anni fa); anche se non sembra, ma ci stiamo inesorabilmente dirigendo verso il caldo e la luce… Foto ricordo, ed anche qui hanno sistemato una specie di globo di tondini di ferro, ideato per lasciarci un ricordo; lo facciamo anche noi, come purtroppo non abbiamo fatto in Siberia; leghiamo un nastrino tricolore per buon auspicio, lasciato a sventolare assieme alle decine di altri nastri in stoffa che ornano questo globo, per una consuetudine che affonda le sue radici nella tradizione sciamanica che, ovunque, regna in questa terra magica. Come da tabella, col buio “notturno” arriviamo al paese di Louhi e troviamo una gastiniza (hotel), in via Sovietskaja, con annessa rivendita di generi di prima necessità (cioè vino, birra, vodka, acqua minerale e patatine per accompagnare la bevuta), con annesso meccanico, gommista, ecc. Entriamo in questo edificio residuato sovietico, dove parlano solamente russo, ma ormai non è un problema: le signore della reception (se così si può chiamare un bancone in formica con pothos d’ordinanza che penzola da un lato e receptionist con addosso il grembiule da donna delle pulizie) sono tutte molto gentili e pazienti, capiscono il mio interloquire sghembo, ed in pochi minuti sbrighiamo il check-in: camera con letti separati, però calda, pulitissima, confortevole, con doccia e tv e acqua calda da boiler, però la colazione non è compresa. Parcheggio ovviamente riservato e custodito sul retro, accanto alla rimessa dei TIR, con triplo cancello; posteggiamo, poi, ricordandoci quanto ci ha spiegato la receptionist-tuttofare, dobbiamo entrare nell’ufficietto apposito, dove la signora addetta ci consegnerà la “qvietancija” di pagamento, da consegnare alla receptionist. Per la cena, ci accomodiamo nella saletta ristorazione; non è un ristorante, piuttosto un caffè-bar; abbiamo percorso 4.363 km da quando siamo partiti da casa, ora davvero ci stiamo gustando questa singolare vacanza! Ordiniamo le solite birre sciogli-stanchezza sotto lo sguardo compunto di un presidente Putin che illustra le ultime riforme governative in tv, poi la cameriera ci porta come antipasto due ciotole ripiene di pomodori, cetrioli, smetana ed aneto fresco. Ma come fanno ad avere aneto sempre fresco? Evidentemente, è coltivato in serra assieme ai pomodori ed ai cetrioli, che mai e poi mai avremmo pensato di trovare freschi… quassù! Poi ci portano un piatto di riso in bianco, contornato da un cucchiaio di piselli ed una specie di involtino di pollo impanato, il tutto riscaldato al microonde. Almeno ci siamo saziati con qualcosa di caldo e del tutto digeribile. Stanchi, ci arrampichiamo su per le scale dritti in camera. Dalle “stelle” (l’hotel Azimut di Murmansk) alle “stalle” (la gastiniza di stasera). E’ un problema? No, affatto. Anzi: sono proprio luoghi come questi che ti permettono di vivere “da vicino” come un indigeno qualsiasi, a mangiare gli stessi cibi loro, a scorgere nei loro occhi una curiosità che il personale degli alberghi “internazionali”, giocoforza, non possiede. Basta un sorriso in più, lo sforzo (che viene apprezzato) per parlare la loro lingua, e tutto acquista più sapore, anche se è scaldato al microoonde….

PROFONDO ROSS…IJA/2

Col consueto buio pesto mattutino, scendiamo a far colazione, composta da jogurt alla frutta, tè nero, uova all’occhio e due salsicce a testa col ketchup, 2 brioches confezionate, pane e formaggini, il tutto per circa 7 euro. Andiamo a recuperare l’auto e ci accorgiamo che nevica, ma quella che cade non è volgarissima neve, noooo, è polvere di stelle! Il cancello del parcheggio dei camion è ancora chiuso col lucchetto (giustamente protetto dal gelo notturno con una mezza bottiglia di plastica calzata sopra); ci accorgiamo che comunque il lucchetto è già per metà aperto e lo togliamo dal supporto; in quell’istante arriva l’uomo del parcheggio che vuole la metà della qvietancija, dopo di che possiamo anche andare. Siamo sempre a -7° e la “stardust” che tanto ci sorprende è in realtà pulviscolo gelato dell’umidità notturna, difatti dopo qualche ora, con più luce, realizziamo che quello che vediamo nel cielo non sono nuvole, ma solo aria umida che viene compressa dall’alta pressione nei bassi strati dell’atmosfera. Non dimentichiamoci che questa è la patria dell’anticiclone russo-siberiano, un mostro di stabilità atmosferica capace di produrre valori pressori che possono sorpassare tranquillamente i 1050 hPa… Passiamo per la cittadina di Kem’, e ci fermiamo giusto per dare uno sguardo al Mar Bianco e al suo monastero del 1700 costruito tutto in legno e senza l’ausilio di chiodi, come da tradizione di queste parti. In questo luogo sperduto, proteso sul mare color del piombo, nel 2006 hanno girato un bellissimo film, intitolato “Ostrov” (“L’isola”), storia di monaci, miracoli e “folli in Cristo”, ed in questa apparente desolazione ogni cosa sembra assumere un significato diverso, a patto di lasciarsi alle spalle tutte le nostre concezioni “occidentali”. Eccola, la profonda Russia del 2016: parabole sui tetti ma c’è ancora gente che va a prendersi l’acqua dal pozzo in strada, trascinandosi dietro ex bidoni del latte pieni d’acqua sistemati sugli slittini; bambini in comitiva fuori dalla scuola tutti bardati coi giubbini gialli ad alta visibilità; babuške in cappotto e valenki (stivali di feltro) che fanno la spesa al mercatino del paese (cioè camioncini di ambulanti che vendono pane, pesce, carne, verdure), palazzoni di stampo soviet accanto a deliziose dacie restaurate, case in legno mezzo sprofondate nel terreno, tantissima neve dappertutto, e la vita che scorre normale e tranquilla come in un qualsiasi altro paese europeo innevato; il consueto mix di contraddizioni che descrive meglio di tante parole che cosa è tutt’ora la Russia. Alla nostra legittima domanda: “Ma perché ancora non si fa qualcosa per portare l’acqua in tutte le case?” la risposta è la consueta: “Perché… siamo abituati così… e va bene così.”. Aveva davvero ragione l’immenso Fëdor Dostoevskij quando affermava che il popolo russo ha l’esigenza di soffrire, senza la quale sente la vita meno degna di essere vissuta? Diceva questo pilastro della letteratura mondiale: “… Io penso che la più importante e fondamentale esigenza spirituale del popolo russo sia quella di soffrire, in modo continuo ed insaziabile, dappertutto e in tutto (…) non soltanto a causa delle sciagure e delle disgrazie esteriori, ma scaturendo dal cuore stesso del popolo, il popolo russo persino nella felicità ha immancabilmente una parte di sofferenza, altrimenti la sua felicità non gli parrebbe piena…”. Nati per soffrire, dunque… Noi, invece, almeno stando alla temperatura odierna, oggi non soffriamo: fa meno freddo, adesso qui il termometro indica -6°. Non diciamo che si muore dal caldo, però rispetto ai -10° di Murmansk, la differenza si sente, eccome! C’è una bellissima luce del giorno pieno, e il sole continua a non dare cenni di presenza all’orizzonte; ci avviciniamo a quella che supponiamo sia la spiaggia (e che ne sappiamo se è di sabbia o ciottoli? E’ tutto coperto da una consistente coltre nevosa!) ed osserviamo una propaggine del Mar Bianco, che pare una replica dell’Oceano Artico, per tanto grigio e plumbeo si presenta ai nostri occhi di bambini curiosi. Raggiungiamo la chiesa del 1700, purtroppo è chiusa per l’ennesimo restauro. Che peccato! Attigua alla spiaggia, vicino alle ultime case del paese, incontriamo una babuška (la nonnina) di almeno 80 anni, abbigliata con fazzoletto in testa, cappotto, gonna tipo loden e caldissimi valenki in feltro nuovissimi, che con questa neve che sembra ghiaccio secco sono l’ideale per camminarci dentro senza che assorbano la poca umidità e che, con un’agilità invidiabile, si piega a panino per cercare dei cuccioli di cane che si nascondono tra le assi della stalla di casa sua; ci attacca bottone, incurante del nostro essere stranieri che poco comprendono, ci parla dei cuccioli, della splendida gattona a pelo lungo squama di tartaruga che ci studia sospettosa, ed io ne approfitto per qualche scatto ricordo di questo che pare un frammento uscito da un qualche racconto di Tol’stoj… Ciao Kem’, con le tue barche in secca e quell’orizzonte grigio certosino che si fonde col mare dalla stessa tonalità, una palette di colori neutri che non deprimono ma al contrario rilassano occhi ed anima. Di nuovo in marcia, osserviamo il cielo plumbeo che ci si para davanti. L’aria ha un colore? Sì: color piombo! L’aria compressa dalla fortissima pressione atmosferica, assume questo colore tra il grigio e l’indaco, ingannando l’occhio e dando così l’impressione di andare incontro al brutto tempo! Verso le 17.00, ovviamente col buio pesto, arriviamo a Medvežegorsk (traduzione spicciola: monte degli orsi, infatti il simbolo della città è un orso) sempre sotto ad una fitta nevicata di fiocchi misti a lustrini; cerchiamo un albergo, lo troviamo che si materializza sotto forma di una specie di parallelepipedo sovietico denominato Onežskaja, rimesso a nuovo (anni fa, però!), senza ristorante né colazione, ma con comodo parcheggio custodito nel retro. Cerchiamo l’uomo del parking, arriva un ragazzo già abbondantemente ripieno di vodka, però in grado di comunicarci che vuole il “talòn” (tagliando) da fare in albergo. Anche qua l’inglese è un idioma sconosciuto, ma non è un problema, la receptionist  è molto paziente e mi comprende benissimo. La sistemazione è veramente “sovietica”, letti separati, doccia nel linoleum e letti con le federe ma senza sacco lenzuolo per il piumino. Pazienza… Almeno camera calda? Il termometro dice 20 gradi, sufficienti per asciugare sui massicci termosifoni in ghisa il bucato che ho fatto nel micro lavandino. Nonostante l’aspetto dimesso e spartano, la camera è pulita e l’acqua bollente è disponibile a volontà, ed è tutto quello che ci interessa. A lucro di tempo, voglio asciugare una maglia tecnica col nostro phon da viaggio, compagno di tante avventure in terra straniera, ma purtroppo il pusillanime mi pianta in asso bruciandosi e quindi ora… siamo senza phon. In pieno inverno, è una bellissima notizia. Medito di tagliarmi a forbiciate i capelli che, dopo tanti giorni di berretto perennemente calcato sulla testa, hanno ormai assunto la consistenza della lana da materassi. Soprassiedo all’idea e, sconfortati, ce ne andiamo a dormire, e qui una sorpresa ci risolleva la serata: i nostri sono letti in kit: cioè fai da te. Troviamo il sacco lenzuolo, pulito, stirato e ben piegato, sotto alla trapunta fantasia, bisognava soltanto farsi il letto da soli… 

LA MACCHINA DEL CAPO HA UN BUCO NELLA RUOTA…

Sveglia di mattina presto, colazione in camera coi nostri biscotti, e poi partenza per Novaja Ladoga, per gustarci ancora quella meravigliosa luce che dall’aurora (che dura circa un’oretta) passa alla luce diurna; procedendo più a sud, rispetto a Murmansk ora abbiamo guadagnato due ore di luce in più; pensandoci, è un patrimonio. Se in Occidente, di norma, la vita trotta al ritmo di un metronomo posizionato sull’allegro vivace ed in Russia è sistemato in genere sull’andante, quassù ci rendiamo conto che tutto scorre ad un ritmo estremamente più pacifico, tra il lento e l’adagio, e che, a dirla tutta, è il ritmo del battito del cuore, tra i 60 ed i 66 bpm; un ritmo umano. E così anche la luce se la prende comoda… Procediamo dunque in questa luminosità avvolgente sotto alla consueta cascata di lustrini ed attraversando una taiga da incanto ma, in confronto alla Svezia ed alla Finlandia, in Carelia c’è tanto più da vedere: rispetto a 8 anni fa, i russi si sono evoluti sul turismo, quindi la segnaletica turistica è la stessa che si riscontra nel resto d’Europa, crema-marrone, coi vari simboli dedicati, e scritte in russo ed in inglese, pertanto il viaggiatore sa immediatamente che cosa c’è da visitare in quel determinato luogo. A dispetto della vastità del territorio, (siamo pur sempre in Carelia e tutto è immerso nella più profonda taiga), c’è davvero tanto da vedere e qualsiasi vestigia del passato sono adeguatamente valorizzate: che siano carri armati, monumenti, sacrari, linee del fronte, monasteri (tanti!) o bellezze naturali, Svezia e Finlandia, per quanto riguarda la storia, possono andare a nascondersi… Procedendo verso Novaja Ladoga, sul più grande lago d’Europa, visto che siamo in orario favorevole rispetto alla tabella di marcia, decidiamo di dare un’occhiata alla città di Petrozavodsk (significa “la fabbrica di Pietro”, il Grande, ovvio) così ne approfittiamo anche per vedere il secondo lago più grande d’Europa, l’Onega, dove su di un’isola posizionata all’estremità di una lunga penisola, sorge la meravigliosa chiesa lignea di Kiži, la meraviglia architettonica edificata senza nessun uso di chiodi! Non avendo materialmente il tempo da dedicarle (altra meta di un prossimo viaggio, con la bella stagione, magari!) ci dirigiamo verso le sponde del lago. Ma fatti pochi chilometri all’interno del centro cittadino, un tizio dietro a noi ci lampeggia coi fari e Max capisce che c’è qualcosa che non va: un attimo dopo, brutti rumori… abbiamo bucato la ruota posteriore! E nevica, incessantemente, col sereno. Sono le 11.10, ed abbiamo bucato proprio sulla strada principale, logicamente sulla corsia dei filobus! Per recuperare il triangolo, la piastra per il cric, il cuneo di legno e la chiave per i dadi delle ruote, bisogna vuotare mezzo baule… quindi forza e coraggio, trasbordo di tutti i bagagli sul marciapiede innevato, siamo a -6° ed il cielo continua a spolverizzarci di perfetti cristallini bianchi, che ricoprono subito i bagagli come una spolverata di zucchero a velo. Vado a posizionare il triangolo e Max inizia ad alzare l’auto, coi filobus che ci fanno il contropelo, ma nessuno protesta né si innervosisce, i conducenti dei filobus comprendono, e la gente, dantescamente, non si cura di noi, ma guarda e passa… commentando qualcosa; siamo comunque oggetto di curiosità, perché non è difficile notare degli smartphone puntati verso di noi per uno scatto da commentare con gli amici… Io non me la sento di documentare l’accaduto, perché devo tenere d’occhio sia il triangolo posizionato lontano, sia i bagagli depositati sul marciapiede, però registro tutto con lo sguardo: Petrozavodsk è una cittadina che, tra i palazzoni real-socialisti, conserva molta architettura neoclassica dei tempi di Pietro il Grande; diversi bambini portati in giro non su carrozzine ma su comodi slittini, uno addirittura sta comodamente seduto su una morbida pelliccia d’agnello, la soluzione migliore per tenere il sederino al caldo! Cambiata la ruota e ributtati nuovamente tutti i bagagli alla rinfusa nel baule, andiamo a cercare un gommista; chiediamo lumi ad un vecchietto intento a spalare la neve nello spiazzo di un distributore di carburate, lui gentilmente ci spiega dove trovarlo e come arrivarci in un profluvio di parole, capiamo un quarto di quello che dice ma almeno cogliamo l’essenziale; le sue preziose indicazioni ci permettono di scoprire che abbiamo bucato… a 50 metri dal gommista! Il gommista, che in russo si dice šinomontaž, si materializza nella persona di Igor, un carelo autentico, pelle nivea, zigomi da lappone, occhi celeste slavato, il quale non batte ciglio davanti al mio russo telegrafico (per favore, aiuto, gomma, grazie), niet problema, finisce con l’auto del finlandese e sarà da noi. Allora lascio Max, che intanto ne approfitta per rimettere a posto il baule dell’auto, e vado a fare due passi e scattare qualche foto in questa luce che è sempre meravigliosa ed incantata; trovo un robivecchi ricolmo di memorabilie del passato regime e oggettistica di tutti i tipi, più o meno nuova, compreso un mercatino di abiti e divise usate, di militari ed operai, di tutto e di più. La mancanza di tempo ci frega l’opportunità di tornare qua e gustarci questo scrigno delle meraviglie! Nel mio peregrinare trovo anche una pescheria, gestita da una corpulenta ed imperiosa bionda dal trucco teatrale, che anziché dei pesci freschi, sui banconi espone quelli che, ad un occhio attento, sembrano dei fossili… Anche qua ci sono parecchi cinofili, ma almeno sembrano dotati di più buon senso dei colleghi di Murmansk, pertanto i cani che vedo in giro sono quasi tutti razze spitz, compreso un bellissimo esemplare di Cane da Orsi della Carelia, inconfondibile con quella coda arrotolata e gli occhi azzurro ghiaccio su un muso bianco e nero. Sempre cielo sereno, e sempre che da lassù qualcuno che si diverte a setacciare le nuvole per far cadere su di noi la consueta cascata luccicante. La magia continua! Alle 13.30, il gommista Igor dichiara concluso il lavoro, accusando un bel chiodo quale responsabile della foratura del pneumatico, pertanto paghiamo il dovuto (sarebbero 700 rubli, glie ne allunghiamo 1000 con la mancia), ma la curiosità lo sprona a farsi loquace e ci chiede da dove veniamo; gli indichiamo la malconcia bandiera italiana che penzola dall’antenna del cb, allora comprende e ci sorprende con un “buongiorno!” esclamato con gusto, poi vuole sapere da dove arriviamo di preciso; recupero il nostro roadbook, gli indico tutto l’itinerario partendo da Trieste (“moja doma!” gli preciso), lui sgrana gli occhi, ci dice che è lontanissimo e che siamo proprio bravi ad arrivare fino qua. Igor, sei proprio simpatico, ed è giusto che si festeggi l’incontro; Max tira fuori la bottiglia di grappa acquistata per le occasioni speciali e, nell’angusto spazio della sua micro-officina, brindiamo “all’amicizia tra i popoli!”, ci facciamo una foto ricordo, lui ci scrive la sua mail e ce ne andiamo con la sua benedizione. Purtroppo, questo inconveniente ci ha portato via 2 ore e mezzo di tempo (e luce), per cui a malincuore ce ne andiamo senza aver visto né Petrozavodsk né il lago Onega; riprendiamo, con un sospiro, la marcia verso sud, sempre sotto a nevicate assurde, nella taiga sommersa da una coltre bianchissima, incidenti paurosi, luce incantevole, ecc. ecc. Se la Carelia è così affascinante d’inverno, non osiamo immaginarla d’estate … Ma che cosa è bella stagione, poi, in Russia? A noi sembra che sia esattamente l’opposto di quanto intendiamo noialtri “meridionali”…

IL MOTEL DELLE SORPRESE

Arriviamo nei pressi di Novaja Ladoga, ma complice il buio-scuro-pesto ed un infinità di incroci, saltiamo quello giusto e finiamo in un posto che non capiamo nemmeno come si chiama, però questa zona anonima propone un motel, il Kipuja, nuovo di pacca con ancora il cappotto esterno da rifinire; come da consuetudine russa, ci puliamo le scarpe piene di neve su delle spazzole (sono tre scope senza manico, in sostanza) appositamente fissate alla base della scala in metallo che ci conduce fino al primo piano, dove troviamo una luminosa reception nonché scintillanti lavabi in comune; ci accoglie una gioviale bionda robusta, che ci propone diverse camere, con letti separati ed una con letto matrimoniale; ovviamente scegliamo quella col letto matrimoniale, e la simpatica bionda mi fa subito segno d’intesa, ridendo e stringendomi complice un braccio! Le consegniamo i passaporti per la registrazione e lei, gentilmente, ci passa il modulo da compilare a nostra cura… tutto in russo. Bè, ormai abbiamo acquisito una certa familiarità con i moduli alberghieri, per cui, dopo una breve lettura e comprensione di quanto stampato, la registrazione si fa in un momento. La nostra camera, pur nella sua semplicità, è veramente accogliente e molto calda: il calorifero bollente si fa aiutare da una stufetta elettrica, che possiamo tenere accesa durante la notte, quando il riscaldamento centrale si spegne. E’ disponibile un ottimo collegamento wi-fi, i bagni sono in comune, il tutto estremamente pulito; nella zona refettorio è sistemato un bel tavolo grande con servizi all’americana, cestino con la frutta, e tavolo da stiro nel sottoscala, più un mobile con acquaio, piatti, posate, sale, zucchero, ecc, ed un boccione con l’acqua sia fresca sia calda per il tè. Nel frattempo Max ne approfitta per farsi una bella doccia calda; il vano doccia è una stanzetta con spogliatoio, dal quale si accede poi alla doccia vera e propria che, sorpresa delle sorprese, contiene… UN CALORIFERO! In doccia! Finita la doccia, non fa quasi nemmeno in tempo a chiudere la porta esterna che dà sul corridoio che già la biondona entra rapida con secchio e mocio a pulire ed asciugare tutto. Stupefatti da tanta efficienza, ci organizziamo per la cena. Ceniamo in tutta tranquillità e comfort con le nostre provviste, e nel contempo prepariamo un bel piattino con salame, grana padano, crostini e bicchierino di grappa per il marito della bionda, che fa il turno di notte, celato dal vetro a specchio della sua stanza-guardiola-reception. Il signore, bruno e baffuto, quasi si commuove al nostro gesto, però declina a fatica il bicchierino di grappa perché la sua signora non vuole… ah! mai dai! Insistiamo, e lui accetta volentieri, eclissandosi nuovamente dietro il suo vetro a specchio a consumare le nostre delizie e la grappa, al riparo da sguardi indiscreti… A cena finita, si sparecchia, io lavo i piatti e nel frattempo il motel si riempie di nuovi ospiti, una coppia e poi altri tre uomini. La coppia si rintana in camera, mentre i tre uomini ci salutano e si accomodano al tavolone per cenare. Immediatamente, e simultaneamente, ci presentiamo, uno di loro ha già adocchiato il nostro Patrol posteggiato fuori ed ha capito che siamo italiani. L’intesa scatta immediata, loro mettono sul tavolo la loro cena (pesce di lago affumicato e strepitosamente buono), noi contraccambiamo col nostro salame, il grana padano (che, non ce ne vogliano i puristi, ma per farci comprendere meglio dichiariamo che è formaggio “tipo parmesan”), i crostini di pane, la grappa e la bottiglia di limoncello. Davanti a questa tavola imbandita, facciamo così conoscenza di Vadim, Alexei e Vladimir, camionisti di Nižnij Novgorod, Alexei parla anche un po’ di inglese, così in un misto di anglo-russo, ci facciamo una chiacchierata che prosegue anche ben oltre il consentito, difatti il tizio che si era rintanato con la moglie in una delle camere adiacenti, esce a protestare perché si è fatta mezzanotte e potremmo anche andarcene a dormire, no? Mentre il limoncello cala, le chiacchiere aumentano, Alexei ci chiede da dove veniamo (ecco pronto il nostro roadbook a spiegare tutto!), come mai d’inverno, e tutti e tre apprezzano il nostro dichiarato amore per la Russia e per il loro popolo; i discorsi scivolano su Putin (“niet, niet, niet!” per carità, lasciamolo perdere!), poco amato dal nostro camionista, che ama l’Occidente più di noi. Ci mostra le foto della sua famiglia: moglie, cane e figlie bellissime, ci scambiamo gli indirizzi mail, mentre Vadim e Vladimir ascoltano, mangiano, degustano il limoncello e lasciano che sia Alexei a fare gli onori di casa (ci spiega che lui è solamente dipendente, Vladimir è il “boss” della ditta di trasporti). Brindisi finale con foto “all’amicizia tra i popoli”, il limoncello ormai è solamente un pallido ricordo, i tre simpatici camionisti sparecchiano e lavano le stoviglie da loro utilizzate, io lavo i restanti bicchieri e lasciamo la sala mensa linda e lustra come l’abbiamo trovata. Mezzanotte passata, a nanna tutti, noi dobbiamo partire, loro devono lavorare. Ci addormentiamo pensando ancora alla pulizia trovata in tutti i luoghi dove siamo stati, all’educazione ed alla gentilezza riscontrata dappertutto…

VERSO IL SOLE (PURTROPPO…)

Abbiamo dormito come pupe nel bozzolo, i termosifoni erano spenti, ma il piccolo calorifero elettrico, messo sul minimo, ha mantenuto la camera in un confortevole tepore. Stamattina il cielo è coperto, fuori il termometro indica -8° e nevica, una nevicata vera! C’è un viavai nelle zone in comune, le docce già occupate, i camionisti sono tutti in piedi, ed io vado a lavarmi i denti nei lavabi all’ingresso, con Vladimir che si fa la barba accanto a me… una cameratesca condivisione degli spazi comuni, un reciproco “dobroe utro” (buon giorno) condito da sinceri sorrisi e naturalezza di gesti da toeletta. In camera abbiamo fatto colazione con i nostri biscotti ed i succhi di frutta, siamo già pronti per partire quando la signora bionda ci dice che ha preparato una polentina di mele e che possiamo anche farci il tè caldo! Un tè caldo non si rifiuta, e ne approfittiamo per riempirci un po’ di più lo stomaco. Sono partiti tutti, siamo gli ultimi ad andarcene, con davvero un bellissimo ricordo di ospitalità russa. Facciamo il punto nave, siamo nei pressi di Staraja Ladoga (per la precisione, siamo ad un centinaio di km. da S. Pietroburgo ed a 13 km da Gorgala). Stavolta partiamo con comodo, osserviamo la neve che cade e copre tutto: fiocchi così perfetti da sembrare fatti con lo stampino: di ogni fiocco si possono nettamente distinguere i bracci e i minuscoli aghetti che ne spuntano, davvero sembrano finti. Qualche km più a sud, direzione S. Pietroburgo, il cielo schiarisce fino a diventare velato, ma la neve continua a cadere a larghe falde. Nel nostro peregrinare, siamo sempre accompagnati da Radio Dorožnoe (Radio Strada) una specie di Isoradio in salsa russa, udibile da S. Pietroburgo a Vladivostok, poca pubblicità e tanta musica vera, russa ed internazionale, compresi vecchi successi di Sanremo! Verso le 10.30, nei dintorni della riva meridionale del lago Ladoga, spuntano i primi raggi di sole. Praticamente, ormai erano 10 giorni che non li vedevamo! Bisogna immortalare l’avvenimento, le lame di luce che colpiscono le cime degli abeti sono uno spettacolo al quale non eravamo più abituati. E già cominciamo ad esserne un po’ infastiditi… Giunti al ring esterno per S. Pietroburgo, il sole è già alto (si fa per dire, ovvio) e, con questa palla luminosa in faccia, nevica a larghe falde! Continuiamo a stupirci per queste magie! Fa freddo, in alcuni punti tocchiamo i -11°, le strade sono una lastra di ghiaccio e si scivola con facilità (noi e tutti gli altri, chiodi o non chiodi); ad un semaforo rosso in centro città, non riusciamo a mantenere aderenza e, nella nostra corsia, scivoliamo con la grazia di una pattinatrice, e soltanto l’esaurirsi della forza d’inerzia ci evita di andare ad appoggiarci al paraurti del camion che ci precede… fiuu! Stavolta ci è andata bene! Questo sole, oltre che averlo sempre in faccia, disturba non soltanto perché non si è più abituati, ma le strade velate dal ghiaccio sono un immenso specchio riflettente, per cui il riverbero è accecante ed è davvero un’impresa riuscire a vedere qualcosa più in là del cofano. Infatti, non riusciamo a vedere il cartello con l’uscita per Pskov, per cui siamo costretti a farci tutta SPB, con le sue trafficatissime prospettive e sciossèe (stradoni a 6 corsie), prima di riuscire ad imboccare un’altra uscita per Pskov. SPB si conferma nuovamente come una splendida città, ed anche l’architettura sovietica dei primi anni ’30 merita di essere rivalutata per la sua “modernità”. La maggioranza degli edifici sono stati restaurati, per cui pare tutto nuovo, e pulito. Nota linguistica: ricordarsi che STOP qua si pronuncia STAP. Fuori dal centro, in provincia, ci sono numerosi baracchini che vendono rami di betulla  ancora verdi, necessari per la “banja” (la sauna), oppure bottiglioni di antigelo per parabrezza, che stanti le continue nevicate e le pozzanghere in strada, vanno via come acqua fresca nel deserto. Via dalla città, che anche in questa stagione è un’ “isola di calore” la temperatura scende a -12°, sempre col sole che spacca e col nevischio di lustrini. Passiamo per la cittadina di Medved (orso, un nome, una garanzia), situata in mezzo alla foresta, e poco dopo incrociamo numerosi cartelli che ammoniscono: “Occhio all’orso!”. Attraversiamo una selva di paesini grosso modo tutti uguali, le dacie e le izbe si assomigliano tutte, però, a differenza della Svezia (2000 km di casette identiche rosse e bianche), qui la gente si diverte a dipingere le casette con vari colori, quindi in questo universo bianco smalto almeno si rileva un po’ di vivacità. Quasi tutte, però, non hanno l’acqua in casa… Sacche di povertà e miseria si rilevano ancora un po’ dappertutto, soprattutto tra la gente anziana: infatti lavorano tutti per rimpinguare la misera pensione, chi spala la neve, chi fa il guardiano dei parcheggi… I disastri di un impero perduto. Tra le decine di cose interessanti che non riusciamo a vedere per la solita maledetta mancanza di tempo, incontriamo anche la casa museo del compositore Nikolaj Rimski Korsakov!

UN TRAMONTO DI MADREPERLA

Proseguendo verso sud, ritroviamo un tramonto classico, ma il colore che assume il cielo è particolarissimo: è di una stupefacente tonalità di madreperla, tra il rosa ed il grigio perlaceo, la stessa sfumatura che si ritrova nelle migliori scatole di Palekh!  Il “russkij mir” non finisce di sorprenderci con le sue magie, anche un tramonto ci riempie il cuore di struggimento come un trascinante valzer di Čaikovskij… Il fiabesco crepuscolo ci accompagna lungo tutta la strada per Pskov, che raggiungiamo ormai col buio inoltrato (ma siamo ancora in pieno pomeriggio!).

HOTEL TRANZIT

Seguiamo le indicazioni per l’albergo “Tranzit”, adiacente ad una stazione di polizia ed al locale aeroporto, scalo così scalcinato da sembrare l’aeroporto della “Piccione Airlines”. Il Tranzit è un albergo che, ai tempi dell’URSS, era destinato agli operai dell’attigua fabbrica di materiale elettrico (lo intuiamo dalla targa posta sopra l’ingresso). La camera è decente, color albicocca, il mobilio risale a vent’anni fa, è calda, ha il wi-fi, un bel letto coi cuscini in piume, il bagno è spazioso e tutto in azzurro, ma il piatto doccia ha una perdita, trasformando così il pavimento in un lago dei cigni… I termosifoni, sempre di pesantissima ghisa (ed ormai lubrico oggetto di desiderio per noi “occidentali”) in bagno sono celati in una nicchia coperta da un copricalorifero tipo paglia di Vienna; dato che ho fatto il bucato e voglio approfittare dei termosifoni per asciugare i panni, tolgo la copertura e… vicino ai pesanti manufatti in ghisa, abbondantemente impolverati, dalla muratura spunta un pulsante con una lucina rossa… un mezzo sorriso mi corre per la faccia, pensando ai microfoni che, ai bei tempi, potevano celarsi ovunque; ma forse, più semplicemente, è solamente il pulsante on-off dei termosifoni elettrici… mettendo da parte complottismi da 007 “de’ noantri”,  rimetto a posto la copertura, rassegnandomi a tirare lo spago da bucato tra la doccia ed il porta-asciugamani; c’è già un lago sul pavimento, il bucato gocciolante non farà poi questa grande differenza…
Ceniamo (da soli) nel ristorante dell’albergo, al piano terra, una sala lunga dal soffitto basso a mo’ di volta, con un’atmosfera molto intima; ogni tavolo è illuminato da uno spot alogeno sovrastante mentre il resto è tenuto in penombra, così che vediamo la cameriera solo all’ultimo momento; dietro alle mie spalle, un albero di Natale (vero) con tante lucine, addobbato con semplicità. Siamo decisamente affamati, quindi vai di tartine col caviale rosso, soljanka bollente, šašlik (spiedini di carne) e patate fritte passate nella salsa di funghi, le consuete 4 birre giganti alla spina, acqua, gelato e vodka (cui segue la consueta domanda della cameriera: razione da 50 o 100 grammi?). Il tutto a meno di 30 euro. Rinfrancati, ce ne andiamo a poltrire tra le piume, domani ci aspetta una giornata di relax, con visita del cremlino.

PSKOV, TRA CREMLINO, MONASTERI E… PIOGGIA

Ci alziamo col frastuono dello spazzaneve, tutte le automobili qua sotto ne sono ricoperte, ma, purtroppo, le previsioni del sito di ru-meteo indicano per oggi… pioggia! Ma come! Nell’unica giornata che potevamo goderci quattro passi! Il sito purtroppo ha ragione, ed infatti, poco dopo, la pioggia arriva sul serio… Colazione nella zona bar (prosciutto, uova, tè forte, burro e marmellata), con un vecchio cartone animato sovietico in tv. Usciamo dall’albergo, non senza aver consegnato al vecchietto del parcheggio dell’albergo (che fa tutt’uno col parcheggio della fabbrica) il consueto talòn, che se lo conserva per poi restituircelo al nostro ritorno. Pioviggina, con un cielo marzolino, gonfio di nubi baltiche. Parcheggiamo agevolmente vicino alle mura del cremlino e comincia a piovere, con vento da sud-ovest, carico di umidità marina. La temperatura si alza e arriva quasi a + 4°, rischiamo seriamente di morire dal caldo! Purtroppo la pioggia non ci dà tregua, per cui ci ripariamo all’interno della Cattedrale della Trinità (fondata nel 1138) e circondata dal suo cremlino. Pskov è una meravigliosa cittadina risalente addirittura all’anno 903, ed il suo centro storico è formato da una cerchia di 4 mura che costituiscono i suoi cremlini (dal russo kreml’, fortezza), ed è punteggiata da una dozzina di splendide chiesette, alcune anche risalenti al XV° e XVI° secolo. Il cremlino, nel corso del XV° secolo, fu sottoposto a ben 26 assedi! Ecco dunque la necessità di dotarlo di ulteriori murature sì da rendere la cittadina impossibile da espugnare! La cupola della cattedrale della Trinità, completamente dorata, nelle belle giornate di sole si può intravvedere anche a 30 km di distanza, tanto qua attorno è tutto piatto! L’interno è impreziosito dalle due splendide tombe dei santi principi reggenti della città, Vsevolod e Dovmont, vissuti nel XII° e XIII° secolo. Proprio in questa città, vennero creati degli elementi di architettura che successivamente sarebbero stati adottati da molte altre città di tutta la Rus’! La città è pulita, ordinata, e molto trafficata, grande grosso modo, anche questa, come Trieste, con la sua grande università e tanti palazzi storici rimessi a nuovo. Davanti all’università, con un Lenin ispirato che regge delle carte in mano, c’è uno studente impegnato nella realizzazione di un pupazzo di neve… ci sentiamo ridicoli, noi infagottati nei giubbotti e calzoni imbottiti, lui in jeans e semplice maglia leggera… è giovane ed è nato qui, è ovvio che per lui questa temperatura è quasi primaverile! Ovviamente, con l’improvviso “disgelo” la neve caduta fino a stanotte si scioglie, trasformando le strade ed i marciapiedi in un dedalo di torrenti in piena, e la neve ridotta in poltiglia, mantecata dalle automobili in transito, inzacchera tutto e tutti. E’ facile intuire che marzo ed aprile, col vero disgelo, devono essere i mesi peggiori! All’ora di pranzo, anche per ripararci dalla pioggia insistente, ci concediamo uno spuntino ai piani alti del centro commerciale con vetrata panoramica sul giardino pubblico, abbellito dalla statua di santa Ol’ga, una nobile locale andata in sposa a Igor di Kiev, matrimonio che si fa risalire all’epoca della fondazione della città. Rinfrancati, e constatato che la pioggia ci concede una finestra di tregua, ne approfittiamo per due passi per la Oktjabrskaja Uliza, la via principale di Pskov; attraversiamo il  giardino pubblico rendendo spiritoso omaggio ad un simpatico monumento al fabbro, vediamo gli operai impegnati nel montaggio delle luminarie di Capodanno, curiosiamo le vetrine e qualche negozio alla ricerca di qualche souvenir particolare, ma purtroppo non troviamo niente che ci ispiri; passiamo accanto all’ufficio delle poste e telecomunicazioni, involucro in cemento squadrato, ma dai singolari altorilievi decorativi in simil-bronzo illustranti tutte le fasi della comunicazione umana, dai “primitivi”, alla prima forma di parola diventata legge, passando per il teatro antico, fino ai tempi bellici, ai primi telegrafi, al satellite che permette la comunicazione tra persone distanti nel mondo, per finire con un “ukas”, cioè un decreto scolpito in tutta la sua gloria sulla facciata principale dell’edificio, che recita (con spicciola traduzione) questo: “Decreto del Presidium del Soviet Supremo dell’URSS sulla attribuzione, alla città di Pskov, dell'Ordine della Bandiera Rossa del Lavoro per i successi conseguiti dai lavoratori della città per la gestione economica e lo sviluppo culturale, notando il loro contributo al movimento rivoluzionario nella lotta contro gli invasori fascisti tedeschi durante la Grande Guerra Patriottica, premia Pskov con l’Ordine della Bandiera Rossa del lavoro. Mosca, Cremlino, 19 marzo 1984”. Meglio tardi che mai, pensiamo noi… Proseguendo nel nostro giretto, entriamo in una carto-libreria alla ricerca di qualche idea; lasciamo lo zainetto negli appositi scaffetti e seguiamo delle orme di scarpe sistemate sul pavimento a mò di percorso obbligato, sempre sotto l’occhio vigile non solo delle telecamere di videosorveglianza, ma anche di severissimi sguardi di ghiaccio delle commesse, quasi fossimo in una gioielleria. Bighellonando tra gli scaffali ricolmi, seguiamo sempre le impronte impresse sul pavimento, senza avvederci che stiamo entrando nella zona del magazzino; su una parete, in alto tra gli scaffali, c’è la foto ufficiale del presidente Putin, noi proseguiamo e subito ci viene il sospetto che siamo ormai nel retrobottega; una zelante commessa in grembiule ci viene incontro, ed alle nostre pronte scuse, ci risponde con un sorridente “nicevò, nicevò!”: significa “niente, non fa niente”, ed in questo semplice avverbio si condensa tutta la pazienza e la fatalità del popolo russo: “nicevò, non fa niente” pronunciato di fronte alle avversità, ai ribaltamenti della fortuna, alle disgrazie di vario genere, alle durezze di una vita che sembra sempre improntata al sacrificio. “Nicevò”, non fa nulla, si tira avanti e si sopporta. Ma non si molla…
Prima che faccia buio, torniamo alla nostra auto, riprende a piovere e non mi accorgo di aver perso il paraluce nella neve (che oggi mi serviva per proteggere l’obiettivo dalla pioggia). Altro obolo per Matuška Rossija… Rapido giro della Pskov by-night, forse ancora più suggestiva, con le sue luminarie, le chiese ed i palazzi che si specchiano nel fiume Velikaja. Ormai la giornata è finita, per cui rientriamo in albergo; il sito ru-meteo.ru ci informa che domani avremo pieno sole e saremo nuovamente sottozero, a -8° per la precisione; ottimo, così con tutta l’acqua che oggi inonda le strade, domani ci ritroveremo a pattinare sul pack… Non ci resta che andarcene a cena qui sotto, stavolta in tuta e ciabatte (come i locali…). Questa è l’ultima notte in terra russa, e domani saremo nuovamente nelle sperdute lande baltiche. Finito di cenare (stavolta, in compagnia di un’altra coppia ciabattata, in fondo alla sala), tiriamo un po’ le somme e ci perdiamo in brindisi: al pilota, all’auto, a noi due per l’organizzazione, la tenuta fisica e morale (5.743 km di freddo, buio e neve continua, il tutto in un traffico bestiale fino in Estonia), alla sottoscritta quale poliglotta da barzelletta, ed alla nostra eterna madre Russia, che anche stavolta ci ha accolto nel suo abbraccio fatto di strepitoso e rutilante inverno degno di questo nome, di cortesia, educazione, gratificanti incontri, paesaggi da fiaba, ordine, pulizia, e la soddisfazione di aver nuovamente visitato un minuscolo spicchio di questo Stato che marcia spedito nella sua idea di progresso (anche se, purtroppo, spesso si dimentica di qualcuno per strada) e prosegue nella sua personale visione della vita, della società, del mondo. E’ chiaro che terminiamo i brindisi con un groppo in gola. E’ logico che ci porteremo nel cuore tutto di questo viaggio, come non abbiamo dimenticato nulla della nostra prima volta in terra russa, 8 anni fa, nulla abbiamo scordato della toccata e fuga a SPB di 4 anni fa. Nulla verrà tralasciato, anche le piccole cose che sembrano di scarsa importanza, tutto contribuisce a far cumulo di esperienze e, soprattutto, di emozioni, che rimarranno marchiate a fuoco dentro di noi. E pensiamo già a quanto poterci ritornare ancora, ancora, ancora e, rammentando nuovamente Majakovskij…


Come volevasi dimostrare… Il precisissimo sito ru-meteo ieri sentenziava: per oggi a Pskov avrete un sole che spacca e 8° sottozero. Infatti: durante la notte l’anticiclone russo-siberiano ha ripreso il sopravvento, scacciando con la sua forza pressoria il cuneo ciclonico e ributtandolo nel Baltico, per cui qua fuori il sole si fa largo in un cielo terso e blu cobalto, il termometro indica -8° e le strade sono tutte un pack. Stamattina abbiamo intravisto uno spargisale, pertanto i marciapiedi e le strade laterali sono bloccate dalla morsa del ghiaccio, mentre le strade principali sono sgombre. Scendiamo con i bagagli ed è una vera impresa raggiungere la nostra auto senza rischiare di romperci una gamba. E’ tutto una lastra di ghiaccio! Perfino il Patrol è stretto nella morsa del gelo: portiere, maniglie, tergicristalli, vetri… tutto un blocco. Perderemo un po’ di tempo per “sghiacciarlo” senza grossi problemi. Prima di andarcene dal parcheggio, si avvicina il consueto vecchietto che rivuole il “talòn”, ci fa un sorriso a rastrelliera e, in perfetto italiano, ci dice “arrivederci!”. Non abbiamo più altro da dargli se non l’ultimo pocket-coffee rimastoci… L’alba arriva poco dopo le 9.30, allontanandoci dal centro città passiamo pure davanti ad una scuola Montessori, filiale di Pskov… mah. Ancora profonda, profondissima Russia: dacie di tutti i tipi, izbe idem, qualcuna sprofondata nel fango, qualche altra ben tenuta, ma tutte abitate, perfino una casupola che si intuisce, dalla metratura, essere di una sola stanza, ma col numero civico ben in vista all’ingresso e cavo della luce che arriva fin sul tetto. Crisi degli alloggi? Boh… Senza ombra di dubbio, resistenza e tenacia non mancano a questo popolo. Cerchiamo, purtroppo senza successo, di trovare il monumento, recentissimo, eretto a S. Alexandr Nevskij, patrono di tutte le Russie, colui che, nel marzo del 1242, in un’epica battaglia sul lago Pejpus/Čudskoje completamente ghiacciato, sconfisse le armate teutoniche e protesse così la sacralità del suolo ortodosso dall’invasione protestante; il regista Sergej Eiženstejn gli ha dedicato un appassionato film, tutt’ora insuperato per la forza ed il nitore di quelle splendide immagini in un bianco e nero accecante. Il monumento sappiamo essere enorme, purtroppo le indicazioni stradali sono inesistenti, le persone interpellate sono vaghe ed ognuno spara km a piacimento, per cui non ci resta che fare dietrofront per avvicinarsi al confine con la Lettonia, col sole ormai padrone incontrastato di questi cieli. Arriviamo al confine alle ore 13.35, ora di Mosca, controllo dei documenti coi soliti ragazzi in colbacco, poi arrivano le doganiere in gonna, stivali e specchietto telescopico per controllare il fondo del Nissan. Siamo a -7° e tira un vento gelido da tagliarci le dita. Siamo scesi con solamente addosso un maglione ed un giubbino senza maniche, e così svestiti facciamo la trafila in dogana, ma resistiamo stoicamente. All’ennesimo controllo documenti, la severa doganiera ci fa cenno che possiamo anche rimetterci in auto per ripararci dal freddo! Ne approfittiamo per indossare giubbotto e berretto, perché veramente il vento è tagliente. Possiamo proseguire per l’ultimo controllo ai documenti, dietro allo sportello (ma lo fanno apposta?) c’è la sorella russa di Cate Blanchett, una bellissima donna dai capelli rossi e la frangetta rubacuori, due fiori di lino al posto degli occhi, e ci sorride, mentre sfoglia i nostri passaporti, si sincera dalle foto che siamo proprio noi quelli nascosti sotto ai berretti, sempre con il sorriso pronuncia i nostri nomi, ritira la carta d’immigrazione, ci appone il timbro d’uscita, ci saluta con un “goodbye” e sempre con questo sorriso da pubblicità di dentifricio… ed a noi ci viene da piangere. Sì, Matuška Rossija, abbiamo condiviso il freddo con te, e mai potremo smettere di amarti.

BENVENUTI IN E.U. (sì, come no…).

Guadagniamo il confine lettone, controllo dei documenti, poi possiamo procedere con la dogana; siamo in EU, quindi è necessario compilare la dichiarazione di importazione: vodka, liquori, sigarette, vino. Noi non abbiamo niente di tutto ciò. Non ci credono: due italiani che tornano dalla Russia senza nemmeno una bottiglia di vodka?  Una stecca di sigarette? Impossibile! Altra domanda (sempre in inglese): ma non avete proprio niente? Ripetiamo di no. Allora ci fanno aprire il baule; solito controllo sommario del contenuto, poi il biondino anglofono ci domanda che cos’è questo, indicando il contenitore grigio; il frigo, rispondo. Lo apriamo, il biondino tira fuori il “ghiacciolo” di plastica blu e ci domanda cos’è (argh!). Poi si accorge che dentro al frigo riposano un salame, un pezzo di grana padano sigillato, un trancio di prosciutto crudo ancora sigillato, praticamente le nostre provviste per le emergenze. Ci dice che non si possono importare in Lettonia. Gli spieghiamo che non stiamo importando niente, questa è roba italiana, ancora sigillata, che ha fatto andata e ritorno sempre richiusa nella propria busta, non è roba russa, e gli mostriamo le etichette con le scritte in italiano ed il prezzo in euro… Inutile. No, risponde lui irremovibile, dalla Russia non si può importare né carne, né latte, né derivati, e mi indica un cartello in 4 lingue dove dai pittogrammi a stento si riesce a distinguere un cartone del latte, per il resto bisogna armarsi di notevole fantasia per indovinarne il significato… Insistiamo col mostrargli che è roba italiana per giunta sigillata. Niente da fare, “law is law”, ci ripete fermamente, per cui il tutto diventa semplicemente “trash”. Ah, sì? Bene: allora Max prende una taglierina, va verso i bidoni del “trash”, apre la confezione del prosciutto crudo, lo taglia a pezzi e butta tutto nel bidone, idem col salame. Se li volete voi, ripescateveli dai rifiuti. Benvenuti in UE. Quello che ci sfugge, però, è il motivo per il quale ci hanno lasciato il grana padano… Sensi di colpa? Disattenzione? Ah, misteri. Intanto che attendo in restituzione i passaporti, mi si avvicina un distinto sessantenne russo in loden, in attesa di entrare nel suo Paese, mi chiede in inglese da dove veniamo, se siamo andati in Russia per lavoro… di norma vedo di non dare troppa confidenza se l’interlocutore non fa il camionista e non si chiama Alexei, pertanto rimango sul vago e gli dico che siamo semplici viaggiatori innamorati della Russia… ribatte che siamo davvero coraggiosi, per essere arrivati fin là e d’inverno… poi aggiunge, con aria greve e partecipata, che ha sentito che in Italia è un brutto momento, per il governo (si è da poco tenuto il referendum costituzionale, con conseguente batosta per la maggioranza)… abbozzo, ma se sapesse lui quanto ci frega del referendum a noialtri in questo momento, se pensiamo al prosciutto crudo ed al salame intonsi buttati in discarica per idiote ed assurde regole europee che proprio tutti i nostri governi hanno tacitamente approvato! A sapere un tanto, li avremmo regalati al vecchietto parcheggiatore di Pskov, così da far contento lui e la sua famiglia per le feste di Capodanno! Argh!

DISCARILAND

Ore 13.50 (ora di Riga), siamo in Lettonia, strade in pessime condizioni e cumuli di immondizia dappertutto. Che bel biglietto da visita, bella immagine evoluta che diamo ai russi! Davvero edificante, c’è da andarne fieri. Sorpassiamo lo Stato-francobollo ed arriviamo in Lituania, dove ci accorgiamo, dai tabelloni stradali, che per transitare qui, non serve la vignetta. Chiediamo lumi alla tizia del baracchino apposito (parla solamente in lituano e un po’ di russo, e non si sforza di più); Max viene avvicinato da un camionista ucraino, il quale gli conferma che per le automobili la vignetta non è necessaria, realizziamo così che all’andata la tizia ci ha fregato 11 euro… Nel buio, oltrepassiamo Vilnius per fermarci a metà strada tra Vilnius e Kaunas, alla ricerca di un posto qualsiasi dove buttare le nostre carcasse, ormai con 6.300 km alle spalle. Un cartello dice “Tony resort”. Non è il “Tony” ad insospettirci, quanto l’abbinamento tra il nomignolo confidenziale e rustico con la parola “resort” che tutto sta ad indicare all’infuori di una sistemazione popolare… Stiamo a 6° sottozero, la strada è tutta un pack, seguiamo le indicazioni che ci portano ad inerpicarci in una splendida pineta completamente glassata di ghiaccio, e per raggiungere la reception dobbiamo lasciare l’auto in un parcheggio sottostante (tutta una crosta gelida) e salire una scalinata in legno precariamente illuminata, completamente ghiacciata anche questa. Rivolgendo silenziose preghiere a S. Cristoforo, patrono dei viaggiatori, perché ci salvi da una frattura assicurata, ci inerpichiamo agguantati al corrimano. Finalmente, arriviamo in cima al monticello e facciamo il nostro ingresso alla reception, modernissima. Scopriamo che siamo in bassa stagione, periodo di sconti, per cui con poco più di 60 euro ci assegnano una camera al primo piano con colazione inclusa. Chiavi in mano, ci dirigiamo verso la nostra camera, che non sta in questo edificio, ma in singolari costruzioni ellittiche, coi muri esterni ricoperti da centinaia di scandole in legno, da raggiungere attraverso la pineta, ovviamente ghiacciata. Entriamo nell’ingresso, saliamo una stretta scala a chiocciola e ci troviamo in una modernissima camera, dall’impronta maschile, tutta in legno grigio e testa di moro, arredamento Calligaris, lenzuola italiane grigio perla in rasatello, riscaldamento a pavimento, illuminazione soffusa ad incasso, mega vetrata con vista sulla pineta. Davvero stupendo. Ah, c’è una pecca: il cristallo del tavolino-scrivania è stato montato al contrario… Allarghiamo le braccia e facciamo un sospirone, vabbè, pazienza, ci passeremo sopra… J Scendiamo per la cena, la sala ristorante è situata nell’edificio con la reception, in un piano ribassato che segue la morfologia della collinetta sul quale è costruito l’edificio; enormi vetrate anche qui, grande uso di legno al grezzo e vetro, ottima illuminazione. Ci concediamo due bistecche di angus serviteci ancora sfrigolanti direttamente nella loro padellina in ghisa, verdure alla piastra e birre locali, forse un pochino troppo amarognole, ma decisamente beverine… Ovviamente, ci pregustiamo una dormita da papa, nonostante il cruccio del ripiano del tavolino montato al contrario…

BENVENUTI IN ABSURDISTAN!

Dopo una sazia colazione nella medesima sala di ieri sera, gustandoci anche il panorama della foresta ghiacciata che intravvediamo dai finestroni (sì, indubbiamente questo posto è fantastico!), a 9 gradi sottozero raggiungiamo il povero Patrol, ormai diventato un iceberg. Giornata splendida, e, come talpe, facciamo ancora fatica ad abituarci a tanta luce! Aiuto! Partiamo alla volta della Polonia. Per quanto ci riguarda, questi stati baltici, al di fuori delle capitali (che non abbiamo visto) per il momento sono stati una mezza delusione, dato che non sembrano offrire null’altro che campagna povera e qualche foresta. Peccato, magari un giorno ci ritorneremo per cercare una smentita. Siamo sempre all’interno dello spazio Schengen, per cui il nostro ingresso in Polonia risulta liscio e tranquillo. E si vede che siamo in Polonia: più pulizia, strade ottime, cartelli stradali enormi che li vedrebbe anche un orbo (TIR ostruisci-visuale a parte), paesaggio interessante anche d’inverno. Ma col solito traffico pesante bestiale e snervante. Verso le 17.00 la stanchezza di Max inizia a farsi sentire, per cui approfittiamo di uno dei tanti motel che si trovano a bordo strada, ad un centinaio di km da Lublino. Farsi capire è dura, l’inglese anche qua, come in Russia, è poco frequentato, ma non ci perdiamo sicuramente d’animo: se ci metti dentro due parole di russo, con sollievo generale, ti vengono incontro col polacco che un po’ ci rassomiglia, poi ci si comprende anche a gesti e, nonostante sia stanca anch’io, mi sovviene anche qualche parola di polacco imparata nel 2009, così riusciamo a capirci per la camera, la colazione, la cena, dove andare a pagare, il tutto senza difficoltà, i polacchi sono pazienti. Ceniamo là, il menù è rigorosamente in polacco, ma sempre di lingua slava si tratta, per cui, convertendolo in russo con un poco di fantasia, ecco che salta fuori una cena composta da zuppa di pomodoro, insalata mista con petto di pollo grigliato, uova, pomodori, salsa tartara e per Max una bistecca, via di mezzo tra una milanese ed una ljublijanska… le birre solo in bottiglia, purtroppo a temperatura ambiente, perciò… calde! Aarghh! Le birre calde no! Che orrore… peggio del tavolino montato al contrario. Saliamo in camera, semplice però munita di bagno spazioso, e caldissima, con vista direttamente sulla pompa di benzina e pattuglia della polizia stradale che controlla minuziosamente i documenti di un carro bestiame che trasporta vitelli vivi, tristemente mugghianti. Domani ci attende la Slovacchia.

ŻIWIEC POLSKA!

Massì, sempre viva Polonia, anche se ti lasciamo col poco felice ricordo del tuo essere un cantiere infinito, con una selva di strade in rimessaggio e la costruzione di nuovi svincoli, sottopassi, rotonde, bretelle, collegamenti, raccordi, mezzerie, cavalcavia, ecc ecc ecc, dei quali due quinti si perdono nelle statali, altri due quinti si diluiscono nelle campagne ed il restante quinto muore nelle strade mai rimesse a nuovo dai tempi di Jaruzelski; tanto sono fondi UE, pertanto per non perdere i fondi strutturali, si asfalta pure in dicembre, col buio delle 16.00, a 4° sottozero…

SLOVACCHIA, TRA LUSSO E DEGRADO

Arriviamo al confine slovacco per acquistare la vignetta, ora siamo a 6 gradi sottozero sotto ad una impercettibile nevicata. A Prešov troviamo un alloggio di fortuna incassato in città: trattasi dell’hotel Enchantè, cortesissimo personale anglofono tutto al maschile. Tanti quadri naïf dappertutto, in vendita. Dopo una piccola battaglia con la chiave elettronica (difettosa), entriamo in quella che non è una camera, ma una vera e propria suite: divano di pelle bianca, tappeti, mega letto, finestrone panoramiche, architettura moderna ma decisamente accattivante e molto accogliente nel mescolare legno, metallo, vetro; c’è un vano guardaroba, poggiolo, e, meraviglia, un bagno a mosaico con doccia da un lato ed una mega vasca biposto, biancheria da bagno come se piovesse… davvero, quest’anno più degli altri passiamo dalle stelle alle stalle e viceversa. Questo posto è sul serio un incanto! Decidiamo di scendere subito per la cena, dove scegliamo un succulento gulaš (troppe carote, sentenzia Max, io aggiungo che nel gulaš – secondo la vera ricetta ungherese - non ci vanno le carote…) e ci rinfranchiamo con le sempre ottime birre slovacche, in un ambiente intimo e tranquillo, con una rosa (finta) gentilmente sistemata nel portatovagliolo, sempre circondati da questi quadri naïf con soggetti campestri e contadini; le pietanze vengono servite con classe e con molto gusto nella presentazione. E anche qua, sconto perché siamo in bassa stagione! Uh! Finita l’ottima cena, ci concediamo, finalmente, un meritatissimo e rilassantissimo bagno bollente con birretta della staffa a bordo vasca perché, giusto per amor di cronaca, abbiamo oltre 7.200 km sotto al sedere, di cui 3.500 su neve e ghiaccio… Il giorno dopo partiamo, riposatissimi e coccolati dall’Enchantè, alla volta di Bratislava, ma quello che ci si para incontro non è uno scenario troppo accattivante: già in periferia della capitale, il casino è impossibile, troppo traffico e davvero troppi, troppi individui poco raccomandabili, non vogliamo rischiare, a questo punto del viaggio, un furto o un danno all’auto. Durante la discesa verso l’Austria, lungo la strada incontriamo una sequela di locali e localini che propongono “hot experience” e “strip-bar”; giusto per ribadire il concetto, ci imbattiamo perfino in una cittadina che di nome fa “Figa”. Un nome, una garanzia! Si ritorna in un certo degrado del quale, fino a questo momento, non sentivamo certo la mancanza, pertanto ci dirigiamo direttamente alla volta di Graz, dove ci fermeremo per due notti a riposarci ancora e magari trastullarci nei mercatini di Natale.

“ALLE IN GRAZ!”

Sembra che mezza Mitteleuropa abbia deciso di venire a trastullarsi qua, pertanto il traffico è disumano, spostarci col nostro mezzo nelle stradine ZTL è un’impresa improba, e non ci resta che cercare alloggio fuori città. Troviamo un motel insignificante nei pressi dell’aeroporto, coi letti talmente addossati all’ingresso della camera che sembra di stare a dormire in corridoio, sentiamo i rumori di tutti gli altri clienti, la doccia ha la spaziosità di una cabina telefonica, ma siamo davvero troppo stanchi per cercare altro… d’altronde, per 26 euro a cranio con colazione a buffet e wi-fi gratis, non possiamo certo pretendere di più…

“MA CHE COSA CI FACCIAMO QUI?”

Ci svegliamo intontiti, il nostro sonno è stato interrotto più volte da manipoli di ragazze ubriache schiamazzanti per i corridoi. Le pesanti tende sui finestroni della nostra camera celano una luce solare violenta, alla quale facciamo davvero fatica ad abituarci. Scendiamo a far colazione nella veranda, ammiccando gli occhi perché davvero, dopo 10 giorni di buio totale, la normalissima aurora austriaca ci fa sentire come pipistrelli tirati fuori a forza dalla loro grotta. Fatta una colazione del tutto trascurabile, ci dirigiamo al parcheggio per raggiungere Graz e ci accorgiamo che l’altra ruota posteriore del nostro Patrol è completamente a terra. Di nuovo! Col compressore portatile, gli diamo una pompata, necessaria almeno per raggiungere un gommista, ma oggi è sabato e sono tutti chiusi. Constatato che la gomma non perde troppo, in un distributore di benzina, pompiamo meglio la ruota, perché tenga almeno fino al nostro ritorno a casa, in attesa di portarla dal gommista. Igor di Petrozavodsk, dove sei? Assicurandoci nuovamente che la gomma tiene, ci dirigiamo alla volta del centro storico di Graz per gustarci un po’ di spirito natalizio, qui davvero sentito e glorificato, nel senso che la città è un immenso filare di lucine e stelline a santificare il dio commercio… Sabato di inizio dicembre, il momento migliore per girare per il centro storico di Graz: troppa gente, un brulicare di persone alla quale non siamo più abituati; fila dappertutto, fila mostruosa alla funicolare per raggiungere il castello, fila inumana alla scalinata attigua; rinunciamo. In compenso, però, di bancarelle natalizie ne troviamo pochissime! Ci facciamo largo nella folla di italiani chiassosi, troviamo un gasthof dove facciamo uno spuntino (all’aperto, ovvio!) con birra e patatine; che vuoi che siano 9 gradi positivi per noi? Col sole, poi! Ormai siamo temprati! Quello che non ci torna, invece, è come mai siamo nella città patria della Puntigamer e dove ci voltiamo, ci offrono soltanto Gösser… Finito lo spuntino, altro giro per il centro storico, ci infiliamo nel fiume umano e, sinceramente, ci sentiamo un po’ spaesati da tanta folla e, dato che il mondo è davvero piccolo, in tutta questa moltitudine incontriamo anche la titolare della ditta di Max, rapita dallo shopping pure lei! Foto di rito! Girovagando, ammiriamo i tram che sembrano navette spaziali per tanto sono moderni, lustri ed aerodinamici. Un paio di ricordini natalizi li acquistiamo anche noi per amici e parenti.  In serata, per la cena, andiamo a farci coccolare nella birreria Puntigamer, bellissima, enorme, affollata. Ripensiamo, tra un boccale e l’altro, a tutto il nostro viaggio; al difficile riabituarsi alla luce, al caldo, alle strade senza neve, alla gente; che da domani torneremo alla vita di tutti i giorni. Al fatto che siamo sempre coi giorni contati e facciamo i salti mortali per infilarci dentro quanti più km possibili, purtroppo sacrificando tonnellate di cose da vedere perché non abbiamo il tempo materiale per godercele.

TORNANDO A CASA

Si parte con un sole che giudichiamo ancora fastidioso, sempre ormai verso sud, inesorabilmente verso sud, quasi che una forza superiore di gravità ci attiri a sé, verso casa. Di voglia di parlare ce n’è poca, un po’ per la stanchezza, un po’ perché abbiamo la testa infarcita di migliaia di chilometri stratificati sulle emozioni, un po’ perché… l’avventura è finita e quindi il senso di malinconia ci attanaglia, come al solito. Perciò ci lasciamo trasportare, come una palla da biliardo, sulle autostrade austriache per poi scollinare al valico di Tarvisio, e siamo nuovamente in Italia. In tutto questo immenso andare, il cupo rombo del motore è stata la nostra colonna sonora. Niente finestrini aperti, stavolta. Siamo andati e tornati praticamente sigillati nel nostro abitacolo, ma con l’orecchio attento a percepire ogni singolo cambio di rumore dovuto al fondo stradale più o meno innevato, più o meno ghiacciato, ogni vibrazione ci raccontava qualcosa in più della strada che avevamo sotto le ruote, con la neve che giocoforza attutiva tutto; e l’abitacolo (tolte le ore notturne) è stato praticamente la nostra casa per 18 giorni consecutivi, tutto a portata di mano, un confortevole nido tiepido che ci ha consentito di trasformare questa avventura in un ennesimo sogno realizzato. Col buio del pomeriggio nostrano, non possiamo non chiudere il nostro viaggio con una foto scattata, come da tradizione, nelle vicinanze di casa nostra; siamo andati e siamo tornati, come sempre. Ma andare e tornare dall’Artico russo, in pieno inverno, non è cosa da tutti i giorni, non è cosa da tutti gli anni. Ci concediamo un autoritratto assieme al nostro Patrol, il vero protagonista di tutte le nostre avventure, senza il quale non saremmo mai riusciti a macinare quasi 8.500 km. E stavolta ci sentiamo anche noi un po’… eroi di Murmansk.

A CASA

E’ lunedì, un qualsiasi lunedì di metà dicembre; con difficoltà si riprende con il lavoro, la routine; lo sappiamo già, per qualche tempo vivremo ancora di rendita, tutto il nostro essere è ancora in modalità viaggio, non è semplice chiudere con quest’esperienza intensa, magica, unica; e dentro noi in questi giorni si affaccia, chiara e limpida, la consapevolezza di scoprire che ogni cosa che ci circonda, per il momento, assume scarsa importanza. Max sparisce già prima dell’alba ed io lo ritrovo solamente alla sera, quando sono l’ultima a ritornare dal lavoro. Non ci vediamo da più di 12 ore, dopo 18 giorni passati (finalmente!) assieme h/24. Siamo tutt’ora in “surplace”, abbiamo le pupille ancora a forma di fiocco di neve. Non faccio in tempo a togliermi il giubbotto che ci abbracciamo stretti in silenzio e ci guardiamo negli occhi senza dirci nulla, ma sorridendoci complici per lunghi istanti, telegrafandoci con lo sguardo una sola frase: “CE L’ABBIAMO FATTA!”


TTT


25.12.16

Nemmeno 15 giorni dopo il nostro ritorno, un’ennesima immane tragedia colpisce nuovamente il popolo russo: proprio nel giorno del nostro Santo Natale, il famosissimo Coro dell’Armata Rossa viene praticamente sterminato dal disastro aereo di Soci. Basiti ed increduli, da questo blog vogliamo rendere omaggio alle povere ed innocenti vittime: il nostro pensiero e le nostre preghiere vanno a chi non c’è più ed alle loro famiglie, vi siamo vicini nel profondo dolore. Con le vostre magnifiche voci sarete sempre nei nostri cuori. Slava, Rossija!

15 commenti:

Anonimo ha detto...

io penso che un diario di viaggio, affinché sia stimolante, deve riuscire ad essere coinvolgente, racchiudere cioè nelle sue righe la capacità di includere il lettore nell'avventura che racconta
questo, alternando la paesaggistica a "briciole di simpatici pettegolezzi" del luogo, è riuscito nell'intento
non esito perciò a complimentarmi con chi,prima ha vissuto l'impresa e poi l'ha raccontata
ornella

max ha detto...

Ciao Ornella, ti ringraziamo davvero di cuore per aver letto il nostro racconto e complimenti per la tenacia! Ci sforziamo davvero per far sentire chi ci legge come nostro compagno di viaggio, sia pur “in differita”. L’intento è proprio questo: coinvolgere il lettore nelle nostre avventure di viaggiatori curiosi, evitando il più possibile i luoghi comuni e le banalità che, giocoforza, si annidano dappertutto. Riteniamo perciò che anche “i simpatici pettegolezzi del luogo” possano fornire un’idea dei posti da noi attraversati, forse più di tante fotografie!

Anonimo ha detto...

semplicemente stupendo .... siete dei avventurieri ... e una coppia fantastica ... avanti cosi :) maria grazia

max ha detto...

Carissima Maria Grazia, il tuo commento non può che farci piacere, soprattutto per quanto riguarda la "coppia fantastica"... è che tu non conosci i retroscena! Ma per due individui che non si vedono praticamente mai per tutto il corso dell'anno, e che si ritrovano,una tantum, a condividere la vita chiusi in un abitacolo per 150 ore (e mezzo) di seguito, e senza possibilità di fuga... credimi, è dura! Ma chi la dura, la vince, e noi, modestamente... l'abbiamo vinta! Pertanto, fino a quando ne avremo la possibilità, continueremo a condividere i nostri viaggi con voi!

Erik ha detto...

Certo che questo viaggio è incredibile. Si sta avvicinando la stagione invernale.... quasi da non credere! Complimenti, non so se riuscirò a pensarci .... seriamente.... vorrei imitarvi ma ... è molto difficile.

max ha detto...

Hai ragione Erik, è stato proprio un viaggio incredibile, e alla fine, è risultato il più intenso, sotto tutti i punti di vista! Quello che ci ha tolto più energie fra quelli affrontati finora. E’ stato anche però, quello che ci ha regalato le emozioni più forti, a pari merito solo al nostro primo viaggio nel lontano 2008.
Fra pochi giorni capiterà, e sarà inevitabile, ripassare mentalmente i luoghi e tutte le persone incontrate un anno fa. E so benissimo fin d’ora, che ci assalirà una sorta di malinconia.
Se posso permettermi di darti un consiglio, quando hai un progetto in atto e ci stai lavorando sopra, piuttosto ridimensionalo un pochettino se non ti senti sicuro al 100% di portarlo a termine, ma non rinunciarci mai. Un sogno, non dovrebbe mai essere spezzato.
Imitare qualcuno… in qualche frangente, potrebbe diventare addirittura pericoloso, o inutile, o senza senso. Fatti piuttosto una tua esperienza personale e vedrai che senza ombra di dubbio, diventerà unica nel suo genere e ne sarai orgogliosissimo.
A presto
Max

Giorgia ha detto...

Che viaggio, ragazzi!! Ma come vi è venuto in mente di andarci in inverno? Ah, sì: per farci vedere le foto! E avete fatto bene! Foto così non se ne vedono facilmente, la vita quotidiana in mezzo ad un colore solo. Il BIANCO. Mi avete fatto venire voglia. Non di partire (non ce la farei...) ma di una bella e abbondante nevicata, che avvolga tutto, che smorzi i rumori della città e di sentirmi un po' anche qui, a casa mia, nel grande Nord, sperando che le difficoltà che il ghiaccio impone alla vita di tutti riporti un po' di solidarietà e cameratismo pure tra vicini di casa.... Ciao!

max ha detto...

Grazie Giorgia.
Ci siamo andati per vedere l’effetto che fa! Perché era una sfida enorme per noi, per vedere di che cosa siamo capaci e perché la Russia stessa è sinonimo di inverno, e non si può omaggiarla che così! E speriamo davvero che stavolta nevichi anche qua! Grazie per il commento e continua a seguirci!

Francesca ha detto...

Fantastico viaggio, per tutta la lettura ho avuto l'impressione di viaggiare con voi. Le descrizioni così puntuali e magnifiche mi hanno fatto vedere quei luoghi, sentire con veri brividi quel freddo, provare le stesse emozioni ad una caduta di polvere di stelle, all'alba di madreperla, ai fiocchi di neve così ben disegnati. Ho conosciuto luoghi di cui non sapevo l'esistenza. E le bellissime foto che sembrano cartoline e inquadrature di film, hanno completato il viaggio. Grazie davvero, è stato un piacere viaggiare con voi.

max ha detto...

Grazie Francesca, siamo felicissimi di averti fatto viaggiare con noi in luoghi e destinazioni dei quali non sapevi l'esistenza! Scegliere mete e destinazioni insolite e poco conosciute dal grande pubblico ci dà grande soddisfazione, ma ancora più grande soddisfazione è sapere che chi ci legge è parimenti entusiasta delle nostre scelte, e l'entusiasmo dimostrato nei commenti come il tuo e degli altri lettori ci sprona a continuare nella ricerca di mete insolite che possano stupire e meravigliare! Ancora grazie per aver letto il nostro racconto di viaggio e saremmo felici di ricevere i tuoi commenti anche sugli altri viaggi da noi affrontati! Approfittiamo inoltre, di augurare una buona e serena Pasqua a te e alla tua famiglia!

Barbara ha detto...
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max ha detto...

Abbiamo inseguito per ben due anni il sogno di scoprire questa città, posizionata sulla costa settentrionale della Penisola di Kola. Infatti, durante il viaggio a Capo Nord, avevamo sfiorato il confine che poi successivamente ci avrebbe permesso di raggiungere Murmansk in solitaria. Per noi era veramente un sogno arrivarci! La Russia è sempre un Paese meraviglioso da visitare, ma senza neve, forse, perde un po’ del suo tradizionale fascino. Siamo partiti sperando di incontrare un inizio inverno degno del suo nome. E’ stato veramente il viaggio più stancante, il più misterioso, quello che ci ha tolto più energie, ma sicuramente quello che ci ha regalato le soddisfazioni maggiori.
Abbiamo scoperto che vivere e lavorare nella più grande città al mondo situata ben 220 km. oltre il Circolo Polare Artico, non comporta nessun tipo di disagio. Abbiamo visto squadre di operai asfaltare strade alle 10 di sera, persone che spalano la neve a mano con grandi pale e senza l’ausilio meccanico, negozi aperti e funzionali, allegri bambini che giocano senza nessun problema nel giardino della scuola con un forte vento ed una nevicata a -10°C! In Italia tutto ciò è quasi inconcepibile! Tutto quanto abbiamo visto è stato incredibile ai nostri occhi non abituati a queste latitudini. Ma sappiamo per certo che un giorno ci ritorneremo!
Grazie per aver letto il nostro blog!

max ha detto...

Jeg elsket å lese om Murmansk, jeg bodde ikke der, men livet i nord er fantastisk og vi kan gjøre alt om vinteren: sykle, gå

Barbara
(commento ritrovato dall'amministratore del blog, postato il 04 luglio 2019 14:39)

Anonimo ha detto...

Ho trovato tutto in questa frase: "tornare a casa non con il conteggio delle cose viste, quanto con la consapevolezza del "peso" delle stesse".
Bravissimo/a chi ha scritto questa frase....

Sara

max ha detto...

Ciao Sara, e grazie per averci letto e scritto!
Questa frase, che ci è venuta così spontanea, riflette e condensa tutta l'esperienza maturata in questi anni di viaggi, non da semplici turisti, ma da viaggiatori consapevoli, che affrontano orizzonti inusuali e faticosi, smarcandoci appunto da quella "leggerezza" tipica di chi in vacanza ci va solamente per staccare e poi ritorna con il conteggio delle cose viste e fatte da raccontare ad amici e parenti; in tutte le "cose" noi cerchiamo il significato, che si manifesta appunto nel valutare il "peso" delle stesse, cioè l'importanza che assumono nel luogo attraversato, nei suoi aspetti sociali, ambientali, esistenziali e, in definitiva, di quanto queste "cose" influiscano pure su noi stessi, forse cambiandoci, forse maturandoci, sicuramente lasciando traccia nei nostri cuori e, speriamo, in quelli di chi si imbarca con noi leggendo le nostre avventure.